ANTIQUARI (Antiquario, Antiquarius), Iacopo
Nacque a Perugia intorno al 1452-1445, di nobile famiglia, probabilmente da uno Stefano che esercitava la professione di medico. È in ogni modo certo che Antiquari è il suo casato, e non, come per qualche tempo si è creduto seguendo un'ipotesi dello Zeno, un soprannome dovuto ad una passione per le iscrizioni antiche, della quale non si ha alcuna notizia. I primi impulsi ad intraprendere la carriera delle lettere gli vennero senza dubbio da Giovanni Antonio Campano, che si fermò ad insegnare a Perugia fra il 1452 e il 1459. Lo dichiarava molti anni dopo lo stesso A., ricordando con affetto e gratitudine il suo antico maestro: "Quanti ego Campanum, cuius auditorium apud Perusinos meos tum admodum celebre puero mìhi licuit ingredi, feci semper, ut ad solum eius nomen inter molestissimas res animum recreari saepe senserim" (Epistolae, III, 7). Non risulta invece che egli fosse allievo del Calcondila, il quale pure si fermò nello stesso periodo a Perugia. Qui l'A. si trovava ancora nel 1467, ma subito dopo, forse nell'anno seguente, lasciò la città natale, per mettersi al seguito di Giovan Battista Savelli, quando questi passò da Perugia, dove era governatore pontificio, a Bologna per esercitarvi lo stesso ufficio. Del soggiorno dell'A. a Bologna si sa soltanto che egli, sempre presso il Savelli, era "ad epistolas provinciae adictus", e che vi ricevette nel 1471 una graditissima visita dei Campano di passaggio. in quella città. In quali circostanze l'A. si trasferisse da Bologna a Milano, sua definitiva residenza fino alla morte, non è possibile determinare. Si può soltanto supporre che vi avesse parte Bartolomeo Calco, segretario dei duca Galeazzo Maria e intelligente protettore di letterati, e col quale in seguito l'A. mantenne sempre cordialissimi rapporti. Anche la data precisa del trasferimento non si può fissare con sicurezza: essa andrà posta probabilmente intorno al 1472-1473, e comunque non dopo il 1476, anno della morte di Galeazzo Maria, sotto il quale sappiamo con certezza che il letterato perugino era già impiegato nella corte sforzesca. In una sua dedica il Puteolano ricorda all'A. come egli fosse stato chiamato in questa corte con l'incarico, in verità poco chiaro, di "ordinare i comizi degli ecclesiastici". È certo in ogni caso, per testimonianza del Bandello, che il suo ufficio definitivo fu quello di "segretario del duca e di tutto il ducato sopra i benefici ecclesiastici iconomo generale" (cfr. Opere, II, Milano 1935, p. 398); e appunto in tale qualità egli compare come personaggio nella novella III, 26 del Bandello stesso. Il Puteolano parla anche di legazioni importanti a lui affidate; ma invero l'unica notizia sicura in proposito riguarda una missione a Venezia nel 1485, come accompagnatore del giovane Leone Sforza, figlio di Ludovico, che si recava, non sappiamo a quale scopo, appunto in quella città. Nel 1499, quando Ludovico fu costretto a fuggire,4a Milano, l'A., pur dolendosi della sorte di quel principe che aveva per tanti anni fedelmente servito (cfr. Epistolae, II, 32),rimase a Milano: e sebbene non si abbia notizia di incarichi politici a lui affidati da Luigi XII, si deve pensare che il nuovo signore tenesse in considerazione il vecchio cortigiano, se proprio a lui i Milanesi dettero il compito di stendere una. solenne orazione in occasione della vittoria riportata dai Francesi nel 1509 alla Ghiaradadda. Negli ultimi anni della sua vita, in ogni modo, l'A. dovette vivere lontano dagli affarì pubblici, ritirato negli studi e nelle meditazioni: egli stesso, in una lettera del 1505, a Sigismondo da Foligno, dichiarava di condurre una vita solitaria e di dedicarsi quasi esclusivamente alla lettura del Vangelo e di Platone. Sempre in questi ultimi anni accarezzò il progetto di tornare, dopo tanto tempo, nella nativa Perugia; ma, ormai vecchio e stanco, non ebbe cuore di intraprendere il lungo viaggio e di cambiare vita e abitudini. Chiuse quindi la sua esistenza a Milano, nel 1512, in tempo per salutare il ritorno di Massimiliano, Sforza.
