PERI, Iacopo
Musicista, nato a Roma, di famiglia toscana, il 20 agosto (secondo alcuni il 5) 1561, morto a Firenze il 12 agosto 1633. Compì gli studî musicali sotto la guida di Cristofano Malvezzi, il noto madrigalista che doveva in seguito collaborare con il discepolo in importanti intermedî per feste di corte, e che allora occupava già il posto di principale direttore "della musica et dei musici" presso i Medici. A quanta serietà si siano informati tali studî (di canto, di cembalo e di composizione) risulta dalla buona stesura delle parti nelle musiche polivocali del P., per quanto di siffatte musiche nella produzione dello Zazzerino (il soprannome di solito dato al musicista dai suoi contemporanei) non sia gran copia. La maggior ragione della rinomanza che circonda la figura del P. è però determinata dalle musiche composte in stile monodico-accompagnato, e specialmente dalle monodie "rappresentative" di cui il P. fu tra i primissimi cultori.
Questo musicista, dotato di singolare arte d'interprete, sì nel canto come nel suono, si presentava, insieme con V. Galilei e G. Caccini, come tipico esponente della scuola dei "cantori al liuto" giunta a consapevolezza estetica attraverso le feconde relazioni ormai intercedenti tra il canto monodico semipopolaresco e la polifonia d'arte, specialmente profana, degli ultimi madrigalisti italiani: L. Marenzio, G. da Venosa e C. Monteverdi. Posto di frequente dalle sue funzioni auliche nell'occasione di curare anch'egli, insieme con altri artisti, studiosi, gentiluomini come E. Del Cavaliere, V. Galilei, G. Caccini, G. Bardi, I. Corsi, L. Strozzi, A. Striggio, ecc., l'allestimento di rappresentazioni teatrali, e di collaborare alla composizione delle musiche da esse richieste, il P. vede avvalorare dal pensiero e dalla prassi di tale ambiente, profondamente permeato di umanesimo, la sua naturale tendenza a concepire il discorso musicale "rappresentativo" come canto monodico, atto a esplicare anche nella musica in luce immediata quei valori individuali che già erano esplicati dal discorso poetico e in modo analogo dalla contrapposizione scenica di personaggio a personaggio.
Così nella produzione di Iacopo vediamo la definitiva emersione della monodia da arte semipopolaresca ad arte dotta, sotto l'egida di quel pensiero umanistico che per tal via intendeva, con G. Bardi, V. Galilei, ecc., richiamare anche in musica gli spiriti e i concetti delle civiltà classiche. Come il Bardi e il Galilei, e come gli altri della Camerata fiorentina, anche il P. parla non raramente di siffatto richiamo, che noi oggi possiamo definire abbastanza fallace: fino dai primi saggi del nuovo stile (nella perdita del Conte Ugolino e delle Lamentazioni di Geremia di V. Galilei, oltre che delle pastorali di E. del Cavaliere, restano primi alcuni madrigali di G. Caccini) assai più che richiami a modelli classici udiamo richiami al naturalistico modello del comune linguaggio di tutti, ora "imitato" e seguito passo passo nelle zone in recitativo (che nella prefazione alla Rappresentazione di Anima e Corpo di E. del Cavaliere è detto "recitar cantando"), ora innervato di drammatici impulsi, o finalmente sollevato in empito lirico in zone più o meno esplicitamente melodiche. Chiaramente gl'intenti del P. sono esposti nella prefazione all'Euridice, dove l'artista scrive, tra l'altro, queste parole "Conobbi... nel nostro parlare alcune voci intonarsi in guisa che vi si può fondare armonia, e nel corso della favella passarsi per altre molte, che non s'intuonano, finché si ritorni ad altra, capace di movimento di nuova consonanza; e avuto riguardo a que' modi e a quegli accenti, che nel dolerci, nel rallegrarci, ecc., in somiglianti cose ci servono, feci muovere il Basso al tempo di quegli, or più or meno secondo gli affetti, e lo tenni fermo tra le false e le buone proporzioni, finché scorrendo tra le varie note la voce di chi ragiona, arrivare a quello che nel parlare ordinario intonandosi, apre la via a nuovo concetto.. .". Ora va notato che nei documenti concreti che di tali intenti mostrano l'attuazione il P. manifesta più di ogni altro "fiorentino" un rigore che ha quasi costanza di metodo. Di rado le pagine della sua Euridice abbandonano siffatta paziente "imitazione" del parlare comune, per formarsi una sintassi esplicitamente melica. Di parentesi meliche possiamo ricordare, all'infuori degl'interventi corali danze, ecc. (per sicurezza e vigore di scrittura superiori alle analoghe pagine di G. Caccini), quasi