I proprietari fondiari in terra ferma
Nel 1516, su commissione dei camerlenghi di comun, alla cui sede l'opera era originariamente destinata, Vittore Carpaccio dipingeva un quadro raffigurante il leone di S. Marco. L'animale, simbolo del santo e della Repubblica Veneta, era riprodotto in posizione "andante", vale a dire di profilo e a figura intera, con l'arto anteriore destro sollevato a sorreggere dall'alto il libro, aperto sulla scritta "Pax tibi Marce evangelista meus", l'altra zampa davanti poggiava invece sulla terra e le posteriori erano posate sull'acqua. Il significato del dipinto - il cui soggetto avrebbe avuto un'enorme fortuna e sarebbe stato ripreso in seguito innumerevoli volte - è inequivocabile: il leone che volge le spalle al mare sottolinea l'affermarsi in quel momento della politica di terraferma, ripresa con vigore e perseguita con successo soltanto pochi anni dopo l'infausta giornata di Agnadello che aveva messo in forse la sopravvivenza stessa della Serenissima. Il motivo, per quanto insolito a quell'epoca, non costituiva però una novità in assoluto: già un secolo prima, infatti, nel 1415, un altro artista, Jacobello del Fiore, aveva dipinto un leone "andante", attualmente conservato a palazzo Ducale al pari del quadro del Carpaccio, con le zampe anteriori poggianti sulla terra da cui s'innalza una montagna e le posteriori sull'acqua, a rappresentare visivamente la potenza di Venezia per terra e per mare. I due pittori e i loro committenti, così facendo, si dimostravano consapevoli della duplice vocazione, marittima e terrestre, della Repubblica.
A chi indirizzi oggi la mente e rivolga le proprie energie all'analisi complessiva del Medioevo veneziano, non riesce agevole sottrarsi alla tentazione di porre l'accento in particolare sugli elementi di originalità che le vicende economiche e politico-istituzionali della Venezia di quei secoli indubbiamente presentano. È questo il difetto di molta storiografia, presso la quale il "mito" della città adriatica sembra serbare intatto e almeno in apparenza indistruttibile il suo fascino. Un fascino negativo, tuttavia, poiché la sua influenza ha spesso indotto ad esaltare o - più raramente - a sminuire la storia della città, idealizzata come un'entità superiore, un unicum si potrebbe affermare, che, a prescindere dalle sue effettive peculiarità, non troverebbe termini di paragone possibili, trascurando di conseguenza o quanto meno sottovalutando ciò che invece l'accomuna alla realtà coeva e circostante, come se il breve tratto d'acqua che separa il centro formatosi nei pressi di Rialto dai margini interni della laguna rappresentasse, a differenza del passato, un limite rigorosamente invalicabile, oltre il quale non fosse lecito posare lo sguardo. Ai giorni nostri appare però improponibile insistere sulla prospettiva di una Venezia completamente isolata da quanto la circonda, un "altro mondo" essa stessa, per usare una definizione cara al Petrarca (1). Sul piano storiografico s'impone invece una ridiscussione sul tema di un presunto assoluto predominio del carattere marittimo nella potenzialità storica della città, ricorrendo per questo anche ad una nuova lettura dei rapporti da essa intrattenuti con il suo retroterra durante l'età di mezzo (2).
È opinione largamente diffusa e confortata dall'impegno di più generazioni di studiosi che la spinta decisiva agli importanti acquisti fondiari, a netta maggioranza patrizia, nello stato da terra sia stata determinata in buona misura dalla stasi e dalla successiva crisi dei traffici marittimi, sincronizzate a loro volta con il progressivo venir meno del ruolo di potenza internazionale mantenuto tanto a lungo dalla Repubblica (3). Secondo questo convincimento, l'interesse dei Veneziani per gli investimenti terrieri sarebbe quindi un fenomeno riconducibile cronologicamente soltanto all'età moderna, senza incidenze apprezzabili nelle scelte, sofferte e non del tutto incontrastate, che avrebbero condotto alla formazione del dominio terrestre, esteso dall'Isonzo all'Adda, nel corso del primo Quattrocento (4). Questo postulato, malgrado sia sorretto da molteplici argomentazioni, trascura tuttavia il particolare che la tendenza da parte di famiglie cittadine, di origine mercantile o meno, ad impegnare le loro sostanze nelle campagne è presente nel basso Medioevo un po' in tutti i luoghi (5). Così è stato anche per Venezia, dove, con qualche anticipazione prima del Mille, già nei secoli XII-XIII un'intensa e spesso fortunata attività commerciale si è trovata a coesistere con una decisa espansione fondiaria al di fuori dei confini del Dogado.
Nonostante il suo rilievo, a causa delle comprensibili difficoltà legate ad un'indagine su questo tema, lo stato della questione è ancora lontano dal potersi considerare appena soddisfacente. Mentre, infatti, se si esclude qualche ricerca particolare, per le vicende generali della proprietà fondiaria dei cittadini di Venezia in epoca moderna esiste un punto di riferimento preciso, sebbene solo parzialmente attendibile, nel lavoro ad esse rivolto alcuni decenni or sono da Daniele Beltrami (6), ed è ormai sufficientemente chiarito il significativo ruolo esercitato dal capitale veneziano nelle vendite all'incanto dei beni già appartenuti alle deposte signorie scaligera e carrarese (7), a distanza di tre quarti di secolo dalla pubblicazione di un saggio con il quale Vittorio Lazzarini richiamava per primo l'attenzione sui proprietari di terraferma (8), eccettuato un ulteriore contributo dedicato dal medesimo studioso ad una zona peraltro di non primaria importanza come quella ferrarese (9), il problema rimane del tutto aperto.
