I Seminari
A Firenze, nel 1873, in previsione del primo congresso cattolico, che si sarebbe tenuto l’anno dopo a Venezia, venne insediata una sottocommissione, presieduta da Giovanni Grassi. Il suo compito fu di inviare una richiesta d’informazioni ai rettori dei seminari italiani su stato e condizione attuale dei medesimi. Solo per ventiquattro su circa 250 si riescono ad ottenere notizie. Il campione è limitato, ma allo stesso tempo rappresentativo di problemi che, bene o male, riguarda la maggior parte delle istituzioni in oggetto2. L’inchiesta non si colloca in un momento di cesura nella storia postridentina di queste istituzioni educative, piuttosto di ripensamento e di più o meno disorganica riorganizzazione. Un evento esterno, l’Unità del paese, ancor più la recente presa di Roma, ha costretto questa tipologia di scuole a confrontarsi con l’accidentata e non uniforme estensione della piemontese legge Casati alle altre aree della penisola3.
Sull’onda della polemica antistatale, alle leggi eversive del patrimonio ecclesiastico viene attribuita la critica situazione finanziaria dei seminari, che fu invece una costante di ben più lungo periodo. Al clima anticlericale e all’obbligo della leva militare per i chierici la diminuzione nel numero degli alunni, spesso più denunciata che effettiva. La reazione di vescovi e rettori non fu però di ripiegamento, ma di rilancio: migliore offerta formativa, propaganda per incrementare le vocazioni, piani di studio esemplati su quelli governativi, classi preparatorie preseminaristiche intese come vivaio di vocazioni4.
Pressoché negli stessi anni, anche i nuovi governi post-unitari si pongono il problema dei seminari, particolarmente sospetti di propaganda anti-italiana e antiliberale. Non interessa il corso teologico, che comunque, con la soppressione delle facoltà relative all’interno degli atenei statali, è costretto a confluire e rafforzarsi proprio all’interno dei seminari5. Sono i gradi inferiori di formazione quelli che più fortemente subiscono i contraccolpi del sistema scolastico unitario in via di faticoso sviluppo. La tradizionale frequenza di esterni alle scuole dei seminari, e in particolare di esterni non necessariamente votati al sacerdozio, mette a nudo il carattere pubblico di queste istituzioni ed è qui che lo Stato individua il cuneo per inserirsi e avere voce in capitolo. Il confronto, spesso lo scontro, nel corso dell’ultimo quarto dell’Ottocento e oltre, riguarderà soprattutto la scuola secondaria, il ginnasio-liceo6. È proprio qui che le pressioni esterne giungono a confliggere con il carattere spurio della formazione seminaristica: il timore di bloccare percorsi vocazionali che devono essere fatti confluire agevolmente nel finale corso teologico condiziona e continuerà a condizionare l’apertura verso gli insegnamenti tecnico-scientifici che costituiscono, pur con molti limiti, una delle priorità della rinnovata scuola postunitaria. Emblematico il caso dell’Apollinare, il seminario della capitale, che già nei primi anni successivi allo scoppio della questione romana si adegua ai programmi governativi. Il provveditore agli studi di Roma,Aristide Gabelli, in visita presso l’istituzione educativa nel 1876, ne rileva però proprio la scarsa apertura alle materie scientifiche e l’arretratezza dei metodi pedagogici. Nonostante ciò, la parificazione ai ginnasi-licei statali si risolverà, nell’ultimo quarto dell’Ottocento, in un sensibile incremento di studenti e docenti7.
L’enciclica Aeterni Patris di Leone XIII, nel 1879, giunge a complicare la situazione anche per gli stadi di formazione antecedenti a quello teologico8. La forte affermazione della filosofia neoscolastica e neotomistica per la formazione sacerdotale rende difficile introdurre innovazioni all’interno del tradizionale percorso formativo umanistico, se il metodo aristotelico-tomistico viene individuato come l’unico funzionale alla preparazione intellettuale del ministro del culto e della Parola rivelata. Ma, allo stesso tempo, l’urgenza di non penalizzare gli studenti laici, destinati prima o poi a confrontarsi con i programmi governativi, porta a creare percorsi formativi alternativi. Oltre a resistenze mentali e ideologiche, ci sono pure limiti oggettivi: quei sacerdoti, formatisi nella filosofia neoscolastica, soprattutto se non animati da più vasti interessi scientifici personali, si trovano in difficoltà, quando diventano docenti nei seminari, a insegnare materie che non hanno fatto parte del loro bagaglio formativo. Talune di queste discipline verranno in prosieguo di tempo, è vero, assegnate a docenti laici, ma spesso di malavoglia e con notevoli resistenze e cautele, nel rispetto dell’idea che si ha del seminario come di un hortus conclusus, almeno nelle intenzioni avulso dal mondo esterno.
Il tema scuola, all’interno della dialettica Stato-Chiesa sui seminari, assume dunque un risalto di primaria importanza. Il taglio dato a questo lavoro intende concentrarsi principalmente sulla trasformazione dei seminari in scuole specificatamente dirette alla formazione del clero. Trasformazione questa che si è realizzata con forza proprio successivamente all’Unità e in particolar modo nel corso del Novecento9.
È un fatto, comunque, che l’invadenza delle autorità pubbliche, centrali o locali, nelle scuole dei seminari, così come la sempre più difficile gestione della compresenza di differenti tipologie di studenti nelle medesime, coniugata alle crescenti preoccupazioni per le eccessive aperture che le nuove discipline portarono negli orizzonti mentali di parte del clero, condurranno, pressoché negli stessi anni, a due decisioni che costituiscono una vera cesura nella storia della Chiesa cattolica10.
Da una parte, la condanna del modernismo con la Pascendi dominici gregis di Pio X, nel 1907; dall’altra, la ‘chiusura’ dei seminari agli esterni, o meglio l’esclusiva frequenza alle scuole seminaristiche da parte dei candidati al sacerdozio: due fatti concreti destinati a segnare uno spartiacque. La seconda imposizione, in molti contesti locali, provocherà più che altro una separazione tra le scuole dei chierici e quelle per gli esterni, che spesso continueranno a funzionare, perlomeno sino all’inizio degli anni Sessanta, quando la creazione della scuola media unica indebolirà fortemente, fino a farlo quasi completamente sparire, il primo segmento dell’offerta formativa delle scuole dei seminari, andando ad incidere in particolare sui seminari minori. Non fu tanto, questo, un momento di cesura, quanto piuttosto il compimento di un processo innescatosi appunto mezzo secolo prima.
Le decisioni piane di inizio secolo producono però anche un nuovo salutare indirizzo nella storia delle istituzioni educative in oggetto: l’istituzione di seminari interdiocesani per i corsi filosofico-teologici, con una maggiore razionalizzazione nell’utilizzo delle energie e delle forze pedagogiche e intellettuali esistenti, nonché di quelle economico-finanziarie. È ben vero che, pure qui, le realizzazioni pratiche furono caratterizzate da una certa sfasatura temporale, perché il più florido periodo di creazione dei seminari regionali si colloca lungo il corso degli anni Venti e Trenta, sotto il pontificato di Pio XI, in particolare, ma non solo, sull’onda dell’enciclica Deus scientiarum dominus del 1931. L’obiettivo prioritario rimane però quello della nascita di un modello unico di sacerdozio, caratterizzato da un comune iter formativo e dalla ‘spiritualità della sottomissione’ all’autorità vaticana, tanto da annacquare alla fine le aperture di Pio X nei confronti dell’equiparazione ai programmi dei ginnasi-licei governativi11. Anche la fine dei preti sociali si realizzerà con uno scarto di poco più di due decenni, sotto l’egida della ‘normalizzazione’ nata dal connubio Chiesa-fascismo del periodo immediatamente successivo alla stipula dei Patti Lateranensi del 1929.
Nei primi anni Sessanta, sarà invece un altro evento, questa volta tutto interno al mondo ecclesiastico, a segnare una svolta, vale a dire il concilio Vaticano II. In quel cinquantennio, l’insistita riproposizione dell’immagine del seminario come ‘santuario’, del prete come uomo dei sacramenti, così come quella di una formazione seminaristica sorda ai fermenti e alle contrapposizioni del mondo esterno, mostra tutti i suoi limiti e le sue crepe. In effetti, già la seconda parte del pontificato di Pio XII, soprattutto a livello periferico, dunque spesso contro la volontà del papa e di parte della Curia, apre la strada alle novità conciliari: la spinta per l’inserimento di insegnamenti nuovi e aggiornati nel ciclo di studi seminaristici; il sempre maggiore interesse per la missiologia, sino alla Fidei donum del 1957; il fenomeno dei preti-operai, dapprima tollerato poi represso, sono tutti indicatori della necessità di un ripensamento della struttura, tridentina ancora nelle sue linee di fondo, del seminario. Su tutto, l’individuazione della parrocchia come ‘comunità missionaria’ e quindi la relativa necessità di formare un prete preparato a operarvi con fervore e successo12. Ma di un’apertura alle novità del secondo dopoguerra e di un confronto più attrezzato con la cultura laica si era comunque mostrato cosciente lo stesso Pio XII nell’esortazione apostolica Menti nostrae del 1950.
Il concilio raccoglie questi fermenti e li piega indirizzandoli verso la forte affermazione del tema della pastoralità: secondo il decreto specificamente rivolto alla formazione sacerdotale, la Optatam totius, più che «uomo dei sacramenti» il prete deve essere «pastore d’anime»13. Il che significa, da un lato, il rifiuto o comunque il forte limite posto alla tradizione pluricentenaria della professionalizzazione del sacerdozio14. Dall’altro lato, per la prima volta si afferma che la formazione intellettuale e spirituale del chierico deve convergere nel vertice della formazione pastorale, in dialogo però aperto con la cultura contemporanea. Aprendo la porta a differenti modi di essere prete, era chiaro però che implicitamente il concilio pareva voler legittimare anche differenti percorsi formativi, pur non giungendo a definire con precisione una nuova dottrina sul sacerdozio.
Di nuovo, tra i pronunciamenti conciliari e le pratiche realizzazioni successive il divario è notevole. Sotto il controllo del dicastero romano competente (la Congregazione per l’istruzione cattolica, divenuta poi, nel 1988, Congregazione per l’educazione cattolica) si attua una spinta verso l’accorpamento dei seminari, ma allo stesso tempo, vengono sempre più censurati e indeboliti più o meno autonomi tentativi di trovare percorsi alternativi o complementari alla formazione nei seminari15. È invece sotto le ali della Congregazione che si giunge alla stesura delle rationes institutionis sacerdotalis previste dal concilio.
