GUIDI, Iacopo
Nacque a Volterra il 14 ag. 1514 da Giovanni e Caterina Dorotea di Giovanni Inghirami, entrambi appartenenti a famiglie di antica origine cittadina.
Giovanni, nato nel 1464 e morto nel 1530, fu un celebre dottore in legge, lodato da Marsilio Ficino; ebbe contatti con numerosi giuristi e storici quali Bartolomeo Sozzini, Filippo Decio, Silvestro Aldobrandini, Ormanozzo Deti e Francesco Guicciardini. Scrisse alcune opere di argomento giuridico e dedicò a Clemente VII un insolito Trattato sui minerali, pubblicato postumo a Venezia nel 1625 (Marrucci). Oltre al G. ebbe altri cinque figli: Caterina, Maria (sposata Maffei), Francesco, un'altra Maria entrata in convento, e Salvatico. Quest'ultimo fu avvocato, lettore a Pisa e uditore della ruota di Siena. Anche Francesco fu dottore in legge, sposato a una Landini di Volterra, città nella quale ricoprì alcuni uffici pubblici.
Educato dalla madre ai principî religiosi, il G. fu avviato dal padre e dallo zio Sebastiano alla poetica, alla logica e alla retorica. Persi il padre e lo zio all'indomani dell'assedio di Volterra (1530), della presa della città e della successiva pestilenza, il G. consumò buona parte del patrimonio per monacare e accasare le sorelle. Fin dalla prima gioventù il G. aveva dato inoltre prova di possedere buone qualità letterarie. Il G. entrò in sacris probabilmente solo nel 1554.
L'incontro determinante della sua vita fu con Francesco Guicciardini, vecchio amico del padre. Anche se non sempre esatta o puntuale, è fonte preziosa di questo periodo giovanile, come di tutta la vita del G., la biografia conservata nell'archivio di famiglia che di lui scrisse il nipote Giovanni presumibilmente all'inizio del Seicento.
Un Guicciardini - è incerto se Francesco o Agnolo - accolse il G. nella sua casa fiorentina probabilmente nel 1522-23 e certamente fu accanto a Francesco che il G. iniziò la sua formazione letteraria e il suo apprendistato politico, in cui si inserisce la collaborazione con quest'ultimo, nominato presidente della Romagna (1524).
Appare improbabile che l'allora quindicenne G. fosse partecipe di ogni decisione, anche segreta, del presidente della Romagna, così come racconta suo nipote. Più corrispondenti alla realtà sembrano invece le notizie che lo descrivono mentre prendeva parte alle sacre funzioni e assisteva, nei momenti in cui le occupazioni deputate si allentavano, alle lezioni tenute in quella città dai più eminenti dottori.
Nell'autunno del 1533 accompagnò Francesco Guicciardini a Marsiglia, dove Clemente VII e Francesco I conclusero le trattative per le nozze di Caterina de' Medici ed Enrico di Valois. Nel 1535-36 era ancora accanto a Guicciardini nella missione a Napoli per conto del duca Alessandro de' Medici, allorché si dovettero confutare presso l'imperatore Carlo V le rivendicazioni giuridiche degli esuli fiorentini tese a dimostrare l'illegittimità del governo del Medici.
Morto Alessandro (1537), Cosimo de' Medici, che aveva conosciuto il G. a Napoli e ne aveva apprezzato le qualità, lo volle come segretario. Successivamente fu inviato presso Girolamo Guicciardini, al seguito di Carlo V. Probabilmente il G. iniziò la sua permanenza presso l'itinerante corte imperiale nel 1543. Era allora ambasciatore di Cosimo Giovambattista Ricasoli vescovo di Cortona, succeduto a Guicciardini, che per le lunghe indisposizioni cui fu soggetto durante la legazione dovette lasciare al G. di trattare direttamente con Nicolas Perrenot di Granvelle e lo stesso Carlo V. Sembra che il G. ottenesse allora la restituzione delle fortezze di Firenze e Livorno, avvenuta nel 1543, certo aiutato dai 150.000 scudi versati da Cosimo all'imperatore.