Nel complesso la figura dell'A. come funzionario e uomo politico, pur non presentando note di particolare rilievo, si distingue per doti di onestà e di equilibrio. Tutti i contemporanei-sono concordi nel lodarlo in tal senso: e in particolare il Bandello, che ebbe modo di conoscerlo personalmente, lo elogia nella novella citata, e altrove, come uomo di "vita, integerrima e appo tutti per i castigatissimi costumi in grandissima estimazione". Ma l'aspetto per cui l'A. merita soprattutto di essere ricordato va indicato piuttosto nella appassionata, generosa e intelligente attività da lui svolta come protettore, consigliere e confidente discreto e devoto dei maggiori letterati dei suo tempo. Quale fosse il suo atteggiamento di fronte ad essi egli stesso dichiara con esemplare modestia in una lettera al più illustre dei suoi amici, Angelo Poliziano: "Equidem prolotos digitos habere non sentio, quibus mysterium philosophiae ab istis sanctissime ac penitus tractatum contingere liceat: profanus sum, et procul limen adoro. Satia est tale arcanuni inter eorum manus versari, quos idoncos perspeximus ad restituenda humana et divina animorum exercitamenta..." (cfr. Politiani Opera, p. 42). È appunto questo sentimento di rispettosa ammirazione verso i c misteri # della letteratura e della cultura che lo mosse ad entrare in corrispondenza o in amicizia con artisti e letterati, e a sorreggerli con incoraggiamenti e aiuti anche economici, e talora ad intervenire a compiere opera di pacificazione e di concordia. Il suo benevolo interessamento si rivolse soprattutto a quelli tra essi che vivevano o erano di passaggio a Milano: a Francesco Filelfo, al quale fornì tra l'altro il danaro per effettuare il viaggio da Milano a Firenze, dove era stato chiamato da Lorenzo il Magnifico; al Puteolano, che fece chiamare alla corte sforzesca e poi riconciliò con, Ludovico il Moro; al Merula, di cui pure favorì la venuta a Milano; ad Aldo Manuzio, che accolse in casa sua e a cui dette, come ricorda ancora il Bandello (novella III, 5), "alcuni libri di Plutarco Cheroneo, non ancora tradotti nella lingua romana"; a Franchino Gaffurio, che incitò a comporre la sua opera sulla teoria musicale. Tra i letterati che vivevano fuori di Milano, intrattennero con lui cordialissime relazioni epistolari Giovanni Antonio Flaminio e Niccolò Libumio, e umanisti veneti ed emiliani come Girolamo Donati, Ermolao Barbaro, e Filippo Beroaldo, che a lui dedicò una sua parafrasi latina. della canzone dei Petrarca alla Vergine.
Ma relazioni ancora più strette egli ebbe con i letterati fiorentini. Il Ficino gli inviava il suo trattato De vita, e lo elogiava quale rínnovatore, cultore e restauratore della veneranda antichità; il Pico, da lui particolarmente ammirato, rispondeva affettuosamente alle sue profferte,di amicizia; Ugolino Verino gli mandava, per averne un giudizio, la sua Carleide; lo stesso Lorenzo non mancava mai di fargli pervenire, attraverso il Poliziano, attestazioni della sua stima. Ma fra tutti i fiorentini il suo corrispondente più assiduo fu il Poliziano. L'inizio della loro amicizia epistolare sembra risalga ad una lettera dell'A. in data 13 novembre 1489 nella quale il letterato perugino, mentre esprimeva un acuto giudizio sui Miscellanea appena pubblicati ("ubique summa eruditio, ubique fastidii expultrix blanditur varietas"; cfr. Politiani Opera,p. 39), avanzava qualche franca e cortese riserva sulla violenza con cui in quell'opera veniva attaccato il deflinto Domizio Calderini. Il Poliziano, pur difendendo la libertà della critica, riconobbe le buone intenzioni dell'A.; così come più tardi, nel 1494, in occasione della sua nota disputa col Merula, accolse il consiglio di non proseguire più oltre una polemica che, morto il Merula, non aveva più ragione di essere. Né va dimenticato che proprio all'A. il Poliziano indirizzò la bellissima lettera del 3 maggio 1492, in cui sono descritti gli ultimi momenti e la morte di Lorenzo il Magnifico.
Alla amicizia sia con il Poliziano che con gli umanisti del gruppo fiorentino e del gruppo veneto possono aver contribuito anche ragioni di gusto. Al latino raffinatamente e variamente erudito, anticiceroniano, dei fiorentini e dei veneti si accosta infatti quello dei pochi scritti rimastici dell'Antiquario: l'Oratio I. A. pro populo Mediolanensi in die triumphi ad Ludovicum regem Francorum et ducem Mediolanensium, Mediolani per Alexandrum Minucianum, die XVIII Iuni MCCCCCIX. cura et impensis Franchini Gafuri Laudensis (in appendice è stampata una saffica pure dell'A.); le 76 epistole latine, quasi tutte ad amici perugini, che furono raccolte in un volumetto dal titolo: Epistolae eruditissimi atque optimi viri I. A. perusini, Perusiae, apud Leonem, opera et industria Cosmi Veronensis cognomento Blanchini, anno a Partu Virginis MDXIX (vi figurano anche 3 epigrammi dell'A.); altre 15 epistole (12 al Poliziano, 1 al Ficino, 1 al Pico, 1 a Bernardo Ricci) che si leggono nell'Epistolarío del Poliziano (tolgo le citazioni da A. Politiani Opera, Basileae, apud N. Episcopium, 1553); e 4altre epistole che furono stampate dal Vermiglioli in appendice all'opera più avanti citata. Si ha notizia anche di una sua operetta ascetica intitolata Modus habendi displicentiam peccatorum; mentre non sembra che siano mai stati realizzati i progetti, accarezzati per qualche tempo dall'A., di scrivere una Storia di Perugia e una narrazione degli avvenimenti politici contemporanei in Lombardia.
Bibl.: Sempre fondamentale è l'opera di G. B. Vermiglioli, Memorie di I. A. e degli studi di amena letteratura esercitati in Perugia nel secolo XV, con un'appendice di monumenti, Perugia 1813, dove vengono citati e discussi i precedenti studi sull'A. (fra i quali degna di menzione è la accurata voce del Mazzuchelli negli Scrittori d'Italia). Si vedano, inoltre, il notevole profilo, di G. M.... i (Giuseppe Montani?) nella Biografia universale antica e moderna, traduzione italiana con aggiunte e correzioni, Venezia, Missaglia, 1822; E. Verga, Documenti di storia perugina estratti dagli archivi di Milano, in Bollettino della R. Deputazione di storia patria per l'Umbria, VI(1910), fasc. I, p. 11 sgg.; e la voce di G. Cecchini nella Enciclopedia Italiana, III, p. 526.