Il Vaticano dunque non abdica alla necessità di seguire e indirizzare la formazione di una rinnovata, ma non sostanzialmente nuova, tipologia di sacerdote, che si avvia a diventare soprattutto multietnico: infatti, a fronte di una diminuzione dei chierici di origine europea, poi stabilizzatasi, si assiste tra gli anni Settanta e Ottanta all’esplosione delle vocazioni africane e sudamericane16. Ma la multietnicità dei seminaristi non inficia per nulla il tema e il problema che Pietro Barbaini poneva una quarantina di anni fa, anzi semmai li complica e li arricchisce: è la questione del prete come persona, in cui risiedono diritti del tutto identici a quelli di ogni altro uomo; e soprattutto del prete come ‘cittadino italiano’, soggetto ‘politico’ di uno Stato laico. Un’aspirazione, secondo lui, stretto e costretto come è stato il prete tra una Chiesa ancora troppo legata alla sua visione gerarchica e piramidale e politici di professione, anche e forse soprattutto credenti, troppo occupati ad escludere il clero dalla vita politica del paese17. Ma un’aspirazione in cui la scuola, alla quale sin dall’Unità si è voluta appoggiare la formazione del cittadino italiano, che torna ad assumere un ruolo di primo piano, dentro e soprattutto fuori i seminari.
Con la lettera apostolica Cum Romani Pontifices del 28 giugno 1853 Pio IX, appena rientrato da Gaeta, istituì il Seminario Pio18.
In pieno risorgimento, Pio IX ricordava che una retta e accurata formazione del clero rappresentava l’ingrediente fondamentale per l’incolumità e la prosperità non solo della religione, ma dell’intera società. Per questo Pio IX volle istituire un seminario per i futuri sacerdoti di tutte le diocesi dello Stato della Chiesa. Il documento del papa rilevava, in sostanza, un’opinione condivisa dai sovrani di tutta l’Europa sette-ottocentesca, ossia l’importanza che tra i vari Stati e la Chiesa si mantenesse quel sistema di collaborazione (che la stessa Restaurazione postnapoleonica aveva riproposto) in base al quale il clero, soprattutto diocesano, avrebbe costruito e organizzato il consenso nei confronti del potere costituito, attraverso l’educazione (e l’istruzione) della popolazione e attraverso la sua guida morale a tutela dell’ordine sociale19. Senza considerare quest’aspetto fondamentale dei rapporti fino allora tessuti tra le autorità civili e la Chiesa, è impossibile comprendere tutta la polemica che di lì a qualche anno si sarebbe aperta tra il neo nato Regno d’Italia e la Santa Sede, anche in merito ai seminari vescovili. Il Regno d’Italia, d’altronde, già dal suo esordio nacque anche sulle ceneri dello Stato della Chiesa e, per molti decenni, quella nuova configurazione politica fu considerata da molti ecclesiastici e laici cattolici come inaccettabile e dunque provvisoria.
Intervenire sulla formazione che gli aspiranti preti ricevevano nei seminari, fu considerato, da parte dello Stato, uno strumento imprescindibile per la costruzione di un clero nazionale che, come vedremo, si concretizzò in interventi massicci attraverso un rigido sistema di controlli e ispezioni rivolto ai seminari al fine di garantire la rigorosa osservanza delle leggi scolastiche previste anche per gli altri istituti d’istruzione secondaria del Regno. A quest’aspetto se ne aggiunse un altro altrettanto importante, e cioè che i seminari vescovili nei secoli precedenti si erano configurati non solo come istituti per la formazione del clero, ma anche per la formazione di laici20. Considerando che tra gli obiettivi più importanti del nuovo Stato c’era senza dubbio anche quello di costruire un’identità italiana, è facile comprendere che nella mente dei primi politici italiani, i seminari (dove si formava appunto una quota di quella borghesia umanistica21) si sarebbero dovuti rapidamente allineare al modello di ginnasio-liceo governativo di recente istituzione. A questo va aggiunto che, data l’opposizione nei confronti del nuovo Stato da parte delle istituzioni ecclesiastiche, ma anche di tanto clero e di una parte del laicato cattolico, consentire che all’interno dei seminari si istruissero laici e sacerdoti con sentimenti di antitalianità, rappresentò una problematica e un timore molto sentiti dalla classe dirigente italiana, la quale cercò di rispondere, tentando di controllare all’interno di quegli istituti lo svolgimento delle lezioni, i contenuti proposti e la classe docente.
A questo piano ne va senza dubbio aggiunto un altro e cioè che le varie sedi vescovili d’Italia avevano nel recente passato intessuto patti e consuetudini con i sovrani dei vari Stati, che nell’arco di un paio di anni furono letteralmente smantellati22. La portata rivoluzionaria dell’Unità d’Italia demolì tutti gli assetti precedenti, senza presentare un’alternativa che fosse valida anche per la Chiesa.
Alla luce di questo, si comprende come l’intervento talvolta coatto sui seminari che si rifiutarono di accogliere le prescrizioni dello Stato, si scontrò con il sentimento generale del paese che, da sempre, aveva individuato nell’istituzione seminariale un luogo di formazione d’eccellenza per moralità e cultura. Le azioni della nuova classe dirigente dovettero, quindi, confrontarsi e mediare instancabilmente tra la volontà a costruire il consenso alle istituzioni dello Stato e l’esigenza di non irrigidire i già tesi rapporti con il popolo cattolico d’Italia.
Il seminario cattolico era (ed è) un’istituzione ecclesiastica dipendente dagli Ordinari diocesani secondo il decreto De Reformatione, con il quale nel 1563, furono istituiti i seminari23. Quando il governo italiano pretese, quindi, di avere accesso ai seminari, le autorità ecclesiastiche, in base a quanto, appunto, stabilito dal concilio di Trento, rivendicarono l’autonoma natura di ente ecclesiastico del seminario (destinato alla formazione del clero) e, proprio in base a ciò, ritennero di essere esonerati dal controllo dello Stato. Assai spesso, come vedremo, soprattutto nel Sud Italia, i vescovi si opposero alle visite ispettive del governo, mancando di adeguare i loro programmi di studio e di riorganizzare le classi in base a quanto stabilito per i ginnasi e i licei governativi. Proprio in ragione del fatto che all’interno di quegli istituti venivano educati anche giovani ragazzi non destinati al sacerdozio, lo Stato continuò a rivendicare il suo diritto a intervenire e quando ciò non gli fu concesso, arrivò anche a chiudere i seminari renitenti.
Tali misure ebbero gravi conseguenze. Innanzitutto si macchiarono d’impopolarità: il seminario era pur sempre un’istituzione antica e che, talvolta da secoli, aveva contribuito a formare élite locali e soprattutto era considerato un luogo di sicura morale e disciplina. Secondariamente, soprattutto nei primi anni dopo l’Unità, chiudere i seminari significò privare territori anche estesi, di scuole ginnasiali e liceali, visto che scarse erano le risorse per istituirne di nuove.
Emerge quindi una grande contraddizione nelle scelte di politica ecclesiastica ed educativa del nuovo Regno. Gli svariati tentativi attuati per ispezionare i seminari, per controllarne i programmi e per abilitarne il personale docente, denunciavano, oltre alla volontà di limitare eventuali focolai di antitalianità, anche l’intenzione di far rientrare i seminari nell’organizzazione del sistema scolastico nazionale. Prima di acculturarsi nelle discipline teologiche, liturgiche ecc. il prete avrebbe dovuto essere un cittadino italiano a tutti gli effetti e la sua formazione avrebbe dovuto essere di competenza dello Stato. In sostanza, l’identità italiana, intesa come identità prima di tutto culturale-umanistica, avrebbe dovuto abbracciare anche il clero che, in questo modo avrebbe portato il suo contributo per il superamento delle storiche disomogeneità culturali, politiche e geografiche della penisola. Le tendenze giurisdizionaliste della classe dirigente, in contrasto con le posizioni liberali dichiarate (una su tutte valga l’assunto cavouriano «libera Chiesa in libero Stato»), imposero al nuovo Regno la necessità politica di non poter (e non voler) rinunciare a un clero che fosse fedele alle nuove istituzioni e ci consegna un’Italia i cui sforzi di laicizzazione passarono attraverso compromessi incoerenti e contraddittori24.
Al momento dell’Unità esistevano in Italia oltre 300 seminari distribuiti su tutta la penisola. La maggior parte di questi istituti, come si è detto, proponeva corsi d’istruzione primaria, ma soprattutto secondaria, oltre poi al corso teologico più specificamente diretto alla formazione finale del prete. Viste le difficoltà per l’impianto di nuove scuole non stupisce che il nuovo Regno finì per considerare come un’eredità l’ingente mole di seminari: l’esigenza impellente di avere scuole pubbliche attive nei vari territori convinse la nuova classe dirigente a cercare di utilizzare al meglio tutti quegli istituti.
La classe dirigente liberale optò quindi, in principio, per una sorta di nazionalizzazione dei seminari. L’idea era quella di utilizzare le scuole secondarie già attive presso quegli istituti come facenti parte del sistema scolastico nazionale, in modo che nel loro complesso essi rimanessero sotto la direzione dei vescovi adeguandosi però alle leggi dello Stato. In questo modo, i seminari avrebbero potuto continuare a istruire giovani anche non avviati al sacerdozio, adeguando però le loro scuole agli standard stabiliti per i ginnasi e i licei governativi.
La ‘nazionalizzazione dei seminari’ prevedeva la trasformazione dei programmi di studio e dei metodi didattici. Se si escludono alcune realtà del Nord Italia quest’idea di favorire l’integrazione dei seminari con l’offerta del sistema scolastico, si rivelò in gran parte inattuabile. La stragrande maggioranza dei vescovi meridionali rifiutò tale adeguamento facendo resistenza anche alla stessa visita ispettiva. Così, proprio in ragione di questo rifiuto, a detta dell’inchiesta che il ministro Natoli fece svolgere sui seminari d’Italia25, nel 1863 furono chiusi 13 seminari26.
L’anno successivo furono chiusi altri 40 seminari, in maggioranza del Sud Italia: Calabria, Puglia, Campania, Abruzzo e in qualche caso anche Umbria27. La scelta ebbe però, ben presto, serie conseguenze: iniziarono nel Meridione a mancare scuole e seminari per la vera e propria formazione dei sacerdoti.