Richiamato dal duca presumibilmente alla fine del 1543, il G. cadde malato e dovette trascorrere un intero anno tra Anversa, ospite ancora una volta dei Guicciardini che lì avevano una piazza di mercatura, e Lovanio, dove ebbe modo di dedicarsi ai suoi studi. Tornato a Firenze, ne ripartì subito alla volta della Francia per accompagnare Bernardo de' Medici, vescovo di Forlì, legato alla corte dal 1544 al 1545. In seguito il G. fu dirottato per pochi mesi a Venezia come segretario dell'ambasciatore Pier Filippo Pandolfini (probabilmente nel 1546). I suoi compiti in quella sede non si dimostrarono particolarmente pressanti, e ciò gli permise di studiare e di stringere amicizia con personaggi di spicco come Niccolò Da Ponte.
Tornato a Firenze, il G. continuò a coltivare i suoi interessi letterari, facendosi arrivare libri dall'estero (da Parigi in particolare), che divideva con Agnolo Guicciardini e spediva a Volterra dietro richiesta di amici. Tra i volumi menzionati ci sono la Methodus de legibus di Giustiniano, un "Aristofane" in greco legato in cartapecora, "un Dante".
Dopo la morte del vecchio segretario incaricato di attendere alle suppliche presso il sovrano, il vescovo Agnolo Marzi Medici, che aveva anche economicamente aiutato il G. quando giovanissimo era giunto a Firenze, Cosimo I deputò con motu proprio a quell'ufficio lo stesso G., scavalcando la concorrenza di molti servitori.
Nell'ufficio delle suppliche il G. avrebbe dato prova di zelo, mosso da una spiccata sensibilità verso le vicende dei cittadini di più bassa condizione. Impiegato nelle suppliche o in altri compiti, il G. fu segretario dalla fine degli anni Quaranta ai primi anni Sessanta, periodo in cui la fiducia del duca in lui crebbe tanto da richiederne il consiglio negli affari più delicati. In corte il G. si occupò della corrispondenza straniera e in latino. In virtù della conoscenza dello spagnolo e del francese, che si aggiungevano al latino e al greco antico, il G. si rivelò utile e stimato servitore del duca. Per ricompensarlo, Cosimo gli concesse una entrata fissa nella città di Pisa - forse l'ospedale detto "del Grasso" -, in aggiunta alla sua provvisione di segretario, che avrebbe dovuto consentirgli un tenore di vita più decoroso e che comunque egli utilizzò per restaurare una chiesa sui possedimenti di famiglia. Fu insignito dal pontefice della commenda gerosolimitana dell'ospedale di S. Lazzaro di Volterra, beneficio di collazione della famiglia Guidi. Ottenne poi un beneficio situato vicino Volterra, probabilmente la pieve di S. Giovanni Battista in località Montignoso, concessogli da Pio IV con bolla del 25 giugno 1562.
Proprio a Montignoso si trovava un giacimento di vetriolo, di cui il G. affittava triennalmente il diritto di estrazione. Nel vetriolo andrebbe riconosciuto quel "minerale" il cui sfruttamento, secondo quanto scrive Giovanni nella biografia, permise di migliorare la condizione economica del G. "che di non ricco cortigiano cominciò a rilucere tra i più ricchi e splendidi". In questi anni il G. consolidava la sua posizione privilegiata accanto al duca, allora impegnato nella difficile guerra di Siena (1552-59) ed ebbe tra i suoi compiti le missioni fuori dalla Toscana (incontrò il viceré di Napoli ad Aversa nel 1559) e la gestione di consistenti quantità di denaro per varie occorrenze, come la paga dei soldati delle bande ducali o di quelli delle galere di S. Stefano (1552), o per elemosine, senza però lasciarsi mai convincere dalle proposte di certi mercanti fiorentini che intendevano persuaderlo a depositare presso di loro il denaro di cui veniva in possesso. Fu tuttavia questo delicato ufficio a indebolire la posizione del G. a corte, soprattutto in merito a certi prestiti straordinari richiestigli da Eleonora di Toledo. In questo caso accondiscendeva alle richieste della duchessa, fatto salvo che la cifra complessiva, come lui dichiarava, non superasse l'entità del patrimonio personale di Eleonora, con cui questi prestiti avrebbero dovuto comunque essere estinti.
