CASTELVÌ, Iacopo Artaldo
Nacque a Cagliari il 27 dicembre del 1606 da Paolo marchese di Cea e da Marianna de Yxar. Venne avviato molto precocemente alla carriera delle armi; partecipò nel novembre 1618, al seguito del padre, a un torneo "sostenuto dalla più fiorita nobiltà" isolana in Cagliari. Prese parte alle guerre per il Monferrato col grado di capitano di fanteria, meritandosi l'encomio dello Spinola, e su quel teatro rischiò di essere falciato dal contagio. Poco più tardi, sul fronte delle Fiandre, si guadagnò il grado di sergente maggiore e un seggio nel Consiglio di guerra di quegli Stati.
Nel rientrare in Sardegna, presumibilmente nel 1639, per succedere al padre nella carica di procuratore reale, in vista di Alghero fu assalito e catturato da corsari bisertini. Ceduto schiavo al bey di Algeri, fu liberato nel 1642 con un riscatto di 20.000 reali.
Preso finalmente possesso della carica, alla morte del padre, nel 1650, gli successe anche nel titolo di marchese di Cea.
Nel 1668, alla morte del cugino Agostino Castelvì, marchese di Laconi, si mise risolutamente alla testa della forte fazione parlamentare ostile al viceré Camarassa, da essa accusato di aver ordinato l'omicidio del Laconi per reprimere l'opposizione parlamentare. Fu il C. a ispirare la congiura in seguito alla quale il viceré fu a sua volta ucciso, il 21 luglio. Rimasto padrone del campo, impedì che il principe di Piombino G. B. Ludovisi, comandante supremo delle forze armate dell'isola, assumesse la luogotenenza che andò al governatore del capo (o provincia) di Cagliari, Bernardino Cervellón, suo stretto parente.
Neanche il Cervellón poté, tuttavia, evitare che contro il C. si aprisse un procedimento penale per l'assassinio del Camarassa; sicché, per sfuggire all'arresto, un mese dopo il C. si imbarcò alla volta di Alghero, facendo tappa ad Oristapo, in entrambe le città "accolto con grandi manifestazioni di stima e di rispetto". Fino agli inizi dell'inverno se ne stette a Sassari, da dove, con una forte scorta armata, trovò poi riparo nel convento dei cappuccini di Ozieri.
Invano dalla Spagna il fratello del C., Giorgio, reggente sardo nel Consiglio d'Aragona, esortava in questo periodo la nobiltà ribelle a trattare da posizioni di forza l'ottenimento, se non delle richieste che avevano determinato la rottura tra il Parlamento e il Camarassa, almeno del perdono giudiziario e politico. Irresoluto, più preoccupato della propria salvezza che di organizzare le forze potenzialmente favorevoli, il C. lasciò trascorrere il momento propizio. Sotto i colpi della macchina repressiva messa in opera dal nuovo viceré, duca di San Germano, giunto in Sardegna nel dicembre 1668, il fronte dei consensi si sfaldò rapidamente attorno al Castelvì. Mentre coloro che avevano costituito la massa d'urto del partito ribelle - la piccola nobiltà e le larghe fasce clientelari del contado e delle città - si sottomettevano, cinque tra i più potenti titolati dell'isola (i marchesi di Villacidro, di Monteleone e Albis, i conti di Villamar e di Montalvo) venivano presi, gettati in carcere e poi spediti in esilio.
Nel giugno 1669 il C. e i suoi più stretti partigiani furono condannati a morte in contumacia. Per sottrarsi alla cattura essi si rifugiarono sul monte Nieddu, dove resistettero al corpo di spedizione inviato dal viceré, composto di due compagnie a cavallo e due di fanti, cui si aggiunse la cavalleria dei due capi amministrativi dell'isola. Infine il C., nel maggio 1670, riuscì, con alcuni seguaci, a porsi in salvo a Nizza, sotto la protezione del duca di Savoia. Ma di lì a poco si lasciò indurre da un funzionario regio, certo Alivesi, a tentare uno sbarco sulle coste settentrionali della Sardegna. A fine maggio 1671, Sull'Isola Rossa, di fronte a Castelsardo, cadeva così in un agguato. Tre dei suoi compagni vennero trucidati sul posto e le loro teste mozze accompagnarono il C. in una marcia intimidatoria di dodici giorni attraverso i principali centri dell'isola.
Arrivati a Cagliari il 9 giugno, si riaprì frettolosamente il processo contro di lui e il 12 fu pronunciata la sentenza definitiva di morte per decapitazione, eseguita il 15 dello stesso mese sulla piazza principale del castello.
Non lasciava eredi diretti. Le teste dei quattro congiurati vennero esposte sulle torri dello stesso castello per ben venti anni. Solo nel Parlamento del 1688 fu concesso che venissero traslate.
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