Nel resto della penisola le cose andarono un po’ meglio. In ogni caso, c’è da ricordare che nonostante la disponibilità dimostrata dai vescovi del Nord Italia ad accogliere gli inviati ministeriali, in tutti i seminari del Regno gli insegnamenti continuarono per anni (in alcuni casi decenni) a essere impartiti senza tener conto delle normative ministeriali (prova ne sono le periodiche ispezioni ai seminari rintracciabili all’Archivio centrale dello Stato a Roma28). L’idea auspicata dalla classe dirigente (in particolare dai membri del Consiglio superiore di pubblica istruzione che dettero nei primi anni l’indirizzo politico ai governi) era quella di diffondere un unico modello di formazione per tutti i ragazzi dai 6 ai 18 anni che prevedesse il recupero dei classici latini e greci, preferibilmente studiati secondo i dettami della recente filologia tedesca, lo studio dei trecentisti, la matematica diEuclide e via dicendo. I seminari in realtà (e anche comprensibilmente) non riflettevano questa tipologia di studi, presentando, nel migliore dei casi, corsi completi di retorica, di filosofia e di teologia con criteri e programmi ragionevolmente propri.
In totale, tra il 1860 e il 1865 furono chiusi ben 82 seminari29. Si trattò di un fatto molto grave se si considera che lo Stato italiano con quelle chiusure impediva alla Chiesa l’espletamento di una sua fondamentale funzione, ossia la formazione dei futuri sacerdoti. Il modo in cui si cercò di ovviare al problema finì quasi per aggravarlo. Con il decreto del 1° settembre 1865, firmato sempre dal ministro Natoli, tali seminari furono nuovamente aperti e le loro rendite (compresi i locali) furono sequestrate nella misura di due terzi per l’istituzione di altrettante scuole pubbliche (prima attribuite alla provincia e successivamente spostate di competenza ai comuni30), lasciando così al seminario il solo corso teologico.
In base alle condizioni previste dal regolamento l’applicazione del decreto ottenne scarsi risultati coinvolgendo solo pochi seminari e, in alcuni di quei casi, qualche anno più tardi, il Consiglio di Stato ne ratificò addirittura l’inapplicabilità e, dunque, sancì la restituzione delle rendite e dei locali. Non solo, ma anche la popolazione locale accettò talvolta malvolentieri le nuove scuole sorte sullo scorporamento del seminario e ciò creò non pochi problemi di legittimità, in quanto tale discredito in alcuni casi produsse anche una defezione massiccia dei nuovi corsi di studio. In tutto solo venti furono i seminari riaperti le cui rendite furono in parte convertite (Napoli, Caserta, Teano, Ostuni, Gallipoli, Brindisi, Oria, Vasto, Trani, Bisceglie, Cassano, Nocera e Pescina de’ Marsi; poi anche Ariano, Benevento, Nicotera, Nusco, Salerno, San Severino e Sorrento)31. I restanti cinquantuno seminari rimasero – almeno formalmente – chiusi.
Come si è detto, i vescovi si consideravano i responsabili e gli unici ‘titolari’ del seminario e questo fatto fece sì che, nonostante le continue richieste da parte governativa e nonostante le ingiunzioni di chiusura ripetute, gli ordinari si sentirono, in molti casi, autorizzati a gestire il seminario con le modalità che ritennero più opportune. Accadde così che molti seminari che erano già stati chiusi continuarono ugualmente a tenere aperte le loro scuole e ad accogliervi giovani ragazzi sia laici sia chierici. È evidente, dunque, che nonostante gli sforzi fatti dal Governo, i rapporti privilegiati tra le autorità locali e i vescovi, e la legittimazione che quegli istituti ricevevano dalla popolazione, valsero più di mille prescrizioni governative.
All’inizio degli anni Settanta dell’Ottocento un po’ grazie allo stemperamento delle posizioni avvenute a seguito della Legge sulle guarentige al sommo Pontefice32 e un po’ per l’ampliamento che in quegli anni aveva caratterizzato il sistema d’istruzione pubblica, ci fu una sensibile apertura nei confronti dei seminari. La situazione, infatti, era apparsa così incontrollabile che, nel 1872, il ministro Scialoja girò una circolare ai Consigli scolastici del Regno nella quale si comunicò la possibilità, data ai seminari, di tenere aperte le scuole senza dover tener conto dei programmi governativi e dell’idoneità del personale docente, a condizione però che quegli istituti fossero stati frequentati da soli chierici. Diversamente, la circolare chiariva che, se anche un solo studente fosse risultato laico, il vescovo avrebbe dovuto adeguarsi a quanto prescritto per le scuole pubbliche.
La misura apparve a molti una decisa concessione alle autorità episcolpali33, anche perché eludere quell’indicazione fu fin troppo semplice: bastava un abito talare indossato indistintamente da tutti per poter tenere aperte scuole che elargivano corsi di istruzione ginnasiale e liceale fuori del controllo dello Stato. E così, infatti, avvenne.
Nel 1874, infatti, quando il ministro Ruggero Bonghi promosse un’ulteriore indagine sui seminari di tutto il Regno, emerse che, pur diminuiti nel numero, quegli istituti continuavano ad accogliere una gran parte di giovani che vi svolgeva il corso ginnasiale e in alcuni casi anche liceale presentandosi poi a sostenere gli esami di diploma presso un istituto governativo: 17.478 gli studenti complessivi censiti dall’inchiesta (contro i 13.174 di quella precedente voluta da Natoli nel 1865); i laici risultarono essere un quarto del totale anche se, come dichiarò Barberis redattore della Relazione, era comune vestire i «laici da chierici»34.
Il seminario cattolico scontava, dunque, la sua ibrida funzione d’istituto laico ed ecclesiastico insieme. Non è un caso, infatti, che le misure via via prese dalla Roma papale a partire dal pontificato di Leone XIII negli ultimi decenni del secolo XIX e per i primi del XX ruoteranno intorno alla chiusura delle porte del seminario a coloro che non aspirino all’ordinazione: proprio nel tentativo di costruire un percorso formativo specifico e più in linea con le esigenze dei tempi35. L’importanza di distinguere gli studi destinati ai futuri sacerdoti, sottolineando con forza l’esigenza che in ogni seminario ci fosse un padre spirituale e costui fosse un «ecclesiastico molto esperto nelle vie della perfezione cristiana» rappresentarono alcune delle più importanti prese di posizione di Leone XIII36 e Pio X37. Ciò dimostra quindi atteggiamenti nuovi nei confronti di un’istituzione, come quella seminariale, che per molti anni aveva visto confondere la sua missione principale. Il nuovo atteggiamento coinvolgerà anche i formatori dei seminari a cui Leone XIII, nell’enciclica ai vescovi e al clero di Francia, indicherà a chiare lettere:
«Non si tratta già per essi, come per la comune dei maestri, d’insegnare semplicemente a questi giovani gli elementi delle lettere e delle scienze umane. Questa è appena la minima parte dell’ufficio loro. Occorre che la loro attenzione, il loro zelo, la loro abnegazione siano incessantemente vigilanti ed operosi, per esaminare da un lato continuamente, sotto lo sguardo e la luce di Dio, le anime dei giovani ed i manifesti indizi della vocazione loro al servizio degli altari [...]. Non perderanno mai di vista che essi non debbono già preparare per terrene funzioni, pur legittime ed onorevoli [...]. La Chiesa li ha loro confidati, perché divengano un giorno capaci di essere Sacerdoti, cioè missionari del Vangelo, continuatori dell’opera di Gesù Cristo»38.
Via via si faceva strada l’idea che un prete dovesse avere un grado di cultura similare a quello previsto per il cittadino istruito a cui si sarebbe rivolta la sua pastorale. Questa novità trovò la sua legittimazione nel bisogno di una maggiore credibilità sociale, ma soprattutto nell’esigenza di garantire ai ‘non chiamati’ di poter uscire dal seminario con una cultura spendibile anche fuori di esso: ciò avrebbe, in sostanza, garantito maggiormente il riconoscimento delle autentiche vocazioni.
Come noto, e come nuovamente sottolineato da Verucci39, la parte finale del secolo XIX si è caratterizzata, da un lato, per il tentativo di ricristianizzazione della società, includendo in questa anche una riforma degli studi praticati dai chierici nei seminari, dall’altro, dal processo di accentramento del governo della Chiesa negli uffici della Curia romana: si pensi ad esempio, all’accorpamento di molti seminari attraverso l’istituzione dei seminari interdiocesani prima e regionali poi, la cui sorveglianza sarà successivamente di competenza della Congregazione. La ricattolicizzazione della società e l’accentramento verticistico uniti alla consacrazione del tomismo (enciclica Aeterni Patris del 1879) come dottrina ufficiale della Chiesa, caratterizzeranno quella svolta accentratrice che consegnerà la Chiesa al concilio Vaticano II40.
In quest’ottica, anche lo spostamento di competenze sui seminari che, dalla Congregazione dei vescovi e dei regolari, passò ad un ufficio della Concistoriale e nel 1915 a una Congregazione specifica, quella cioè dei Seminari e delle università degli studi, ci conferma quanta centralità acquisterà la formazione dei seminari nel corso del Novecento. Per tutto l’Ottocento, come detto, infatti una grossa fetta di chierici compiva il suo percorso di formazione in strutture anche diverse dai seminari: nei collegi dei gesuiti, ad esempio, nelle case dei parroci, o dai salesiani, successivamente, ed è solo nel corso del secolo XX che il seminario cattolico diventerà il luogo principale di formazione del clero.
È evidente, dunque, che in un certo senso l’Unità d’Italia agì sulla trasformazione del seminario cattolico, anche grazie alle continue pressioni esercitate per l’adeguamento dei curricula e per la richiesta di personale docente patentato. Tali pressioni finirono, così, per concentrare l’attenzione anche di parte delle gerarchie ecclesiastiche sull’ibrida funzione dell’istituzione tridentina. La polemica con lo Stato italiano, dunque, unita alle nuove esigenze formative di una società religiosa in espansione come quella cattolica del secolo XX contribuirono ad una revisione della formazione del clero e quindi degli istituti seminariali. Esiste anche un ulteriore aspetto che collega la costruzione del nuovo Stato alla valorizzazione del seminario come luogo privilegiato di formazione, e cioè la soppressione delle facoltà teologiche dalle università dello Stato.
Quando, infatti, nel 1873 le facoltà teologiche furono abolite nelle università italiane41, il corpo del collegio dei docenti di dette facoltà, proprio perché originariamente di emanazione pontificia, si trasferì all’interno dei seminari vescovili più prossimi e da qui continuò a conferire i gradi accademici in Sacra teologia42. Dagli anni Sessanta dell’Ottocento fino ai primi decenni del Novecento oltre venti facoltà teologiche operarono dall’interno dei seminari vescovili. Questo trasferimento di competenze dallo Stato alla Chiesa è di grande importanza perché spostò all’interno dei seminari una certa riflessione teologica, potenziandoli quindi come luoghi di formazione di primaria importanza. È, infatti, innegabile che il dover rispondere positivamente ai requisiti specifici (richiesti di volta in volta dalla Congregazione per il ripristino di detta prerogativa), indusse molte sedi, soprattutto arcivescovili, a rispettare standard nuovi: personale docente, curriculum specifici. Tuttavia lo scadimento degli studi e l’inadeguatezza del personale docente fecero sì che ben presto i seminari perdessero la prerogativa di conferire gradi accademici in teologia43.
