IACOPO del Casentino
Non si conosce la data di nascita di questo pittore attivo in Toscana nella prima metà del XIV secolo. Egli è associato arbitrariamente da Vasari (p. 699) con la famiglia Landini di Pratovecchio; ma l'origine casentinese - cioè dalla regione storica del Casentino, nell'alta valle dell'Arno - è attestata soltanto dalla firma "Iacobus de Casentino me fecit" in calce alla parte centrale del trittico portatile della Galleria degli Uffizi a Firenze e dalle poche menzioni documentarie. L'artista dovette nascere con ogni probabilità sullo scorcio del Duecento o al più tardi intorno all'anno 1300, e appartenne alla stessa generazione artistica dei protagonisti della tradizione giottesca fiorentina, quali Bernardo Daddi e Taddeo Gaddi. Vasari afferma anche che I. si recò a Firenze in compagnia di Giovanni da Milano per imparare il mestiere di pittore presso Taddeo. Tuttavia, anche questa affermazione non è assolutamente attendibile, poiché I. era con ogni probabilità coetaneo di Gaddi, sebbene un riflesso dell'attività di quest'ultimo sia stato individuato dai critici in maniera inequivocabile nella fase matura dell'attività dell'artista, nel 1330-35 circa. I referti documentari riferibili con certezza a I. sono assai scarsi: nel 1339 egli figura fra i consiglieri fondatori della Compagnia di S. Luca; mentre in un testamento del 16 nov. 1347 "Iacobus de Casentino" è richiesto per eseguire "figuram et storiam beati Martini" in una cappella in S. Maria Novella a Firenze (Horne, 1909, pp. 98-111; Offner - Boskovits, 1987, p. 382).
La ricostruzione dell'attività del pittore prese avvio all'inizio del ventesimo secolo con la pubblicazione a cura di Suida (1906) del citato tabernacolo portatile firmato, raffigurante la Madonna col Bambino in trono con quattro angeli e i ss. Bernardo di Chiaravalle e Giovanni Battista (scomparto centrale), le Stimmate di s. Francesco e, al di sotto, S. Margheritae una santa martire (sportello sinistro) e la Crocifissione (sportello destro), che fu donato alle Gallerie fiorentine nel 1947 da don Guido Cagnola ed esposto agli Uffizi dall'anno seguente (Offner - Boskovits, 1987, pp. 392-395). Il piccolo dipinto veniva a confermare in maniera inequivocabile sul piano dello stile l'attribuzione a I. della grande tavola con la Madonna col Bambino in trono fra i ss. Giovanni Battista e Giovanni Evangelista (oppure Andrea) e sei angeli, reperibile già nelle fonti prevasariane, un tempo nell'oratorio di S. Maria della Tromba e, dal 1905, entro il tabernacolo sull'angolo del palazzo dell'arte della lana a Firenze, recuperata soprattutto nei suoi valori cromatici da un restauro eseguito nel 1991 (Bertani).
Nelle opere più antiche fra quelle giunte fino a noi, che secondo gli studi di anni più recenti possono essergli attribuite con buona verosimiglianza (ma si vedano in contrario le tesi di Bellosi, 1988), il pittore dimostra di essersi formato a stretto contatto con i principali rappresentanti del filone giottesco fiorentino più antico ed eterodosso: dal Maestro di S. Gaggio, alias Grifo di Tancredi, a Lippo di Benivieni, al Maestro della S. Cecilia. Fra tali pitture si possono indicare le quattro tavolette appartenenti in origine a uno stesso complesso, raffiguranti l'Annunciazione, la Natività, la Crocifissione e il Compianto di Cristo, oggi disperse in varie collezioni private in Italia e all'estero (Boskovits, 1984, pp. 58, 296-300 e tavv. CXXVI-CXXVII), oppure la Madonna col Bambino in trono con s. Giovanni Evangelista, s. Francesco e quattro angeli, resa nota da Tartuferi (1986, pp. 45 s. n. 15, e in Offner - Boskovits, 1987, p. 588). Queste opere dovrebbero datarsi intorno o poco prima il 1320; e alla stessa fase appartiene anche l'intrigante dipinto della Gemäldegalerie di Dresda (inv. n. 5) raffigurante il raro episodio evangelico (Matteo, 11, 2-3, e Luca, 7, 18-19) di S. Giovanni Battista in carcere che invia due suoi discepoli a Gesù, attribuito in passato non senza significato anche a Giotto, ma che oggi è generalmente riconosciuto a I. (Parenti). La forte adesione dell'artista ai canoni fondamentali del linguaggio giottesco è testimoniata da un gruppo omogeneo di dipinti databili verosimilmente intorno al 1320-25, quali: la Dormitio Virginis un tempo nella celebre raccolta Loeser a Firenze (Offner - Boskovits, 1987, p. 396 e tav. CLXIX) e in anni più recenti in collezione privata inglese, che deriva nella composizione dall'analogo dipinto di Giotto della Gemäldegalerie di Berlino (Boskovits, 1988, pp. 56-61); il S. Pietro in trono (Offner - Boskovits, p. 420 e tav. CLXXX) un tempo presso il castello del Trebbio a Mulin del Piano (Firenze) e oggi di ubicazione ignota; nonché la grande pala della chiesa di S. Miniato al Monte a Firenze, raffigurante l'omonimo santo e otto scene della sua leggenda (ibid., p. 458 e tav. CXCVII). Anche nel grande Crocifisso (Offner, 1957, p. 128 e tav. XLIII) della collezione Kisters a Kreuzlingen (Svizzera), che dipende fedelmente dal fondamentale prototipo giottesco di S. Maria Novella a Firenze, I. esprime nella fase più antica della sua attività una convinta adesione alle formule giottesche.
