LINUSSIO, Iacopo
Nacque a Villa di Mezzo, nella Carnia, l'8 apr. 1691 da Pietro e da Maria Del Negro. Il padre era mercante di lino (da cui forse il cognome) di condizione modesta, il che tuttavia non gli impedì di far apprendere ai figli le prime nozioni grammaticali, secondo una prassi radicata nella zona. Non appena raggiunta l'età per essere assunto come garzone, il L. fu inviato a Villach, in Austria, per esercitarsi nella tessitura; in seguito continuò il tirocinio presso la manifattura di Giovanni Prabotti, a Tolmezzo, e attorno al 1712 figurava in qualità di agente-venditore di Cillenia Zanis Roia, sempre in quel settore tessile che costituiva la principale risorsa delle popolazioni carniche, giuliane e della vicina Carinzia.
Non appena poté disporre dei mezzi necessari, il 29 nov. 1717 impiantò a Moggio, presso Tolmezzo, una piccola attività per la pettinatura del lino, nell'ambito di quelle distinte fasi di produzione di semilavorati destinati alle ditte che realizzavano il prodotto finito. L'attività del L. dovette avere successo, se qualche anno dopo la sua attività si ampliò con l'insediamento di due altre manifatture, a Gleria di Moggio e a Caneva di Tolmezzo (quest'ultima destinata a divenire la sede principale), fra il 1722 e il 1725. Ormai il L. era in grado di controllare l'intero ciclo lavorativo per la produzione di tele miste di canapa e lino stampato. Le cause di questo suo rapido successo sono da ricercarsi, da un lato, nella capacità di limitare i costi di lavorazione in base a un sistema produttivo che alle operazioni di rocca e fuso domiciliari, condotte presso famiglie di contadini-artigiani, faceva seguire nelle sue manifatture le fasi specializzate come la tessitura, la biancheggiatura e la tintura ("putting-out system"); dall'altro nella capacità di imitare panni di produzione oltramontana, come i "naisoter" slesiani, sulla base di informazioni e campioni che gli fornivano i numerosi commercianti carnici operanti dalla Boemia alla Baviera. A queste principali ragioni del rapido decollo imprenditoriale del L. si devono aggiungere il ricorso su larga scala di merciai ambulanti (una pratica di cui lo stesso L. aveva esperienza diretta) e le ampie esenzioni doganali tempestivamente concesse dal governo marciano: rispettivamente il 23 ag. 1725 e il 6 apr. 1726 il magistrato dei Savi alla mercanzia limitava per un decennio al 2% il dazio sull'importazione di 30.000 libbre di lana grezza di provenienza levantina, e l'esenzione totale di quello di smercio per tutti i prodotti (tele e damaschini) delle manifatture Linussio.
Questi privilegi, puntualmente confermati a ogni scadenza decennale, nonostante le opposizioni dei mercanti udinesi e dei titolari di manifatture concorrenti (come quella di Tommaso Dal Fabbro, sorta pure a Tolmezzo, nel 1729), indicano buone aderenze veneziane da parte del L.; in effetti, tra i savi che sottoscrissero il fondamentale decreto del 1726, figura il nome di Nicolò Tron, uno dei maggiori responsabili della politica economica e finanziaria del governo marciano e imprenditore egli stesso (si deve a lui la creazione, nel 1718, del lanificio di Schio destinato a grande fortuna e subito dotato di una macchina a vapore Newcomen-Savery, importata dall'Inghilterra); Tron, che ebbe modo di conoscere il L. probabilmente tramite Antonio Zanon, mercante ed economista di formazione mercantilista, non avrebbe fatto mancare neppure in seguito il suo patrocinio al L.: fu proprio lui, quando nel 1739-40 ricoprì la carica di provveditore a Palmanova, a promuovere il taglio del canale di Muscoli, al fine di collegare la Carnia al mare evitando i territori arciducali e il pagamento dei relativi dazi per le merci in transito. Nella mente di Tron e dei suoi più avvertiti colleghi, l'iniziativa del L. rientrava nell'ambito di un vasto progetto di politica economica, volto a promuovere l'imprenditoria veneta contrastando le importazioni da paesi esteri: nella fattispecie, le manifatture goriziane e carinziane.
I privilegi del 1726 furono preceduti da un'ispezione ordinata dal magistrato alla Mercanzia, da cui si ricava l'entità di una produzione che aveva ormai raggiunto proporzioni ragguardevoli: dalla sola manifattura di Moggio uscivano annualmente 3000 pezze di renzetti, con un impiego di 200 tessitori e 2500 filatrici domiciliari; non solo, ma in base a una rimostranza dei linaioli udinesi si evince che "nel numero essorbitante delle botteghe" del L. "aperte per tutto il vasto giro di codesta Patria, non s'ha il medesimo contentato di far pettinare […], ma in aggionta ha voluto in dette botteghe innestare un altro piccolo negozio, ma universale, di merci grezze inservienti al vestito de' contadini, e così pure casaria, droghe, oglio ed altro […], cosicché li villici che prima concorrevano in Udine per provvedersi del lor bisognevole, ora […] si provvedono nelle medesime" (Arch. di Stato di Venezia, Cinque savi alla Mercanzia, b. 589, 6 sett. 1744). Il L. giunse inoltre a completare il circuito economico coniando una moneta, spendibile nelle sue botteghe, con cui parzialmente pagava i suoi dipendenti: in tal modo il rapporto che si creava tra questi e il datore di lavoro assumeva i tratti di un paternalismo totalizzante.