La nuova centralità acquisita via via dal seminario si comprende anche alla luce della crisi modernista che fu al centro delle preoccupazioni di Pio X44 e che nel 1907 si concretizzò nell’enciclica di condanna Pascendi45. Anche per questo, tanta fu l’attenzione che venne riservata al personale docente, ai superiori e ai libri di testo in circolazione nei seminari che nell’ottica delle epurazioni antimoderniste furono oggetto di attenzioni specifiche e di implacabili condanne46.
Il più importante documento redatto da Pio X in merito ai seminari è il Programma generale degli studi proposto dalla Congregazione dei vescovi e dei regolari del 10 maggio 1907, a cui seguirono le Norme per l’ordinamento educativo e disciplinare dei Seminari d’Italia compilate a cura della stessa Congregazione e trasmesse ai vescovi il 4 marzo dell’anno successivo. Come noto47 il nuovo programma di studi divise i corsi in ginnasio, liceo e teologia; le materie da studiare nei primi due corsi risultarono per la prima volta essere le stesse previste per gli istituti pubblici italiani corrispondenti, sia perché ciò avrebbe messo i sacerdoti sullo stesso livello di «sviluppo della cultura richiesta dalla odierna società», sia per dare la possibilità ai giovani di scegliere liberamente lo stato ecclesiastico essendosi provvisti dei titoli legali. La seconda novità, appunto, fu aver imposto ai seminaristi l’ottenimento della licenza ginnasiale, prima, e del diploma liceale, poi. Le uniche differenze, rispetto ad un ginnasio e ad un liceo pubblico, consistettero in una certa preferenza accordata al latino, nel ginnasio, e in un «più ampio sviluppo della sana teologia»48 nel liceo.
Le norme del 1907 dettero non pochi inconvenienti. Da un lato, apparve sempre più evidente, anche dalle visite apostoliche del 1911, che il modernismo aveva trovato proprio nei seminari terreno per proliferare49, dall’altro le caratteristiche del nuovo percorso ginnasiale avevano più che risolto, aggravato ulteriormente alcuni problemi. L’aver imposto, ad esempio, ai seminaristi il conseguimento della licenza ginnasiale e liceale, invogliò nuovamente molti genitori ad affidare i propri figli ai seminari anche senza l’obiettivo dell’ordinazione. Conseguenza di ciò fu che, una volta concluso il percorso di studi ginnasiali e, talvolta anche liceali, molti dei giovani seminaristi finivano per abbandonare il seminario senza terminare il percorso teologico e quindi giungere all’ordinazione.
Le riforme del 1907 suscitarono, dunque, forti critiche tra cui anche quella di chi osservò che quei pochi che restavano in seminario anche successivamente all’ottenimento delle licenze, molto spesso, proprio a causa della finalizzazione delle precedenti scuole, quando arrivavano allo studio della teologia risultavano impreparati, per la troppa attenzione riservata negli anni precedenti ai curricula previsti dalle scuole pubbliche italiane. Di conseguenza il 16 luglio del 1912 la Sacra congregazione concistoriale diramò una nuova circolare50 che modificò i programmi. Nel documento venne prescritto che nei seminari i piccoli alunni fossero separati dai più grandi, che non fossero ricevuti i non aspiranti al sacerdozio, e che non fosse permesso ai giovinetti di frequentare le scuole pubbliche. Inoltre, venne raccomandato uno studio ancora più profondo della lingua latina e, negli anni del liceo, lo svolgimento di tutti i trattati di filosofia razionale, secondo il metodo scolastico e un ampio studio di tutte le materie teologiche (come la patristica o la storia dei dogmi). Sempre nella circolare del 16 luglio 1912 la Sacra congregazione, pur ribadendo l’obbligo della licenza ginnasiale, consigliò la licenza liceale solo per quegli studenti molto bravi che avrebbero meritato di essere avviati all’università.
Nonostante le novità introdotte dalla circolare del 1912, tante furono le lamentele da parte di molti vescovi. Infatti tra le scelte attuate da papa Pio X ci fu anche quella della suddivisione dei seminari in diocesani (a cui affidare il corso ginnasiale e talvolta anche liceale) e seminari interdiocesani (che poi diventeranno regionali). In base a queste scelte l’istituto seminariale (che da sempre era stato uno strumento nelle mani dei vescovi), subì trasformazioni non banali quanto alla sua organizzazione e direzione. I seminari interdiocesani, infatti, cominciarono a dipendere direttamente dalla Sacra congregazione, spodestando così, in un certo senso, i vescovi dalla formazione più prettamente teologica, pastorale e dottrinaria dei futuri sacerdoti della diocesi. La novità, voluta in un’ottica indubbiamente accentratrice, aveva creato malcontenti tra i vari ordinari diocesani, soprattutto in quelli che avevano visto accorpare il proprio corso teologico nel seminario limitrofo che per strutture e mezzi era risultato più idoneo. La trasformazione dei seminari si era resa necessaria anche per differenziare la formazione diretta ai giovani ragazzi di 12 e 14 anni, ancora incerti quanto alla vocazione, rispetto a quelli più maturi e certi della loro scelta che venivano indirizzati ai seminari interdiocesani per studiare le materie proprie della loro missione sacerdotale.
A questo va aggiunto che l’esigenza di aumentare il controllo sulla formazione sacerdotale procedette di pari passo con il desiderio di uniformare la formazione dei chierici, e che tale volontà si scontrò con la prerogativa (considerata inalienabile) dei vescovi di provvedere alla formazione dei futuri sacerdoti che per consuetudine avrebbero poi costituito la schiera dei propri cooperatori. Benché lo stesso concilio di Trento avesse stabilito l’istituzione di seminari minori e maggiori, quando Pio X ne previde l’accorpamento e la concentrazione in ragione di avere «tutti gli elementi necessari e sufficienti di vita»51 (mezzi materiali, direttori e maestri), le piccole diocesi non si rassegnarono facilmente, considerando tale misura «odiosa e restrittiva delle prerogative episcopali»52. Nel 1916 fu così rettificato il ruolo di centralità del vescovo nel seminario diocesano e del collegio dei vescovi per l’interdiocesano, lasciando alla Sacra congregazione l’esercizio di sorveglianza sull’andamento di tutti i seminari diocesani centrali. A complicare ulteriormente le cose, intervenne il primo conflitto mondiale che chiamò sotto le armi alcuni professori e a cui si dovette rimediare in qualche modo.
È evidente, quindi, che dopo il primo slancio verso un’apertura della cultura sacerdotale a quella laica, nei primi decenni del Novecento si preferì una formazione sacerdotale uniforme e più specificatamente canonica. Tale cambiamento non rappresentò tanto un passaggio conservatore di ritorno al passato, quanto una trasformazione innovativa, in un’ottica organizzativa nuova ed efficiente indubbiamente legata alle misure antimoderniste, alla promulgazione del nuovo Codex iuris canonici del 1917 (d’ora in avanti Cic) e al tomismo quale dottrina ufficiale della Chiesa. Passaggio di ‘competenze’ non morbido in ogni caso. Non bisogna dimenticare che, ancora oggi, avere un numero cospicuo di seminaristi è comunque considerato un merito del vescovo ed è in questo senso che si comprendono le resistenze fatte dai vari ordinari diocesani rispetto al depotenziamento e decentramento della gestione degli istituti: avere reso nuovamente il vescovo e il collegio dei vescovi responsabili dell’organizzazione complessiva dei seminari, significò da un lato tornare al rispetto di quanto stabilito dal concilio di Trento, e anche attuare un delicato decentramento rispetto alle disposizioni d’inizio secolo della Sacra congregazione.
Proprio perché negli ultimi decenni si erano verificati tanti cambiamenti nelle indicazioni diramate dalla Congregazione, il 26 aprile del 1920 fu redatto un nuovo ordinamento53 (che resterà alla base dell’organizzazione dei seminari fino al concilio Vaticano II) in cui vennero riprese e ordinate tutte le precedenti disposizioni. Facendo riferimento al Cic e riprendendo i documenti fino ad allora stesi dai pontefici e dalle congregazioni che precedentemente si erano occupate dell’ordinamento dei seminari (quella dei vescovi e regolari, prima, la Concistoriale, poi), tale ordinamento reinterpretò e riorganizzò tutta la produzione normativa precedente in una chiave fortemente incentrata sulla separatezza e specificità degli studi condotti nei seminari.
Riprendendo quanto definito dal concilio tridentino e ribadito da Leone XIII54 e da Pio X55, il nuovo Regolamento sottolineò che il fine del Seminario era quello di preparare i giovani allo stato ecclesiastico (can. 1352).
Si ribadì così che ogni diocesi avesse il suo seminario anche in ragione di quanto stabilito dal Cic (can. 1354, §1) e che ovviamente tale seminario fosse proporzionato alla dimensione e alle rendite specifiche della diocesi56.
Quanto all’istruzione specifica il documento riproponeva le indicazioni della circolare del 1912, poi riemerso nella Plenaria del 1916: finis mensura mediorum. L’istruzione doveva cioè essere esclusivamente subordinata al fine per il quale erano stati istituiti a suo tempo i seminari. Quindi, non solo le scuole dei seminari avrebbero dovuto accogliere soli seminaristi, ma «le scuole del seminario, anche se ginnasiali e liceali, d[ovevano] avere un carattere ed indirizzo loro proprio, quale [era opportuno richiedere] per gli aspiranti al sacerdozio»57.
Ai maestri dei seminari veniva raccomandata «la precisione e la chiarezza dell’esposizione, lo sviluppo progressivo delle materie, gli esercizi pratici, le ripetizioni giornaliere e periodiche delle cose spiegate»58 suggerendo, inoltre, una particolare attenzione alle dispute a suo tempo volute da Borromeo e da Barbarigo, e riconoscendo l’alta missione dei formatori dei seminari.