Verso la metà degli anni Venti, sembra cogliersi nell'artista il riflesso della coeva cultura pittorica senese (Ugolino di Nerio, il seguace più ortodosso di Duccio, era largamente attivo per le principali chiese della città), in modo particolare nella bella tavola raffigurante S. Lucia (Offner - Boskovits, 1987, p. 416 e tav. CLXXVIII), dal 1987 in deposito permanente presso il Bonnefantenmuseum a Maastricht (inv. 3450), che in maniera significativa è stata attribuita in passato per lungo tempo a un pittore senese. Quest'ultima opera può essere interpretata anzi come una diretta derivazione dalla S. Lucia dipinta da Pietro Lorenzetti per la chiesa fiorentina di S. Lucia de' Magnoli.
In questa fase I. ha ormai definitivamente messo a punto le coordinate fondamentali del suo stile, caratterizzato da accenti assai originali e ben distinguibili nella foltissima produzione fiorentina del periodo. Il suo timbro spiccatamente narrativo e accattivante emerge in maniera particolare nelle storie laterali della citata pala di S. Miniato, dove anche le scene di tortura più feroci ai danni del santo sono proposte in un'atmosfera fiabesca e priva di ogni reale intento drammatico. Le architetture che in quattro delle otto scene fanno da sfondo alla narrazione sono sì impostate secondo le più autentiche norme giottesche, ma presentano anche moltissimi particolari decorativi che contribuiscono a ingentilirle notevolmente e ad accentuare i riflessi seneseggianti indiscutibilmente presenti nell'opera.
Nella citata tavola dipinta per il tabernacolo dell'arte della lana, databile molto probabilmente sul finire del terzo decennio del secolo, I. riesce a proporre una felice sintesi fra la sottigliezza disegnativa che gli deriva dall'originaria appartenenza al filone della "miniaturist tendency" - secondo la denominazione creata da R. Offner per la tendenza della pittura fiorentina più alternativa nei riguardi della cultura giottesca dominante - e l'impostazione plastico-spaziale di chiara marca giottesca. Tuttavia, già a partire da quest'opera, dove la critica ha sottolineato palesi affinità morfologiche con gli affreschi dipinti da Taddeo Gaddi nella cappella Baroncelli in S. Croce a Firenze (Boskovits, 1984, p. 57 n. 198), risulta evidente che nella fase centrale della sua attività I. sembra risentire per l'appunto soprattutto dell'influenza dell'allievo prediletto di Giotto a Firenze. Il riflesso dei modi di Gaddi, poi, è, se possibile, ancora più letterale nella tavola della William Rockhill Nelson Gallery of art a Kansas City con la Presentazione di Gesù al tempio (Offner - Boskovits, 1987, p. 428 e tav. CLXXXIV), recante la data del 1330. Questo momento d'intensa adesione ai modi di Taddeo Gaddi si spinge fino alla metà degli anni Trenta, come documenta la bella Madonna col Bambino in trono fra quattro santi e quattordici angeli che si trovava un tempo in collezione Sestieri a Roma (Boskovits, 1984, p. 312 e tav. CXXXVII).
Nei dipinti che si possono ricollegare alla fase matura dell'artista si nota una maggiore complessità e ricchezza decorativa nei bordi e nelle aureole, con un largo impiego della decorazione punzonata, e anche la raffinatezza della gamma cromatica e del disegno appaiono ormai allo stesso livello dei prodotti coevi usciti dalla bottega di Bernardo Daddi: si vedano per esempio i due sportelli di un tabernacolo (Offner - Boskovits, 1987, p. 594 e tav. XXI) già in collezione privata a Londra, appartenuti in epoca recente al grande antiquario-collezionista fiorentino Carlo De Carlo e passati da una vendita all'asta (Finarte - Semenzato, Firenze, 19 dic. 2002, lotto n. 25).
A una data prossima al 1339 dovrebbe risalire la grande tavola cuspidata con il S. Bartolomeo in trono e otto angeli (Offner - Boskovits, 1987, p. 422 e tav. CLXXXI) della Galleria dell'Accademia di Firenze (inv. 1890 n. 440), se essa dovesse essere davvero identificabile con il dipinto di tale soggetto menzionato in quell'anno sul pilastro della chiesa di Orsanmichele a Firenze appartenente all'arte degli oliandoli e salaioli (Cohn). In questo dipinto di solenne, ieratica frontalità e simmetria è stata giustamente sottolineata la prefigurazione di alcuni caratteri fondamentali della pittura fiorentina della seconda metà del secolo (Ladis, 1996).