Proprio su tale terreno avrebbero fatto leva, secondo il biografo Giovanni, certi invidiosi della corte. Questo fu chiaro sul finire del 1559, quando sembrava che il vescovo di Pistoia, Pietro da Gagliano, avrebbe rinunziato al vescovato in suo favore. Nonostante la morte improvvisa avesse impedito al vescovo la rinunzia, i canonici concorsero ugualmente nell'elezione del Guidi. Tutto ciò avvenne in periodo di sede vacante in seguito alla morte di Paolo IV. L'elezione del nuovo pontefice, Pio IV, in ottimi rapporti con Cosimo, lasciava prevedere i migliori sviluppi nell'assegnazione di Pistoia, ma così non avvenne.
Il vescovo di Cortona, Giovambattista Ricasoli, e Bartolomeo Concini, inviati a Roma a rendere omaggio a Pio IV, ottennero, in chiara opposizione al G., che nel febbraio del 1560 il vescovato andasse allo stesso Giovambattista e la rinunziata Cortona a un fratello di Concini, Matteo. Scelta per loro vincente fu quella di far leva sulla cattiva disposizione del papa verso un'elezione capitolare che considerava lesiva della propria autorità.
Vittima di ostilità cortigiane o piuttosto sacrificato alla volontà di accentramento dell'autorità pontificia nelle nomine episcopali, il G. ottenne dal duca la promessa di un appoggio per ottenere la prima diocesi possibile. In effetti il 2 giugno 1561 ebbe il vescovato di Penne e Atri in Abruzzo, rimanendo per deroga papale eccezionalmente titolare della commenda gerosolimitana, giacché le entrate del vescovato non erano stimate adeguate alla dignità prelatizia. Non risulta che egli si sia recato subito alla residenza; più verosimilmente continuò a risiedere in Toscana, da dove dovette partire l'anno successivo per partecipare al concilio di Trento.
Il 13 dic. 1562 il G. arrivò a Trento, dove risiedette fino alla chiusura dell'assise, il 4 dic. 1563. A Trento, anche in virtù di precise istruzioni di Cosimo, il G. fu vicino al partito degli zelanti, in particolare al cardinale Ludovico Simonetta che gli fece avere dal papa "un donativo et un continuo stipendio" tale da consentirgli una maggiore tranquillità economica. Si legò anche al cardinal nipote Carlo Borromeo, con cui iniziò una lunga amicizia e che per il momento gli permise di avere la provvisione di 25 scudi mensili goduta da molti altri prelati ma non da lui. Ricoprì inoltre anche la carica di segretario del concilio.
A Trento il G. si distinse più che per i suoi diretti interventi, per l'attenta osservazione delle materie trattate e dei pareri espressi, che venivano appuntati in forma succinta, poi nuovamente esposti in lingua latina una volta che il vescovo se ne era ritornato ai suoi alloggi privati. Il G. iniziò in questo modo una prima redazione del diario del concilio, cui avrebbe cercato di dare forma compiuta in tarda età e che rimase manoscritto nelle carte di famiglia, nonostante la pubblicazione annunciata e mai realizzata da H. Jedin. Il G. fu anche uno degli informatori del duca di Firenze sulle sedute del concilio. Le sue relazioni (pubblicate da A. D'Addario nel 1964), per quanto meno numerose di quelle dell'ambasciatore Giovanni Strozzi, sono a esse complementari e testimoniano l'allineamento del G. al partito curiale. Accanto alla corrispondenza pubblica il G. ne mantenne una personale con i parenti e la famiglia Guicciardini, in particolare con Girolamo.