Sempre il documento del 1920 non mancava di rimarcare l’importanza dei libri di testo e dei programmi da svolgere nei seminari. Le indicazioni della Congregazione sottolinearono così che non era «necessario che ogni scuola si trasform[asse] in scuola di Religione e di Morale; basta[va] cogliere opportunamente e senza sforzo dalla materia insegnata l’occasione per istillare nell’anima degli scolari gli alti principi di pietà cristiana e sacerdotale»59. Così il professore di storia civile avrebbe dovuto notare nelle sue lezioni «la lotta perenne tra il bene e il male, le sue cause e le sue conseguenze»60; il professore di letteratura osservando «nella bellezza dell’arte il riflesso di una bellezza infinita»; il professore di storia naturale «a dimostrando in tutte le cose create la sapienza, la potenza e la bontà del creatore». Così anche per i libri di testo, veniva ribadito quanto stabilito dalla Concistoriale nella circolare del 1912 e cioè che «tutti i libri di testo che vanno per le mani degli alunni, debbono essere perfettamente sani, santamente educativi e compilati con vero spirito ecclesiastico; perché anch’essi debbono concorrere a formare lo spirito dei futuri cooperatori dell’Altissimo nella santificazione delle anime»61. Quindi non solo andavano eliminati i libri «infetti di spirito antireligioso e settario, e quelli di letteratura […] ma ancor quelli che si dicono neutri e non sono informati ai santi principi del Vangelo e quelli che potessero in qualsiasi modo essere di scoglio alla debole virtù di giovani incauti»62.
Quindi l’obiettivo dell’alunno del seminario non doveva essere quello di studiare per abilitarsi a un esame di licenza di Stato, bensì quello di rendersi capace di svolgere il ministero pastorale. Lo studio di materie accessorie (come la storia o la geografia) era dunque finalizzato al solo bisogno di aggiungere prestigio e decoro all’ufficio del sacerdote63.
Un nuovo cambiamento si verificò nel 1940 quando fu istituita in Italia la scuola media64 e la Congregazione diramò una nuova circolare65. In quel documento si specificò l’obbligo di adottare anche per i seminari il programma della scuola media pubblica seguendo però, quanto al metodo d’insegnamento, le direttive contenute nell’Ordinamento del 26 aprile 1920 (concentrando cioè l’attenzione soprattutto sullo studio della religione e del latino). Analogamente, fu sottolineata l’importanza, per tutti i seminaristi, di procurarsi il titolo di proscioglimento da detta scuola, dato che la licenza media garantiva un titolo minimo d’istruzione importante anche per la tenera età dei giovinetti e quindi per la salvaguardia delle vere vocazioni.
La circolare del 1940 conteneva, inoltre, anche un allegato in cui erano contenute Alcune norme circa l’ordinamento degli studi medi nei Seminari nel quale si sottolineava che dall’anno scolastico 1941-1942 si sarebbero dovute introdurre le modifiche prescritte dai nuovi programmi civili circa la nuova scuola media66. Al punto terzo, infine, le Norme indicavano l’obbligo di fornirsi della licenza al termine del corso e stabiliva che chi non si fosse provvisto del titolo, non sarebbe stato iscritto alla classe immediatamente superiore. Interessanti erano anche le indicazioni riguardo al lavoro manuale rispetto al quale ne era fatto obbligo anche ai seminaristi: esercitazioni di orticoltura, apicoltura, legatoria, tipografia, intarsio, traforo, impianti elettrici ecc. D’altronde, le «conseguenti attitudini avrebbero [avuto] pratica utilità anche nel sacro ministero»67.
Da una successiva circolare del 194168 sappiamo che le indicazioni fatte girare l’anno precedente erano state applicate ed era stato
«comunemente accettato il principio che i seminari, pur mantenendo i metodi tradizionali della Chiesa, [dovessero] tener gran conto dei nuovi ordinamenti civili della Scuola, secondo lo spirito del can. 1364, C.I.C. e rendere obbligatorio per tutti gli alunni il conseguimento della Licenza dalla Scuola Media»69.
Solo in alcuni casi continuò a non essere osservata la prescrizione dell’obbligo di ottenere la licenza media, così, anche alla luce di quanto detto dal Santo Padre nell’esortazione al clero Menti Nostrae ovvero, dell’importanza che «i seminaristi [fossero] più liberi nella scelta dello stato [evitando] che qualcuno si sent[isse] in certo modo spinto a seguire una via che non [era] la sua»70, l’11 febbraio 1952 la Sacra congregazione inviò una nuova circolare in cui si leggeva che, proprio per garantire la libertà necessaria per la scelta dello stato ecclesiastico, era raccomandato l’obbligo della licenza media, dato che la libertà era chiaramente più garantita «dal possesso di un titolo di studio, benché modesto»71.
È evidente che riconoscere le vere vocazioni diventerà sempre più importante e uno degli scopi principali dei primi anni in seminario, come emerge anche dall’istituzione nel 1941 della pontificia Opera delle Vocazioni72 che, ancora oggi, cura il coordinamento e la promozione della specifica pastorale nelle diocesi dei cinque continenti73, e da documenti anche recenti come l’invito all’uso «delle competenze psicologiche nell’ammissione e nella formazione dei candidati al sacerdozio»74 del 2008.
Con la circolare del 15 agosto 194975 la Sacra congregazione stabilì anche l’esatto programma di musica da svolgersi nei seminari a partire dalla prima classe della scuola media fino al termine del corso teologico.
Il canto gregoriano dominava incontrastato dal punto di vista teorico e pratico, già dalla prima liceo fino alle applicazioni specifiche nel canto liturgico76.
Come si è potuto osservare, già nel corso dell’Ottocento, si erano succedute indicazioni sempre più determinanti sull’importanza dell’insegnamento e dell’uso del latino. Infine, ma non per ultimo, lo stesso Cic al can. 1364 §2 aveva stabilito che gli alunni dei seminari dovessero studiare accuratamente il latino e la lingua nazionale. Così, quasi a conclusione di questo percorso, inaspettatamente, il 22 febbraio del 1962 Giovanni XXIII, alla presenza di tutto il clero romano e di molti vescovi e cardinali riuniti in occasione della festa della Cattedra di s. Pietro, firmò la costituzione apostolica De Latinitatis Studio Provehendo, conosciuta come Veterum Sapientia77.
Nella costituzione, il papa descrisse e definì l’importanza dello studio del latino nei seminari e, in generale, nella cultura della Chiesa: sia come lingua ufficiale, sia liturgica. Questo fatto da un lato stupisce e dall’altro ci conferma l’importanza anche dottrinaria che tale scelta implicava. Nei lavori di preparazione al concilio Vaticano II, tra le questioni in discussione, c’era anche il latino, sia come lingua liturgica, sia come lingua ufficiale della Chiesa universale78. Da quanto riportato dal cardinale Alfonso Stickler, relatore per la sottocommissione, la maggior parte dei vescovi desiderava un uso più massiccio delle lingue volgari a livello liturgico, e la conservazione del latino come lingua ufficiale della Chiesa cattolica romana. Di fatti, avvenne che «la commissione preparatoria delconcilio Vaticano II per i Seminari e le università degli studi istituì una sottocommissione per preparare uno schema del Decreto De lingua latina in studiis ecclesiastica rite escolenda»79 di cui il cardinale Stickler fu appunto il relatore. Per evitare gli scontri già annunciati in seno al concilio, e vista l’importanza del documento, il papa, firmò poco prima dell’apertura la Veterum Sapientia che, riprendendo in gran parte lo schema preparatorio della sottocommissione, sottolineò che l’importanza del latino si giustificava, oltre che alla luce della tradizione con cui la Chiesa si era espressa dalle origini, anche alla luce della consapevolezza che la Chiesa «eccellendo di gran lunga in dignità su tutte le società umane» – in quanto fondata da Gesù Cristo – era giusto che usasse una lingua «non popolare, ma ricca di maestà e nobiltà».
L’applicazione delle indicazioni presenti nella Veterum Sapientia e soprattutto nelle Ordinationes che seguirono, il 22 aprile 196280 (che si soffermarono sui programmi da svolgersi nei seminari, sulla pronuncia e sugli esami81) non fu così semplice nel resto del mondo. In contesti nei quali il latino non era insegnato nelle scuole pubbliche e di conseguenza mancavano anche insegnanti preparati, aver insistito per un’uniformità mondiale sull’uso e sull’insegnamento del latino non poteva non scontrarsi anche con realtà locali fortemente differenti. Un conto era senza dubbio imparare correttamente il latino per un italiano, un francese o uno spagnolo, altro conto era pensare di rivolgere le stesse richieste al clero indiano, cinese o filippino.
Per comprendere le trasformazioni prodotte dalla legge 31 dicembre 1962, n. 1859, che a partire dall’anno 1963 trasformò in Italia il ciclo di studi medi rendendolo gratuito e sancendo l’innalzamento dell’età dell’obbligo a 14 anni, bisogna tener presenti almeno altri due elementi che non sono ancora emersi, ma che dettarono le norme per applicare la nuova configurazione di sistema scolastico nei seminari. Il primo elemento è l’art. 39 del Concordato del 1929 tra lo Stato italiano e la Santa Sede, che stabilì per la prima volta la non ingerenza assoluta dello Stato sui seminari. Il secondo elemento è l’art. 32 della legge 19 gennaio 1942 n. 86, che stabilì che gli esami di licenza e di diploma potessero essere sostenuti oltre che nelle scuole statali e nelle pareggiate, anche nelle scuole legalmente riconosciute dipendenti dall’autorità ecclesiastica82, fatto questo che consentì a molti seminaristi di non doversi più presentare nelle scuole pubbliche per sostenere gli esami.
Anche a seguito della legge del 1962 si assistette a un adeguamento dei programmi nei seminari e anche in quel caso fu fatto obbligo ai chierici di ottenere la licenza, senza la quale non avrebbero avuto accesso ai cicli successivi di formazione. Il cambiamento però forse più importante fu che la capillarità delle scuole medie sul territorio, e l’estensione dell’età dell’obbligo, ritardarono negli anni l’età di entrata in seminario, svuotando di conseguenza i seminari minori.
Il 1963 da un punto di vista simbolico rappresentò un anno molto importante. Oltre a essere, come visto, l’anno dell’introduzione della scuola media unica, fu anche l’anno della ripresa del concilio Vaticano II daPaolo VI, dopo la morte di Giovanni XXIII; non ultimo, in quella stessa data cadde il quarto centenario del concilio di Trento che nella sua sessione XXIII aveva istituito i seminari per la prima volta.
Così, il 4 novembre del 1963, non a caso nella festa di s. Carlo Borromeo83, Paolo VI celebrò nella basilica di S. Pietro la triplice ricorrenza84. Il pontefice cominciò la sua celebrazione sottolineando l’importanza del seminario nella storia non solo della Chiesa, ma anche della società:
«quest’anno, perciò, ricorre il IV centenario di un avvenimento così importante per la storia della Chiesa Cattolica. Questa ricorrenza è ancor più meritevole di essere degnamente ricordata in quanto essa coincide con la celebrazione del concilio ecumenico Vaticano II, nel quale la Chiesa come ha a cuore di promuovere con provvidi decreti il rinnovamento dei costumi del popolo cristiano, così non mancherà di dedicare le sue particolari attenzioni ad un settore di sommo interesse vitale per tutto il corpo mistico di Gesù Cristo, quale è costituito dai giovani che attendono nei Seminari alla loro preparazione al sacerdozio»85.