I dipinti appartenenti all'ultima fase di attività, situabili quindi nel quinto decennio del secolo, non presentano significativi aggiornamenti di gusto o di tecnica, ma in essi i personaggi sembrano dilatarsi, assumendo forme sempre più tondeggianti, nel tentativo forse di reagire agli elementi di novità introdotti in quel giro di anni sulla scena artistica fiorentina dai principali esponenti, quali Maso di Banco, Stefano, Andrea e Nardo di Cione. Tuttavia, la critica ha sottolineato da tempo l'indiscutibile inaridimento creativo che caratterizza la fase finale dell'attività di I., che a giudicare dal numero e dall'importanza delle opere giunte fino a noi non dovette in ogni caso perdere la fiducia dei committenti, anche se i suoi dipinti dovettero sembrare a molti ormai sorpassati dal punto di vista del gusto. In questo contesto appare particolarmente significativa la grande pala frammentaria della chiesa di S. Maria a Crespino sul Lamone, una località assai decentrata nei pressi di Marradi, oltre 60 km a nord di Firenze, che una lunga iscrizione recante la data del 1342 assicura dipinta per questa remota chiesa.
Numerose sono le opere attribuite a I. da Vasari nelle due edizioni delle Vite e da una folta schiera di eruditi locali: per la massima parte tali attribuzioni non sono verificabili a causa della scomparsa delle opere in oggetto o risultano del tutto errate (se ne veda l'elenco in Offner - Boskovits, 1987, pp. 383-388). Per quanto riguarda invece l'epoca recente occorre ricordare la proposta di Ladis (1984) relativa agli affreschi della cappella Velluti in S. Croce a Firenze raffiguranti due episodi della leggenda di S. Michele Arcangelo, che in realtà non hanno nulla da spartire con I. e spettano per l'appunto al cosiddetto Maestro della cappella Velluti (Boskovits, 1984, p. 23). Lo studioso americano ha proposto inoltre di riconoscere il dipinto che in origine si trovava sull'altare della cappella nella tavola cuspidata appartenente alla collezione Acton a Firenze, attribuendo anch'essa a I.: ma anche tale ipotesi non appare suffragata da alcun elemento attendibile sia sul piano storico, sia su quello stilistico. Più interessante si presenta il caso della Madonna col Bambino in trono, sei santi e dodici angeli del Museo di belle arti di Budapest (inv. n. 6006) recante la data 1345, attribuita a I. al principio del secolo XX e riprodotta anche in epoca recente come opera sua (Fremantle, p. 121 e fig. 242). Sebbene dal punto di vista compositivo il dipinto possa in effetti essere accostato a più di una tavola di analogo soggetto fra quelle uscite certamente dalla bottega di I., i suoi caratteri stilistici sono certamente estranei a quelli di I.; esso è stato oggetto di un'interessante proposta attributiva di Boskovits (1994, figg. 1, 2, 6) che vi riconosce gli esordi fiorentini di Giusto dei Menabuoi. Tra le attribuzioni più recenti a I. che invece sono senza dubbio da accogliere vale la pena di ricordare quella del piccolo Crocifisso portatile dipinto sui due lati (Offner - Boskovits, 2001) della Fondazione Il Vittoriale a Gardone Riviera, proposto come opera di scuola riminese da Sgarbi (2000).
L'ipotesi di un'attività dell'artista nel campo della miniatura appare oggi da respingere definitivamente, poiché le antiche attribuzioni di Salmi (1928) del cod. 1 della Biblioteca comunale di Poppi, e anche tentativi più recenti (De Juliis, 1978), sono da riportare sulla base dell'assoluta evidenza stilistica all'interno del catalogo del cosiddetto Maestro delle Immagini domenicane.
La data di morte di I. - scomparso forse nel corso della terribile pestilenza del 1348 - è registrata sotto l'anno 1349 nei libri della Compagnia di S. Luca (Horne, pp. 98 s.); è pertanto da accantonare l'altra data di morte del 1358, sovente accolta nel passato, fondata sull'asserzione vasariana e ripetuta negli Annales Camaldulenses (1761).
Nonostante che I. sia stato definito sovente un pittore eclettico e a dispetto del fatto che tra le sue fonti siano stati menzionati gli artisti più diversi, quali il Maestro della S. Cecilia, Ugolino di Nerio, Meo da Siena, Pacino di Bonaguida, Taddeo Gaddi e Bernardo Daddi, il Maestro delle Immagini domenicane e altri ancora, la sua folta produzione presenta in realtà caratteri stilistici sostanzialmente omogenei e piuttosto individuali. D'altra parte, l'influenza di I. ci appare oggi assai limitata, anche se il suo linguaggio semplice e un po' rustico dovette esercitare un indubbio fascino su alcuni artisti minori della generazione seguente, quali per esempio il Maestro di San Polo in Chianti (Tartuferi, 1989) e il Maestro di Barberino.
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