Rientrato da Trento, il G. si fermò a Firenze per pochissimo tempo, richiamato a Volterra dalla morte del fratello Francesco e dalla necessità di assistere i numerosi nipoti rimasti orfani. Così come aveva fatto ancor giovanissimo per le sorelle, il G. dette prova di un acuto senso del casato. Riuscì a realizzare per una delle due nipoti un matrimonio conveniente, mentre l'altra, non ancora in età nubile, fu da lui posta provvisoriamente in un convento in attesa che raggiungesse l'età da marito. I quattro nipoti, già avviati alle lettere, continuarono a essere mantenuti negli studi.
Nel 1564, seguendo l'invito di Cosimo e del pontefice, il G. raggiunse Penne, dove rimase fino al 1568. Soggiornò tra le due sedi di Atri e di Penne, dove fu impegnato anche in azioni di chiara natura inquisitoriale. L'opera di riorganizzazione della vita religiosa della diocesi, della riforma dei costumi del clero, affiancata dall'impegno più spiccatamente pastorale, rappresentarono comunque l'impegno principale del Guidi.
La situazione in quelle terre sembrava difficile per più ragioni, e il G. non fu certo soddisfatto che gli venisse affidato un vescovato dell'Italia centromeridionale e di difficile amministrazione, quando aveva ardentemente desiderato la vicina e prospera sede di Pistoia. Con il duca di Atri (feudo degli Acquaviva di Aragona) i rapporti dovettero essere buoni, mentre a Penne la situazione appariva senz'altro più difficile. La città era infatti un possesso personale di Margherita d'Austria - figlia di Carlo V, moglie di Ottavio Farnese e vedova del duca fiorentino Alessandro -, con cui i Medici erano in contrasto in merito alle eredità di Alessandro e del defunto cardinale Ippolito. Inoltre le vicissitudini della diocesi ne rendevano l'amministrazione ancor più problematica: il precedente vescovo, Tommaso Cortuberio, uomo vicino ai Carafa, fu privato del beneficio allorché Pio IV diresse la sua azione contro la potente famiglia del defunto Paolo IV e contro i loro clienti. Il G., quindi, dovette apparire agli abitanti e al clero di quelle terre come uno straniero che si proponeva di iniziare un'opera di disciplinamento e di erosione dei privilegi che il suo predecessore non aveva toccato. Lo "stato delle anime" del resto non era di più facile amministrazione di quello del clero. Nella diocesi, situata ai confini del Regno di Napoli, esistevano faide familiari di antica data su cui si innestavano continue "turbolenze" da parte di uomini descritti "sitibondi del sangue dei loro nemici". Giovanni Guidi sostiene che il G. si adoperò innanzitutto a riorganizzare il culto richiamando il clero a una più disciplinata residenza, e ottenendo buoni risultati. Sul piano sociale le accorate e solenni prediche in latino e volgare avrebbero invece concorso a pacificare anche famiglie da tempo ostili.
Durante la sua residenza ebbe modo di tornare a Volterra, da dove nel febbraio 1565-66 chiedeva la protezione del figlio di Cosimo, Francesco, certo con l'obiettivo di lasciare l'Abruzzo. Nello stesso anno cercava infatti di passare, con l'aiuto di Cosimo, al vescovato di Fiesole. Anche stavolta il duca non esaudì i desiderata del suo protetto. Solo la morte di Pio IV e l'elezione di Pio V Ghislieri allontanarono il G. da Atri e Penne.
Sembrò infatti evidente a Cosimo e ai suoi agenti romani che il Ghislieri intendeva rappacificarsi con la famiglia Carafa, e in particolare appariva chiara l'intenzione di restituire al Conturberio il beneficio abruzzese. Il duca consigliò quindi al G. di lasciare il vescovato prima che il pontefice glielo togliesse. La rinuncia, comunque sofferta visto che il G. avrebbe perso un'entrata necessaria per mantenere il suo status, avvenne nel 1568 e costituì nella vita del G. una svolta assolutamente negativa di cui egli si pentì sempre amaramente. Infatti il Conturberio morì subito dopo l'arrivo a Roma dell'atto di rinuncia, rendendo vana la preoccupazione del Guidi. Inoltre, la richiesta ormai presentata e la decisione di tornare a servire il duca di Toscana, quando Pio V lo aveva insistentemente invitato a recarsi al suo servizio a Roma, furono l'inizio di un'ininterrotta serie di delusioni di una carriera che non conobbe più i momenti felici degli anni del primo segretariato. Il nuovo servizio accanto al duca non fruttò nemmeno una paga eccessivamente ricca, visto che Cosimo affermava che i 200 scudi annui corrisposti al G., provvisione mediocre, erano imposti dalla necessità di non alimentare pretese di avanzamenti economici da parte degli altri. La continua frustrazione della sua ambizione, da lui ritenuta legittima dopo aver offerto per anni i suoi migliori servigi ai Medici, fu fonte di delusione e amarezza per tutta l'ultima parte della vita. Nell'estate del 1568, alla morte del vescovo di Volterra, Alessandro Strozzi, il G. cercò invano di ottenere il vescovato della sua città natale. Ma in quegli anni nella corte medicea gli equilibri erano mutati.