Intanto la popolazione in Italia continuava ad aumentare mentre diminuiva il numero dei preti rispetto al totale degli abitanti.
È in quest’ottica che va collocata la preoccupazione diPaolo VI che affermava la necessità di coinvolgere nel processo educativo degli aspiranti sacerdoti tutto il corpo della Chiesa: «Come potranno spuntare numerose ed autentiche vocazioni sacerdotali in ambienti familiari e scolastici, nei quali si esaltano quasi unicamente i valori e i benefici inerenti alle professioni terrene?»86.
Dopo aver quindi sottolineato l’innegabile chiamata divina al sacerdozio, e l’importanza del contesto educativo familiare e scolastico, ribadiva quanto fosse importante salvaguardare le vocazioni dalla corruttela del mondo.
Analoghe indicazioni, soprattutto in merito al necessario coinvolgimento di tutto il corpo della Chiesa per la valorizzazione della formazione e della ricerca di vocazioni nella società, saranno ratificate anche dal Vaticano II che nel decreto Optatam totius sulla formazione affermerà l’importanza che «tutti i sacerdoti dimostr[assero] il loro zelo apostolico soprattutto nel favorire le vocazioni, e con la loro vita umile, operosa, vissuta con cuore gioioso, come pure con l’esempio della loro scambievole carità sacerdotale e della loro fraterna collaborazione»87.
Come noto, il concilio Vaticano II dedicò due dei suoi documenti alla formazione dei presbiteri. Il primo è l’Optatam totius il decreto conciliare espressamente rivolto alla formazione sacerdotale, e il secondo il Presbyterorum ordinis incentrato invece sul ministero e sulla vita sacerdotale88.
Quanto alla formazione specifica nei seminari l’Optatam totius ribadì in sostanza temi già noti: formazione umanistica, catechesi e liturgia, approfondimento delle sacre scritture, osservanza della preghiera e individuazione e valorizzazione delle vere vocazioni89. Le novità più importanti dei due documenti, furono la scelta del termine ‘presbitero’ in luogo di ‘prete’, che rinviava alla triplice funzione di profeta, sacerdote e servo, sottolineando quindi come la funzione del sacerdote non si dovesse limitare all’eucaristia e all’amministrazione dei sacramenti, ma dovesse essere di servizio per la predicazione e per la guida della comunità religiosa90. La seconda novità su cui ci soffermeremo tra breve fu l’aver incaricato le conferenze episcopali dei vari paesi di redigere un Documento di formazione sacerdotale. Si trattava in sostanza di un cambiamento molto importante: la formazione dei seminaristi non avrebbe più coinvolto direttamente i vescovi o i superiori dei seminari, ma per queste funzioni le conferenze episcopali nazionali avrebbero indicato la via da perseguire. In realtà, ben presto, la Congregazione per l’educazione cattolica (voluta dal nuovo assetto della Curia romana in base alla costituzione apostolica Regimini Ecclesiae universae del 15 agosto 1967) s’incaricò, anche in base alle sollecitazioni ricevute dalle conferenze episcopali nazionali, di redigere un’unica Ratio Fundamentalis che interpretasse le volontà conciliari91. Il testo, Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis, fu promulgato il 6 gennaio 197092 e proprio sulla base di quel documento le varie conferenze episcopali redassero il proprio documento. Per l’Italia il documento della Cei arrivò nel 1972.
Con la promulgazione del nuovo Cic (25 gennaio 1984) tutta la materia pedagogica e disciplinare riguardante i seminari e la formazione sacerdotale fu rivista e, conseguentemente, nel 1985 la Congregazione per l’educazione cattolica apportò le modifiche che si erano rese necessarie, presentando alle conferenze episcopali e agli istituti di formazione di tutto il mondo una nuova edizione della Ratio.
Tale documento è ancora in vigore e conviene soffermarsi su alcuni suoi aspetti93.
La nuova Ratio manteneva ovviamente ancora saldi i rapporti con la precedente edizione, e quindi con i decreti conciliari Optatam totius e Presbyterorum ordinis, salvo alcuni ulteriori riferimenti a recenti prescrizioni e, come detto, al nuovo Cic.
Veniva così ribadito il fine proprio del seminario minore ossia «aiutare gli adolescenti che sembrano possedere i germi della vocazione, perché più facilmente riconoscano la loro vocazione e siano capaci di corrispondervi» (n.11). L’importanza di una prudente selezione era, infatti, stata ribadita anche dal can. 241; si sarebbero dovute a tal fine tener presenti le doti umane e morali degli alunni (come sincerità, maturità affettiva, fedeltà alle promesse, responsabilità), le loro doti spirituali (come l’amore di Dio e del prossimo, la fraternità e l’abnegazione) e le loro doti intellettuali (il retto e sano equilibrio di giudizio, la conoscenza della natura del sacerdozio e delle sue esigenze). Inoltre, proprio nell’ottica di ricercare continuamente autentiche vocazioni, la Ratio sottolineava l’importanza che il seminario non fosse separato dalla vita più ampia della diocesi
«perché non solo possa attirare la generosa cooperazione dei fedeli e del clero, ma anche come fulcro della pastorale vocazionale, possa esercitare un benefico influsso sulla gioventù, e contribuire al suo progresso spirituale» (n. 12).
Non meno importante nel documento risultava il rilievo fatto affinché i ragazzi mantenessero rapporti affettivi con le loro famiglie di origine e con i loro coetanei: relazioni importanti, appunto, per un sano sviluppo psicologico della vita affettiva che sarà considerata sempre più centrale per abbracciare serenamente il celibato cattolico imposto al rito latino94.
Il documento del 1985 ribadiva, inoltre, l’importanza, per quanto possibile, di fornirsi dei titoli civili di studio proprio nell’ottica di godere «della libertà e della possibilità di scegliere un altro stato di vita, qualora non vengano ritenuti chiamati al sacerdozio» (n. 16). Il non imporre però quell’obbligo, lasciandolo a discrezione delle conferenze episcopali, indica quanto la materia fosse considerata in alcune zone del mondo di difficile applicazione. Si pensi, ad esempio, ai paesi comunisti.
Il seminario maggiore, era invece finalizzato ad accogliere coloro che, avendo compiuto gli studi medi, desideravano una formazione strettamente sacerdotale. Includendo in questa anche la comunione gerarchica con il proprio vescovo che, definita nei decreti conciliari Presbyterorum ordinis e Lumen gentium, veniva suggerita già negli anni di seminario attraverso l’instaurazione di «stretti vincoli, basati sulla mutua carità, sul dialogo frequente e sulla cooperazione di ogni genere» (n. 22).
Si ribadì, inoltre, l’importanza che ogni seminario avesse un suo regolamento disciplinare approvato dal vescovo (o dalla commissione episcopale nel caso di seminari interdiocesani) nel quale fossero fissati i principali punti che riguardavano la vita quotidiana del seminarista e l’ordinamento dell’istituto. Non meno spazio fu poi riservato all’importanza di scegliere con la massima cura i superiori del seminario che in base al canone 259 sarebbero stati nominati dal vescovo e per i quali doveva essere previsto un continuo aggiornamento nelle scienze spirituali e pedagogiche. Altrettanto importante la scelta dei professori che per le discipline sacre dovevano essere dei sacerdoti: competenti, equamente pagati, dotati di capacità pedagogiche e, soprattutto, modelli imitabili di vita cristiana e sacerdotale.
La Ratio non escludeva, inoltre, esperienze di studio e di lavoro da compiersi fuori dal seminario come strumento ulteriore per il rafforzamento della vocazione. Quanto alla formazione, la Ratio ribadì la centralità e l’importanza del direttore spirituale95 che alla luce dei vari documenti conciliari96 e postconciliari97 aveva assunto grande centralità nello sviluppo delle finalità pastorali di tutta la formazione del seminarista. Ruolo importante era, in questo senso, riservato alla celebrazione quotidiana dell’Eucaristia da completarsi con la Comunione, e al sacramento della Penitenza. Non meno importante per la formazione spirituale del seminarista era la stessa vita comunitaria del seminario che doveva fungere da preparazione alla futura comunità del presbiterio diocesano. Per questo motivo si raccomandava nella Ratio una graduale introduzione nella realtà della diocesi «per conoscere i problemi e le necessità spirituali del clero e dei fedeli» (n. 47).
Quanto alla formazione intellettuale in genere, la Ratio stabilì una formazione letteraria, scientifica, filosofica e teologica. Si ribadì l’importanza di un curriculum culturale «nella misura richiesta in ciascuna nazione per l’ammissione agli studi accademici», possibilmente ottenendo anche titolo civile corrispondente (n. 65).
Quanto, invece, agli studi teologici della durata di un quadriennio, fu data ovvia centralità alle sacre Scritture come sancito già daLeone XIII98 e poi ribadito dallo stessoconcilio Vaticano II99 e anche dal Cic (Can. 252, § 2). Dalle sacre Scritture si sarebbero poi irradiate tutte le altre discipline: la sacra liturgia, la teologia dogmatica, la teologia morale, la teologia pastorale e la storia ecclesiastica, il tutto sotto la guida di s. Tommaso. Gli ultimi capitoli della Ratio furono riservati al metodo d’insegnamento: suggerendo di prevedere nel percorso formativo l’organizzazione di seminari, di esercitazioni, di lavori di gruppo, e l’utilizzo della biblioteca; quanto poi alla formazione più propriamente pastorale, si sottolineò l’importanza di coinvolgere i seminaristi nelle varie forme dell’apostolato moderno: come il fare catechismo, il prendere parte alle celebrazioni liturgiche o visitare gli ammalati.
1 Il paragrafo introduttivo è di Maurizio Sangalli; i paragrafi seguenti sono opera di Cristina Sagliocco.
2 S. Tramontin, Una fallita “inchiesta” sui seminari italiani per il primo congresso cattolico (1874), «Studia patavina», XVI, 1969, 2, pp. 291-304. L’esito insoddisfacente sarà all’origine della proposta da parte del relatore, don Alberto Cucito, di escludere la «faccenda dei seminari» dai punti all’ordine del giorno del congresso.
