BOSIO (Bosso, Bossius, Bossus), Iacopo (Giacomo)
Nacque in una località imprecisata del Canavese, probabilmente nell'ultimo decennio del sec. XV; il suo nome compare per la prima volta nel 1517, quando i tipografi de Sylva, pubblicando a Torino il De homine exteriore et interiore di G. Marzio da Narni curato da G. Bremio, preposero all'opera quattro distici del B. in lode dell'autore e dell'editore.
Quando nel 1531 la moglie di Carlo III di Savoia, Beatrice di Portogallo, prese solennemente possesso della città di Asti, la cui contea aveva ottenuto in dono da Carlo V, il B. cantò l'avvenimento e le cerimonie che lo accompagnarono con una Sylva in esametri. Il 12 aprile dell'anno successivo il duca di Savoia, avendo bisogno di un maestro di lettere latine e greche per il figlio Ludovico, erede al trono, affidò al B. l'incarico di precettore con uno stipendio annuo di 40 scudi: ma è probabile che la nomina ufficiale sanzionasse una situazione di fatto, dato che nella Sylva l'autore mostra già di aver familiari la corte e il piccolo principe, di cui parla a lungo e con calore, tratteggiandone a grandi linee l'educazione. Nel 1533 il B. seguiva l'alunno alla corte imperiale di Spagna, dove questi era mandato dai genitori sia come pegno di fedeltà sia per compiere la sua educazione a fianco del principe Filippo; ma quasi improvvisamente Ludovico moriva il 25 dic. 1535.
Sembra che il B. soffrisse talmente della morte del principe da cadere gravemente ammalato; ristabilitosi, tornò in Piemonte, dove ormai tutte le speranze della corona gravavano sul malaticcio Emanuele Filiberto, fin dalla nascita destinato alla carriera ecclesiastica. Il nuovo principe di Piemonte ereditò la "casa" del fratello defunto, sostituendo quindi con il B. il precedente maestro C. L. Alardet: ma la sua nuova educazione fu volta principalmente a rafforzarne il debole fisico e ad assuefarlo agli esercizi militari confacenti alla dignità di un erede al trono. Non furono tuttavia abbandonati gli studi letterari e l'importanza dell'opera del B. non dovette essere misconosciuta, tanto che nel 1539 il suo stipendio era stato portato a 90 scudi annui.
Se in un carme del Fasciculus, la sua piccola raccolta di versi, il B. si vanta di aver educato il principe alla conoscenza e al gusto non solo dei classici latini ma anche della filosofia antica, vero è pure che persino il Toso, suo biografo ufficiale, riconosce che il profitto del principe era stato appena sufficiente in latino e quasi nullo in greco: Emanuele Filiberto dimostrava di preferire la lettura di testi storici e politici, e si appassionava quasi unicamente agli studi di matematica applicata all'arte militare.
Nel periodo tra il 1536 e il 1545 il B. seguì fedelmente la corte sabauda tra Nizza, Vercelli, Milano, Genova, dovunque la conducessero le vicende di quel travagliato decennio; lo sappiamo lontano dal discepolo solo nel 1540, quando il Consiglio di reggenza lo mandò con una missione segreta presso il duca Carlo allora in visita presso la corte imperiale.
Nel 1545, preparandosi il principe ad andare in Germania presso Carlo V, il B. tentò di essere dispensato dal viaggio; ma il duca, desideroso che il figlio almeno non dimenticasse quanto aveva imparato, gli impose di seguirlo: sì che fu gioco-forza fingersi lietissimo del viaggio con una lettera, datata da Milano il 28 maggio 1545, che è del B. l'unica prosa conosciuta in lingua italiana.
Forse per invogliarlo al viaggio, gli fu assegnato uno stipendio mensile di 30 scudi, il maggiore tra quelli del seguito dopo l'emulumento dei due capi, G. B. Provana e il signore di Lullin. Il viaggio fu lungo e travagliato, rallentato dalle continue febbri del principe ancora cagionevole di salute, funestato dalla morte in un incidente di tre suoi giovanissimi favoriti: solo il 23 luglio fu possibile giungere alla meta. A corte poi Emanuele Filiberto, amante del fasto e spinto dall'orgoglio, cominciò a spendere largamente al di sopra delle proprie possibilità; poco sovvenuto dal padre, anch'egli a corto di danari, s'indebitava con gli usurai e non pagava i membri del seguito, costringendoli a vivere d'espedienti e a indebitarsi a loro volta. Carlo di Savoia, irritato, ordinava al figlio di evitare le spese e di ridurre il personale: ma il principe, temendo di vedere così diminuito il proprio prestigio, si limitò a licenziare, sulla fine del luglio 1546, il precettore.