Per il biografo Giovanni, a rendere irreversibile il declino del G. contribuiva adesso l'ascesa attorno a Francesco, subentrato al padre in buona parte dei compiti di governo, di un gruppo di servitori definiti in più occasioni dichiaratamente ostili al Guidi. Tra loro era il segretario di Francesco, Antonio Serguidi, di famiglia anch'essa volterrana e imparentata con il G., che aveva addirittura favorito il suo ingresso al servizio di Francesco (1561). Sarebbe stato questo gruppo capeggiato dal Serguidi e da Concini, di cui Antonio era anche divenuto genero avendone sposato la figlia Elisabetta, con l'aiuto di appoggi romani, a ostacolare tutte le richieste del G. a Pio V. La motivazione di questi ripetuti fallimenti era sempre la stessa: l'impossibilità di ricevere vescovati nuovi per chi avesse in precedenza fatto atti di rinunzia, limitazione ritenuta infondata dal nipote del Guidi. Nel caso della vacanza di Volterra gli antagonisti favorivano Guido Serguidi, vicario dell'arcivescovo di Firenze e fratello di Antonio. Il G. avrebbe raggiunto allora Cosimo ormai gravemente malato esprimendo tutta la sua amarezza che la candidatura venisse posposta a quella di un personaggio ritenuto di qualità molto inferiori, ma tutto quello che ottenne fu che il vescovato della sua città andasse a Lodovico Antinori.
Gli anni che vedono Cosimo rinunciare alla guida diretta dello Stato a vantaggio di Francesco sono anche quelli in cui si arresta definitivamente la carriera del Guidi. Egli fu di nuovo accanto al duca quando questi si recò a Roma nel febbraio-marzo del 1570 per ricevere dalle mani di Pio V la corona granducale, ma da allora la sua figura inizia a oscurarsi. Legato al personale servizio di Cosimo, che dopo l'incoronazione si defilò ancor di più dal governo, vide ripercuotersi su di sé l'avvicendamento dinastico e cortigiano. Ritornato da Roma, il granduca licenziò molti dei suoi servitori, tra cui il G., e non si adoperò mai in maniera veramente decisiva per ottenere un vescovato al vecchio segretario, nonostante proprio allora vacassero molte diocesi del territorio toscano. Per il G. l'allontanamento dalla corte ebbe come ulteriore conseguenza il disorientamento e la noia. Fu allora che si volse nuovamente agli studi di teologia e alla stesura della Vita di Cosimo in latino e in volgare.
Dopo la morte di Cosimo (21 apr. 1574) il G. fu consapevole che con il duca spariva il suo migliore anche se non eccessivamente munifico protettore, perché l'ostilità di Francesco sembrava compromettere qualsiasi suo obiettivo e alienargli l'appoggio della corte. Francesco gli confermò comunque lo stipendio datogli da suo padre. Il G. si ritirò allora in un suo beneficio tra Pisa e Volterra rimastogli per dispensa papale, forse proprio la pieve di Montignoso che, sebbene di scarsa rendita, era situata in un luogo bellissimo e non troppo lontano da Firenze.