3 Cfr. C. Sagliocco, L’Italia in seminario 1861-1907, Roma 2008. Per la situazione dei seminari preunitari cfr. Chiesa chierici sacerdoti. Clero e seminari in Italia tra XVI e XX secolo, a cura di M. Sangalli, Roma 2000; N. Raponi, Legislazione, politica scolastica e scuola privata cattolica nell’Italia liberale. Il ruolo del Consiglio di Stato, in Cattolici, educazione e trasformazioni socio-culturali in Italia tra Otto e Novecento, a cura di L. Pazzaglia, Brescia 1999, pp. 341-374.
4 Cfr. P. Stella, Il clero e la sua cultura nell’Ottocento, in Storia dell’Italia religiosa, III, L’età contemporanea, a cura di G. De Rosa, Roma-Bari 1995, pp. 87-113.
5 C. Sagliocco, Il dibattito sulla soppressione delle facoltà teologiche universitarie in Italia (1859-1873) e i seminari vescovili, «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken», 87, 2007, pp. 292-311.
6 C. Fantappiè, La riforma dei seminari tra Stato e Chiesa, in Cattolici, educazione e trasformazioni socio-culturali in Italia tra Otto e Novecento, a cura di L. Pazzaglia, Brescia 1999, pp. 595-627.
7 V. Paglia, I programmi governativi nel ginnasio-liceo dell’Apollinare (1870-1904), «Rivista di storia della Chiesa in Italia», 35, 1981, pp. 40-73. L’anello di congiunzione tra il corso filosofico e quello teologico verrà stabilito a inizio Novecento da Pio X con l’istituzione di un anno propedeutico alla teologia. Sulla caratterizzazione ‘romana’ del sacerdote, al servizio della cui costruzione vengono poste le istituzioni educative ecclesiastiche della capitale, vedi G. Battelli, La tipologia del prete romano fra tradizione e ‘romanitas’ nell’Otto-Novecento, «Ricerche per la storia religiosa di Roma», 7, 1988, pp. 213-250.
8 Circa l’influsso del neotomismo sui vescovi italiani cfr. A. Monticone, L’episcopato italiano dall’Unità al concilio Vaticano II, in Clero e società nell’Italia contemporanea, a cura di M. Rosa, Roma-Bari 1992, pp. 257-330, 269-275.
9 A. Zambarbieri, Dibattiti sulla “cultura pastorale” nei seminari durante gli anni di Pio XII, in Cattolici e progetto educativo nell’Italia del secondo dopoguerra 1945-1958, Brescia 1988, pp. 157-209; S. Garofalo, Gli studi biblici in Italia da Leone XIII a Pio XII (1878-1958), in Problemi di storia della Chiesa dal Vaticano I al Vaticano II, Roma 1988, pp. 107-126.
10 Cfr. G. Vian, La riforma della Chiesa per la restaurazione cristiana della società. Le visite apostoliche delle diocesi e dei seminari d’Italia promosse durante il pontificato di Pio X (1903-1914), Roma 1998, in partic. pp. 111-236. Ma anche, per un inquadramento generale, G. Miccoli, Fra mito della cristianità e secolarizzazione. Studi sul rapporto chiesa-società nell’età contemporanea, Casale Monferrato 1985, pp. 21-111; D. Menozzi, La Chiesa cattolica e la secolarizzazione, Torino 1993, pp. 15-71.
11 M. Guasco, Storia del clero in Italia dall’Ottocento a oggi, Roma-Bari 1997, pp. 152, 154.
12 M. Guasco, Seminari e clero nel ’900, Cinisello Balsamo 1990, pp. 109-117.
13 G. Baldanza, Il seminario come istituzione al Concilio Vaticano II: analisi storico-critica, «Seminarium», 25, 1973, pp. 247-298; F. Marchisano, Il decreto conciliare «Optatam totius» e la Congregazione per l’educazione cattolica, «Seminarium», 36, 1984, pp. 439-467.
14 Cfr. C. Fantappiè, La professionalizzazione del sacerdozio cattolico nell’età moderna, in Formare alle professioni. Sacerdoti, principi, educatori, a cura di E. Becchi, M. Ferrari, Milano 2009, pp. 39-69.
15 F. Rypar, I seminari di oggi e la Sacra Congregazione per l’educazione cattolica, «Seminarium», 25, 1973, pp. 323-361; Id., Il cammino postconciliare dei seminari, ibidem, 29, 1977, pp. 309-437.
16 P. Dezza, Il seminario e la diminuzione delle vocazioni; Evoluzione del numero e della distribuzione territoriale dei seminaristi maggiori nel periodo 1970-1982, a cura dell’Ufficio centrale di statistica della Chiesa, «Seminarium», 25, 1973, pp. 489-500; E. Nenna, La dinamica delle vocazioni sacerdotali in Europa fino al 1983, «Seminarium», 36, 1984, pp. 269-298, 299-310.
17 P. Barbaini, Il prete come persona, «Il Mulino», 17, 1968, pp. 276-292.
18 Lettera apostolica, Cum Romani Pontifices, 28 giugno 1853, in EC, pp. 166-168 (Pii IX Acta, 1, pp. 473-475). Su Pio IX si può vedere G. Martina, Pio IX. 1851-1866, Roma 1986.
19 Cfr. D. Menozzi, I vescovi dalla rivoluzione all’Unità, in Clero e società nell’Italia contemporanea, a cura di M. Rosa, cit., pp. 125-179, in partic. pp. 129-133. Sul ruolo dei Te Deum cfr. P.G. Camaiani, Motivi e riflessi religiosi nella questione romana, in Chiesa e religiosità in Italia dopo l’Unità (1861-1878), Atti del quarto Convegno di storia della Chiesa, (La Mendola, 1971), IV, Comunicazioni, 2, Milano 1973, pp. 105-107.
20 Ministero della Pubblica Istruzione [Mpi], Statistica del Regno d’Italia. Istruzione primaria e secondaria classica data nei seminari, Firenze 1865, p. IX.
21 M. Meriggi, La borghesia italiana, in Borghesie europee dell’Ottocento, a cura di J. Kocka, Venezia 1989, pp. 161-185.
22 X. Toscani, Secolarizzazione e frontiere sacerdotali. Clero lombardo nell’Ottocento, Bologna 1982; Id., Il clero lombardo, cit.; Id., La politica scolastica nel Regno Lombardo-Veneto (scuole elementari), in Chiesa e prospettive educative in Italia tra Restaurazione e unificazione a cura di L. Pazzaglia, Brescia 1994, pp. 317-353.
23 Decreto De Reformatione, approvato dal Concilio il 15 luglio 1563, in EC, pp. 41 segg. Una parte del testo è rintracciabile in C. Sagliocco, L’Italia in seminario, cit. (Appendice, doc. 18, pp. 235-238).
24 Cfr. G. Verucci, L’Italia laica prima e dopo l’Unità. 1848-1876, Roma-Bari 1996², pp. 248-250; C.M. Fiorentino, Introduzione, a Id., Chiesa e Stato a Roma negli anni della destra storica, 1870-1876. Il trasferimento della capitale e la soppressione delle Corporazioni religiose, Roma 1996, p. 12; M. Belardinelli, L’exequatur ai vescovi italiani dalla legge delle guarentigie al 1878, in Chiesa e religiosità in Italia, cit., III, Comunicazioni, 1, pp. 5-42.
25 Mpi, Statistica del Regno d’Italia, cit.
26 La resistenza dei vescovi fu d’altronde motivata anche da una precisa dichiarazione della Sacra Penitenziaria apostolica del 18 novembre 1864 in cui l’episcopato era stato invitato a non tollerare l’ingerenza laica oltre la sfera amministrativa. In caso contrario gli Ordinari diocesani erano stati invitati a chiudere gli istituti, cfr. C. Sagliocco, L’Italia in seminario, cit., p. 59.
27 Mpi, Statistica del Regno d’Italia, cit.
28 Roma, Acs, Mpi, Divisione scuole medie (1860-1896).
29 Mpi, Statistica del Regno d’Italia, cit., p. XLVII.
30 C. Sagliocco, L’Italia in seminario, cit., pp. 111-153.
31 Ibidem, p. 115.
32 Legge 13 maggio 1871, n. 214.
33 C. Sagliocco, L’Italia in seminario, cit., pp. 156-163.
34 Mpi, Relazione a S.E. il Ministro per l’istruzione pubblica sui seminari del Regno, Roma 1879, p. 20.
35 M. Guasco, La formazione del clero, cit., pp. 629-715.
36 Enciclica Paternae providaequae ad episcopos Brasiliae, 18 settembre 1899, in EC, pp. 349-350 (Leonis XIII Acta, 19, p. 194 seg.); enciclica Fin dal principio, 8 dicembre 1902 in Sacra Congregazione dei seminari e delle università degli studi (Scsu), Ordinamento dei Seminari, Roma 1920; e in EC, pp. 383-394 (Leonis XIII Acta, 22, pp. 246-259).
37 Enciclica Pieni l’animo 28 luglio 1906 ad Episcopos Italiae, 28 luglio 1906, in EC, pp. 427-431 (Pii X Acta, 3, pp. 163-168, 172).
38 Enciclica Depuis le jour ad Episcopos et Clerum Galliae, 8 settembre 1899, in Scsu, Ordinamento dei Seminari, cit., pp. 15-16; cfr. EC, pp. 337-349 (Leonis XIII Acta, 19, pp. 160-174).
39 G. Verucci, L’eresia del Novecento. La Chiesa e la repressione del modernismo in Italia, Torino 2010.
40 Cfr. G. Miccoli, Fra mito della cristianità e secolarizzazione, cit.
41 B. Ferrari, La soppressione delle facoltà teologiche nelle università di Stato in Italia, Brescia 1968; F. Lazzeri, Le facoltà teologiche universitarie tra il Sillabo e l’abolizione, in Un secolo da Porta Pia, a cura di P. Piovani, Napoli 1970, pp. 249-287; L. Pazzaglia, La soppressione delle facoltà teologiche nelle università dello Stato, in Il Parlamento italiano. Storia parlamentare e politica dell’italia 1861-1988, III, 1870-1874, Il periodo della Destra da Lanza a Minghetti, Roma 1989, pp. 193-194; G. Tuninetti, La scuola teologica, in L’Università di Torino. Profilo storico ed istituzionale a cura di F. Traniello, Torino 1993, pp. 114-120; Id., Facoltà teologiche a Torino. Dalla Facoltà universitaria alla Facoltà dell’Italia settentrionale, Casale Monferrato 1999; C. Sagliocco, Il Seminario di Siena e la Facoltà teologica (1855-1934), in Il Seminario di Siena da arcivescovile a regionale 1614-1953 / 1953-2003, a cura di M. Sangalli, Soveria Mannelli 2003, pp. 147-194.