Il B. ritornò così in Piemonte; ma Carlo di Savoia rimandò il letterato in Fiandra, dove lo ritroviamo nell'ottobre di quell'anno. Poco dopo il principe licenziò definitivamente il B.; il quale, tornato in Italia, fu ricompensato dal duca con i titoli di consigliere e di storiografo, con l'assegnazione di beni feudali in Salmour trasmissibili agli eventuali figli maschi, con la dotazione di mille scudi per ciascuna delle tre figlie e per quelle che gli avesse dato la moglie Comina, con una pensione annua di 100 scudi alla moglie e alle figlie e un'altra a lui sui redditi della contea d'Asti, e infine con la carica di referendario delle suppliche presentate al Senato della Savoia: ufficio questo forse onorifico - se il B. lo volle segnato in testa al Fasciculus - ma certo in partibus, dato che quella provincia era ormai da quindici anni circa in mano francese. Inoltre, lo stato miserevole delle finanze sabaude rendeva problematica la riscossione della pensione dovutagli.
Il B. visse i suoi ultimi anni tra Vercelli e Biella, schivo della vita di corte, mantenendosi in frequente contatto epistolare col suo vecchio alunno per lamentarsi con lui degli ufficiali insolventi, per ringraziarlo dei mandati a proprio favore, per raccomandargli gli amici. Ci è ignota la data esatta della sua morte: ma una concessione di Emanuele Filiberto, datata da Vaucelles il 1º maggio 1556, in cui alla vedova e alle figlie si assegna una pensione mensile di 15 scudi in memoria dei servigi resi dal defunto, rende probabile l'ipotesi che egli fosse morto nei primi mesi di quell'anno.
I quattro distici del 1517 preposti al De homine del Marzio sono ben povera cosa; assai migliore il secondo scritto che del B. conosciamo, In illustrissimae ac rari exempli viraginis Beatricis,Sabaudiae ducis,in Hastam urbem,Caroli Caesaris donum,ingressu...,Sylva, edito "Augustae Taurinorum" senza nome di stampatore in data del trionfale ingresso, 30 maggio 1531: un breve poemetto di 150 esametri, vivace e fluido pur nella sua retorica adulatoria. Assai mediocre si rivela la sua musa in tutte le altre opere. Lo riconosce egli stesso quando nel Versificationum fasciculus... (Bugellae 1550), presentando i pochi versi che a suo dire aveva voluto salvare della propria vastissima produzione poetica, si dichiara tuttavia timoroso: "nam - aggiunge - Semper mihi visa sunt carere / Vitali genio et parum erudita". Come scrittore in volgare fu oscuro e artificioso, per quanto almeno si può giudicare dalla citata lettera a Carlo di Savoia e da tre sonetti inclusi nel Fasciculus che rappresentano tutta la sua produzione poetica volgare.
Maggiore familiarità ebbe il B. con la lingua latina. Il periodare della dedicatoria del Fasciculus, come anche delle lettere latine, è sicuro e piacevole e, pur senza raffinatezze, è un riuscito tentativo d'imitazione ciceroniana. Dei quarantasette componimenti latini ivi contenuti, i due migliori, in esametri, ricordano per la costruzione e il vario intreccio di motivi storici e mitologici la Sylva del 1531, cui sono per altro inferiori in scioltezza e vivacità espressiva. I restanti trentacinque componimenti in distici elegiaci, tra cui molti epigrammi, sono più scadenti: predominano i ricordi virgiliani e ovidiani, le interferenze mitologiche, un'ostentata artificiosità. Solo di rado, quando i fatti narrati hanno più direttamente toccato la sensibilità dell'autore, i versi - quasi tutti d'occasione - assurgono a un livello più accettabile: così nel De aulica vita, convenzionale polemica contro l'artificiosità e le schiavitù della vita di corte, resa però vivace e credibile dal sincero orgoglio dell'umanista e dall'eco di un'esperienza lungamente sofferta.
Bibl.: P. Egidi, C. L. Alardet e G. B. maestri di Em. Filiberto di Savoia, in Rivista d'Italia, XXXI (1928), n. 1, pp. 534-63 (con larghi excerpta della sua opera, tra cui, a pp. 551-53, la citata lettera a Carlo III).