Qui iniziò a trascorrere sempre più tempo dedicandosi all'educazione dei nipoti, agli studi teologici e dei padri della Chiesa e alla biografia di Cosimo, aiutato da una vista che rimase acutissima anche in tarda età. Sua occupazione prediletta fu anche quella di impiantare nuove coltivazioni, in particolare vigne e olivi, attività in cui profuse, forse in eccesso, buona parte delle sostanze accumulate. Si interessò inoltre alla gestione delle sue miniere presso Pomarance, in particolare all'acquisto di uno strumento "cuocitore" dello zolfo giallo.
Tornava spesso a Firenze, dove ogni suo tentativo di avvicinarsi al granduca Francesco fu contrastato dalla corte. Nell'autunno del 1574 gli fu ancora una volta interdetto l'appoggio del granduca sulla scelta del vescovo di Volterra quando morì Marco Saracini. I suoi nemici sarebbero riusciti a guadagnarsi il favore di Gregorio XIII, con l'obiettivo di favorire Guido Serguidi, che ottenne il beneficio. Tra le poche soddisfazioni di questi anni ci fu quella di vedere incamminato alla segreteria di Spagna un nipote, probabilmente Bastiano. Tra le sue aspirazioni di studioso ebbe quella di una elegante e ricca biblioteca, mentre desiderio squisitamente gentilizio fu un palazzo di famiglia che desse lustro al casato, progetto frustrato dalla non florida situazione economica degli ultimi anni di vita.
Il G. morì a Volterra il 22 febbr. 1588 e fu sepolto nella chiesa di S. Francesco, dove si trova un suo busto in marmo.
Il testamento, redatto il giorno della morte, rivela una volta ancora la tensione ad accrescere il prestigio del lignaggio, ma anche la debolezza del patrimonio. Il G. lasciò i suoi beni, pari a 4000 ducati inclusi i frutti dei benefici, per una metà al fratello Salvatico e ai suoi eredi e per l'altra metà ai nipoti Giovanni, Sebastiano, Filippo e Camillo, fratelli, figli ed eredi dell'altro fratello Francesco. Un segretario mediceo che come il G. aveva servito i Medici dall'inizio del principato di Alessandro fino al granducato di Cosimo, Ugolino Grifoni, aveva lasciato 12.000 ducati, tre volte tanto.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Firenze, Raccolta genealogica Sebregondi, 2845; Mediceo del principato, 516a, 518-519; Archivio Guidi, filze 100 s., 120, 124, 131, 134-136, 145 s., 149, 155 s., 160, 163, 167, 184 (gli atti del concilio di Trento nella filza 155); Segreteria vecchia, Segretari, 295/VI; Firenze, Biblioteca nazionale, Carte genealogiche Passerini, 8; Arch. di Stato di Firenze, Carteggio universale di Cosimo I de' Medici (1558-1561), a cura di I. Cotta - O. Gori, Firenze 1999; (1564-1567), a cura di M. Morviducci, ibid. 2001, ad indices; A. D'Addario, Il carteggio degli ambasciatori e degli informatori medicei da Trento nella terza fase del concilio, in Arch. stor. italiano, CXXII (1964), disp. I-II; P.B. Falconcini, Elogio di mons. I. de' conti G., in Elogio degli uomini illustri toscani, III, Lucca 1771-72, pp. 185-194; H. Jedin, Der konziliare Nachlass Giacomo G.s, in Römische Quartalschrift, XXXVII (1929), pp. 440-448; F. Guidi, Appunti storici sulla famiglia dei conti Guidi del Casentino e di Volterra, Volterra 1941, pp. 54-56; H. Jedin, La politica conciliare di Cosimo I, in Riv. storica italiana, LVII (1950), pp. 367 s.; M. Lupi, Le carte di I. G. riguardanti il concilio di Trento; inventario della raccolta, in Chiesa e società dal sec. IV ai giorni nostri. Studi storici in onore del p. Ilarino da Milano, II, Roma 1979, pp. 415-456; A. Marrucci, G. I., in I personaggi e gli scritti. Diz biogr. e bibliografico di Volterra, Pisa 1997, pp. 1044 s.; F. Ughelli - N. Coleti, Italia sacra, I, Venetiis 1717, col. 1151.