42 C. Sagliocco, Il dibattito sulla soppressione delle facoltà teologiche universitarie in Italia (1859-1873) e i seminari vescovili, cit., pp. 292-311; Id., Il Trasferimento delle facoltà teologiche all’interno dei seminari vescovili, «Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche», 15, 2008, pp. 203-211.
43 Cfr. Pio XI, Deus scientiarum Dominus, 24 maggio 1931, AAS, 23, 1931, pp. 241-262. A partire dalla fine degli anni Sessanta furono erette canonicamente dalla Congregazione le attuali facoltà teologiche (talvolta per trasferimento e accorpamenti di precedenti facoltà) alle quali, a partire dagli anni Settanta, alcuni seminari ottennero l’affiliazione con la possibilità, in molti casi, di rilasciare diplomi di baccalaureato.
44 G. Verucci, L’eresia del Novecento, cit.
45 Pascendi dominici gregis, 8 settembre 1907, in EC, pp. 437-41 (Pii X Acta, 4, pp. 102-106).
46 M. Guasco, Fermenti nei seminari del primo ’900, Bologna 1971; G. Verucci, L’eresia del Novecento, cit.
47 Cfr. M. Guasco, La formazione del clero, cit.; C. Sagliocco, L’Italia in seminario, cit.; C. Fantappiè, La riforma dei seminari tra Stato e Chiesa, 1859-1917, cit., pp. 595-627.
48 Roma, Archivio Congregazione per l’educazione cattolica, L’ordinamento dei seminari secondo le prescrizioni del codice di diritto canonico, 3 febbraio 1920, in SCSU Plenaria, 3, 1920-1921, p. 2.
49 G. Vian, La riforma della Chiesa, cit.
50 Sacra Congregazione concistoriale, Le visite apostoliche, lettera circolare ad Ordinarios Italiae, 16 luglio 1912, in EC, pp. 474-483 (AAS, 4, 1912, pp. 491-498).
51 ACEC, P. Giuseppe Lemius (consultore), in Scsus, Plenaria 22 febbraio 1916, 1, 1916-1917, pp. 1-69, in partic. p. 2.
52 Ibidem, p. 3.
53 Scsu, Ordinamento dei Seminari del 26 aprile 1920, in Id., La Nuova Scuola Media e i Seminari, Roma 1963.
54 «Non si perda di vista che essi [i seminari] sono esclusivamente destinati a preparare i giovani non ad offici umani, per quanto legittimi ed onorevoli, ma all’alta missione di Ministri di Cristo e dispensatori dei Misteri di Dio», enciclica Fin dal principio, cit.
55 «I Seminari siano gelosamente mantenuti nello spirito proprio, e rimangano esclusivamente destinati a preparare i giovani, non a civili carriere, ma all’alta missione di Ministri di Cristo» enciclica Pieni L’Animo, cit.
56 Così decreto De Reformatione, cit.; Pio IX, enciclica Qui pluribuso, 9 novembre, 1846, in EC, pp. 155-157 (Pii IX Acta, 1, pp. 16 segg., 19-21); enciclica Inter multiplices, 21 marzo 1853, in EC, pp. 165-166 (Pii IX Acta, 1, pp. 43 segg.); Leone XIII (Lettera ai vescovi del Brasile, 2 luglio 1894, in EC, pp. 310-312 (Leonis XIII Acta, 14, pp. 231-234); Pio X, enciclica E Supremi apostolatus, 4 ottobre 1903, in EC, pp. 397-398 (Pii X Acta, 1, pp. 8-10).
57 S. congregazione concistoriale, Le visite apostoliche, lettera circolare ad Ordinarios Italiae, 16 luglio 1912, cit.
58 Scsu, Ordinamento dei Seminari del 26 aprile 1920, cit., p. 24.
59 Ibidem.
60 Ibidem.
61 Ibidem, p. 26.
62 Ibidem.
63 Ibidem, pp. 28-30.
64 Legge 1° luglio 1940, n. 899. Cfr. R. Sani, L’educazione dell’infanzia dall’età giolittiana alla carta Bottai, in Scuola e società nell’Italia unita. Dalla legge Casati al Centro-Sinistra, a cura di L. Pazzaglia, R. Sani, Brescia 2001, pp. 239-256; J. Charnitzky, Fascismo e scuola. La politica scolastica del regime (1922-1943), Scandicci 2010.
65 Scsu, Circolare 16 maggio 1940 (n. 1326/39/6), Agli Ecc.mi Ordinari d’Italia per l’applicazione della Legge 10 luglio 1940, n. 899, nelle scuole medie dei Seminari Minori, in Id., La Nuova Scuola Media e i Seminari, cit., pp. 37-41.
66 In verità, nelle Norme si consigliava già di partire dall’anno in corso con alcune trasformazioni dei programmi, per poi poter svolgere appieno successivamente tutte le materie di studio. Cfr. Scsu, Alcune norme circa l’ordinamento degli studi medi nei seminari, in Id., La Nuova Scuola Media e i Seminari, cit., p. 39, n. 1.
67 Ibidem, p. 40.
68 Scsu, Obbligo della Licenza Media e dell’ammissione alla Scuola Media, Circolare 11 febbraio 1941 n. 1326/39/2 agli Ecc.mi Ordinari d’Italia, in Ibidem, pp. 38-40.
69 Ibidem, p. 38.
70 Pio XII, Esort. Apost. Menti Nostrae, 23 sett. 1950, in AAS, 1950, 42.
71 Scsu, Circolare 11 febbraio 1953, n. 1519/50, con allegato agli Ecc.mi Ordinari d’Italia, in Id., La Nuova Scuola Media e i Seminari, cit., pp. 40-41.
72 Pio XII, Motu proprio, Cum nobis, per la costituzione della Pontificia Opera delle vocazioni sacerdotali, presso la S. Congregazione dei Seminari e delle Università degli studi, 4 novembre 1941, AAS, 33, 1941, p. 479, con gli annessi Statuti e Norme, promulgati dalla medesima SC l’8 sett. 1943; Motu proprio, Cum supremae, per la Pontificia Opera delle vocazioni religiose, 11 febbraio 1955, AAS, 47, 1955, p. 266, con gli annessi Statuti e Norme, promulgati dalla SC dei Religiosi (ibidem, pp. 298-301).
73 Cfr. «L’Osservatore romano», 24 aprile 2010.
74 Congregazione educazione cattolica, «Orientamenti per l’utilizzo delle competenze psicologiche nell’ammissione e nella formazione dei candidati al sacerdozio» (28 giugno 2008), in http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/ccatheduc/index_it.htm (29 giugno 2010).
75 Scsu, Disposizioni della SC dei seminari e delle Università degli studi sull’insegnamento della musica, Circolare 15 agosto 1949, in Id., La Nuova Scuola Media e i Seminari, cit., pp. 42-49.
76 Cfr. Pius XII, enciclica Musicae sacrae disciplina, 25 dec. 1955, AAS, 48, 1956, pp. 5-25.
77 Giovanni XXIII, Veterum Sapientia in AAS, 44, 1962, pp. 129-133; Scsu, La Nuova Scuola Media e i Seminari, cit., pp. 50-52; F. Waquet, Le Latin ou l’empire d’un signe. XVIe-XXe siècle, Paris 1998 (trad. it. Latino. L’impero d’un segno. XVI-XX secolo, Milano 2004, pp. 64-116).
78 A. Stickler, A 25 anni dalla Costituzione Apostolica Veterum Sapientia, «Salesianum», 2, 1988, pp. 367-377.
79 Ibidem, p. 370.
80 Ordinationes ad Constitutionem Aapostolicam rite exequendam, in Scsu, La Nuova Scuola Media e i Seminari, cit., pp. 52-63 (AAS, 1962, pp. 362 segg.).
81 Ibidem.
82 A. Gaudio, Chiesa e fascismo, La scuola cattolica in Italia durante il fascismo (1922-1943), Brescia 1995, p. 143.
83 Sull’importanza del modello Borromaico nell’impostazione dei seminari da Trento ai giorni nostri, cfr. M. Guasco, La formazione del clero, cit.
84 Il testo del discorso pontificio è in «L’Osservatore romano», 6 novembre 1963.
85 La traduzione è rintracciabile anche in La nuova scuola media e i seminari, cit., pp. 482-496, in partic. p. 484.
86 Ibidem, p. 487.
87 Decr. Optatam totius in Documenti. Il Concilio Vaticano II, 1966, pp. 417-451.
88 Cfr. M. Guasco, Storia del clero, cit., pp. 253-261.
89 Cfr. F. Rypar, Il cammino postconciliare dei seminari, cit.
90 J.W. O’Malley, What happened at Vatican II, Harvard 2008 (trad. it. Che cosa è successo nel Vaticano II, Milano 2010, p. 279).
91 Cfr. F. Marchisano, Il decreto conciliare «Optatam totius», cit.
92 S. Congregazione per l’educazione cattolica, Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis. Norme fondamentali per la formazione sacerdotale, Roma 1970.
93 Il testo integrale della Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis è rintracciabile in http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/ccatheduc/documents/rc_con_ccatheduc_doc_19850319_ratio-fundamentalis_it.html (29 giugno 2010).
94 Decr. Optatam totius, cit., n. 10; Decr. Presbyterorum Ordinis, in Documenti. Il Concilio Vaticano II, cit, pp. 705-775, n. 16; Paolo VI, enciclica Sacerdotalis caelibatus, 24 giugno 1967, AAS, 59, 1967, pp. 657- 697; Giovanni Paolo II, enciclica Redemptor hominis, 4 marzo 1979, AAS, 71, 1979, pp. 319-320, n. 21; Lett. Novo incipiente Nostro, a tutti i sacerdoti della Chiesa, in occasione del giovedì santo, 8 aprile 1979, AAS, 71, 1979, pp. 405-409, nn. 8-9; Sinodo dei vescovi, Doc. Ultimis temporibus, sul sacerdozio ministeriale, 30 novembre 1971, AAS, 63, 1971, pp. 915 segg.
95 Cic, cann. 239, § 2 e 246, § 4.
96 Decr. Optatam totius, cit., n. 8.
97 Giovanni XXIII, Lett. Apost. Pater misericordiarum, 22 agosto 1961, AAS, 53, 1961, p. 677; Alloc. Questo incontro, ai direttori spirituali riuniti in Roma, 9 sett. 1962, AAS, 54, 1962, pp. 673-674.
98 Leone XIII, enciclica Providentissimus Deus, 18 nov. 1893, AAS, 26, 1893-1894, p. 283.
99 Decr. Optatam totius, cit., n. 16; Cost. dogm. Dei verbum, n. 24.