La qualità dei prodotti del L., che si valeva anche di complessi macchinari, raggiunse alta levatura e notevole bellezza; la capacità imprenditoriale e le sue aderenze politiche - che non gli vennero mai meno, in fortunata concomitanza con il programma protezionistico allora incentivato dal governo marciano - fecero il resto. Il L. fu autentico self-made man, e seppe abilmente coniugare sviluppo economico e autocelebrazione a fini propagandistici, attraverso il ricorso a un mecenatismo culturale basato sulla costruzione di ricche dimore e l'abbellimento di chiese e altri edifici pubblici.
Risale al 1735 l'acquisto, perfezionato qualche anno dopo, di una tenuta di 600 campi a San Vito al Tagliamento, la cosiddetta casa bianca dei conti Camucio, destinata alla coltivazione e alla pettinatura del lino, con residenza dominicale e cappella; fra il 1739 e il 1741 seguì la costruzione di un notevole complesso architettonico tardobarocco a Tolmezzo, dalla configurazione ad H: il corpo centrale, destinato a divenire la residenza della famiglia, è arricchito da un vasto salone da ballo, con loggiato e balaustra a mezz'altezza, affrescato da Davide Antonio Fossati; dal nucleo dominicale si dipartono ampi cortili destinati a ospitare gli insediamenti produttivi; notevole la cappella dell'Annunziata (1746), annessa alla villa, che sembra opera di Domenico Schiavi, a cui il L. affidò anche la sistemazione del duomo cittadino. Del 1739 è pure l'apertura di un lazzaretto a Capodistria per "purgare" i fili provenienti dalla Slesia e dall'Ungheria, colpite da un'epidemia contagiosa, seguita (1740) da quella di una nuova fabbrica a ovest di Udine. Quest'ultima impresa fu possibile grazie a un prestito di 3000 ducati accordati dalla locale Confraternita di S. Giacomo, circostanza che testimonia come il L. avesse ormai vinto l'ostilità delle corporazioni in quella città.
I dati del 1745 e 1747 indicano progressivi incrementi sia nella produzione manifatturiera, sia del capitale di merci stoccate, che raggiunse il valore di 200.000 ducati, mentre l'azienda disponeva di canali commerciali che, attraverso Cadice e Costantinopoli, permettevano la distribuzione delle merci nelle Americhe e in Asia.
"Un vero colosso dell'industria", secondo la definizione di G. Luzzatto, la creazione del L., che forse avrebbe potuto pervenire a ulteriori successi se un'infezione alla gola non lo avesse portato a morire a 56 anni, nel suo palazzo di Tolmezzo, il 17 giugno 1747.
Dalla moglie, Anna, il L. ebbe quattro figlie e un figlio, Pietro Antonio. Nel testamento il L. aveva disposto generosi lasciti in favore del duomo di Tolmezzo e di varie chiese della Carnia. La direzione dell'azienda passò al fratello Gian Pietro, in attesa della maggiore età del figlio ed erede. L'azienda conobbe un'alternanza di brusche flessioni ed effimere riprese, ma la scomparsa del L. coincise sostanzialmente con l'inizio della decadenza, culminata nella liquidazione della ditta fra il 1813 e il 1814.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Cinque savi alla Mercanzia, b. 589 (28 maggio 1729, 7 sett. 1729, 6 sett. 1744); A. Zanon, Edizione completa degli scritti di agricoltura, arti e commercio, Udine 1830, VI, pp. 273 s.; VII, p. 66; L. Palladio degli Olivi, Memorie udinesi dal 1700 al 1767… compendiate dal co. G. Caimo-Dragoni e pubblicate da G. Occioni-Bonaffons, Udine 1889, p. 24; L. Molinari, Una grande industria carnica del Settecento…, Tolmezzo 1920; G. Luzzatto, Storia economica dell'età moderna e contemporanea, II, Padova 1948, p. 174; S. Ciriacono, Protoindustria, lavoro a domicilio e sviluppo economico nelle campagne venete in età moderna, in Quaderni storici, XVIII (1983), 52, p. 64; M. Dal Borgo, Due marchi di fabbriche tessili privilegiate nella Repubblica di Venezia (XVIII secolo), in Ateneo veneto, CLXXIV (1986), pp. 155-158, 160 s.; G. Ganzer, La fabbrica Linussio, "colosso dell'industria" nel Settecento, in Archivio veneto, s. 5, CLXVIII (1989), pp. 67-82; I. L.: arte e impresa nel Settecento in Carnia (catal.), Udine 1991; G. Gullino, I. L., Nicolò Tron ed una possibile manovra di politica economica agli inizi della protoindustria veneta, in Chiesa, società e Stato a Venezia. Miscellanea di studi in onore di Silvio Tramontin, a cura di B. Bertoli, Venezia 1994, pp. 197-206.