soltanto il canto di Tirsi "Nel puro ardor della più bella stella" e la scena a soli e coro "Sospirate, aure celesti" con le strofe del tenore "Ben nocchier costante e forte...". Ma tale rigore, a lungo andare produttore di monotonia, deriva comunque da un carattere intimo del P., e questo riesce talvolta a esplicazioni felici, là dove l'azione s'arresti, cedendo alla meditazione, quasi, si direbbe, all'introspezione. Nel monologo d'Orfeo "Funeste piaggie, ombrosi orridi campi..." la scansione del "recitar cantando" dà alla parola una risonanza affettiva (e cioè una concretezza d'arte) assai vasta e profonda. Non per nulla il P. poté esser lodato, in confronto con G. Caccini, per pensieri "...più nobili e [per] uno stile... più tragico" (G. B. Doni, Compendio del trattato dei generi e dei modi musicali, Roma 1635). E in questa sua Euridice, che in mancanza delle pastorali di E. del Cavaliere e della Dafne del 1594 segna per noi la prima apparizione del "dramma per musica", cioè dell'"opera", la consapevolezza e la delicata, talvolta profonda, sensibilità del P. riescono a creare entro e intorno alla favola del Rinuccini una diffusa e armoniosa aura di commozione ove la voce, la parola delle persone sceniche s'intonano, un po' con monotonia, è vero, ma anche con bella naturalezza d'inflessioni e di lirici accenti. Se dal P., come dagli altri della Camerata dei Bardi, non fu inteso il superiore concetto del dramma, nel senso, almeno, in cui lo intesero poi un Monteverdi, un Gluck e gli Ottocentisti; se lo stesso suo teorizzare l'imitazione della favella comune rimane nelle gore del naturalismo, è però certa l'artistica realtà della sua prassi, tanto nelle linee generali del quadro operistico quanto nell'interna condotta del recitativo. Valori estetici, questi, che nel corso dei secoli hanno acquistato posizione di valori storici: il teatro fiorentino, nella sua pianta struttiva e nel suo filo conduttore, il "recitar cantando" rimane ancor oggi l'estrema base cui si richiama ogni riforma operistica.
Opere: Delle composizioni del P. son giunte a noi soltanto le seguenti: Le Musiche di Jacopo Peri Nobil Fiorentino sopra l'Euridice del Sig. Ottavio Rinuccini, rappresentata nello sposalizio della Cristianissima Maria Medici Regina di Francia e di Navarra, Firenze 1600 (presso G. Marescotti), esemplari nelle bibl. di Bologna, Firenze, Bruxelles, Crespano; altra edizione a Venezia (A. Raveri) 1608, esemplari a Bologna, Firenze, Roma, Londra; ed. moderne, Firenze (Guidi) 1863, Milano (Ricordi), in L. Torchi, L'arte musicale in Italia, VI; pagine scelte a cura di R. Eitner, e di C. Perinello; Le varie musiche del Signor J. P. a una, due e tre voci alcune spirituali in ultimo per cantare sul Clavicembalo e Chitarrone, e ancora la maggior parte di esse per sonare semplicemente nel organo, ecc., Firenze (C. Marescotti) 1600, esemplari a Firenze, Roma, Venezia, Crespano, Berlino; altra ed., con aggiunta d'arie nuove dell'istesso..., Firenze (Z. Pignoni) 1615; pagine diverse nelle raccolte di P. Benedetti (Musiche, 1611), A. Brunelli (Scherzi, 1614), C. Malvezzi (Madrigali a 5 voci, I libro, 1583, e Intermedî e Concerti, 1591), oltre il canto per soprano solo sul basso continuo (ms. a Bologna): Uccidimi Dolore. Oltre a queste pagine, il P. altre ne compose, delle quali abbiamo notizia da documenti contemporanei: insieme con I. Corsi e probabilmente con G. Caccini, egli diede il tono nel 1594 (secondo lo stile fiorentino per 1595) a una Dafne, su poema di O. Rinuccini. L'opera, cui arrise grandissimo favore, dovuto in parte anche alla novità del nuovo stile, fu ripresa nel 1597, nel 1598 e nel 1599. Il P. lavorò in seguito, nel 1608, alle parti recitative dell'Arianna monteverdiana e a una Tetide che però non giunse a rappresentazione; nel 1615, con P. Grazie, G. B. Signorini e G. del Turco, a un'opera La guerra d'Amore; nel 1620 all'Adone nel 1625 a La precedenza delle Dame, spettacoli scenici destinati rispettivamente a Mantova e a Firenze, il primo dei quali non sembra essere stato allestito. E probabile che abbia dato opera anche alla stesura della Flora di M. da Gagliano.
Bibl.: G. O. Corazzini, Commemorazione della Riforma melodrammatica, in Annuario del R. Istituto musicale di Firenze, Firenze 1905; A. Solerti, Le origini del melodramma, Torino 1903; id., Albori del melodramma, Palermo 1904; M. Mila, J. P., in La Rassegna musicale, 1934. V. inoltre monodia; musica; opera; e i passi dedicati al P. in tutte le opere di storia musicale.