Eppure, lo studio dell'espansione della proprietà fondiaria veneziana in terraferma, soprattutto nel territorio della Marca Veronese (in seguito Marca Trevigiana) maggiormente vicino alla laguna, ma anche nel non lontano distretto di Ferrara, rappresenta un tema che si colloca al di là dei confini della semplice storia agraria locale e non interessa soltanto la sfera puramente economica. Esso rientra invece a pieno titolo nel quadro delle considerazioni circa i motivi di fondo dell'atteggiamento di Venezia verso l'acquisizione (e per lungo tempo la mancata acquisizione) di un dominio di terra, accanto - ma non necessariamente in alternativa - a quello da mar; fa parte integrante del dibattito sullo sviluppo di schieramenti contrapposti all'interno del suo ceto dirigente e sui contrasti fra la politica "ufficiale" e quella "reale" seguita da queste fazioni che di volta in volta diventavano maggioritarie; costituisce un elemento non trascurabile - in taluni momenti addirittura decisivo -delle relazioni con i comuni e le signorie confinanti; è una componente di primo piano delle discussioni sulle origini del capitale agrario e di quello commerciale e sulle interdipendenze fra questi due tipi di capitale.
Anteriormente alla quarta Crociata risulta in effetti alquanto raro che le famiglie veneziane investissero capitali di una certa consistenza nell'acquisizione di proprietà in terraferma (10). Le maggiori casate avevano però a loro disposizione altri sistemi per incrementare la loro disponibilità fondiaria. Lo sfruttamento dei benefici ecclesiastici e un'intelligente politica matrimoniale che permettesse di stringere legami con famiglie di origine feudale o signorile dell'entroterra erano i sistemi più rapidi per conseguire le desiderate proprietà.
Non sorprende allora di trovare, già nei primi decenni del XII secolo, patrimoni privati comprendenti terre, mansi, livelli e feudi all'esterno della laguna. È il caso del giudice Andrea Michiel, imparentato con il doge Domenico Michiel, che nell'aprile del 1119, in procinto di partire per un'importante missione diplomatica presso il re d'Ungheria, faceva scrivere le sue ultime volontà (11).
Nel documento, mentre erano taciute sia la consistenza mobiliare che la disponibilità immobiliare nell'ambito della città e del Dogado, risaltavano invece due componenti importanti del patrimonio: l'attività creditizia e le possessioni che, a vario titolo, il testatore deteneva in terraferma.
Il Michiel vantava infatti una serie di cinque crediti, alcuni dei quali di natura certamente commerciale, per somme prestate specialmente nell'ambito della sfera familiare e un altro paio di carte analoghe per cifre non espressamente precisate. Da due suoi debitori, rimasti insolventi, aveva poi ottenuto la proprietà di terre offertegli in garanzia.
Oltre a ciò Andrea Michiel disponeva di un feudo di imprecisata ubicazione e origine situato fuori Venezia; di un secondo feudo, sito in Altino, di cui era stato investito dal trevigiano Almerico da Carbonara, membro di una famiglia che a quell'epoca rivestiva l'ufficio di avvocazia per l'episcopio e il capitolo dei canonici di Treviso (12); di un livello costituito da terre e prati, che un documento posteriore indica situato ad Arzere "infra Fogolanas" nei pressi di Chioggia (13), ottenuto dal potente monastero della SS. Trinità e S. Michele Arcangelo di Brondolo; infine di un terzo feudo, concessogli dallo stesso ente ecclesiastico in località Torre nel comitato di Treviso. Appare evidente l'importanza avuta nella costituzione del patrimonio del Michiel dai rapporti con il monastero brondolese, mantenuti pure in seguito dagli eredi che ancora nel 1150 detenevano inoltre un feudo a Tessera concesso loro dal vescovato torcellano (14).
Diverso il caso dei Contarini appartenenti al ramo che risiedeva nella parrocchia di S. Silvestro. Prima del 1122 un Pietro Contarini sposava Adalasia figlia di Gumberto da Sossano (15), esponente di rilievo di una famiglia signorile attiva a Vicenza e Padova tra 1'XI e il XII secolo (16). Nel maggio di quell'anno, un figlio di Gumberto, all'epoca ormai defunto, omonimo del precedente ma noto anche con il soprannome di "Boccasquarciata", vendeva al cognato venti campi di terra aratoria a Roncaiette nel Padovano per centocinquanta lire veronesi (17). Diciassette anni dopo, la proprietà dei Contarini in quella zona si ampliava con la cessione da parte di Gumberto da Sossano e dei figli a Pietro Contarini di tre mansi, a titolo di donazione (18).
I rapporti fra i Contarini e i da Sossano non si esaurirono però sul piano strettamente privato, ma si ampliarono fino a coinvolgere uno dei maggiori monasteri lagunari: S. Nicolò di Lido, fatto edificare nel secolo precedente dal doge Domenico Contarini (19), di cui era divenuto abate in quegli anni un altro esponente della famiglia, anch'egli di nome Domenico. Così, nel febbraio del 1149, alcuni eredi di Gumberto Boccasquarciata, il figlio Guizzardo e i nipoti Olderico e Vitale, erano a Venezia dove, alla presenza di vari esponenti dei diversi rami dei Contarini, vendevano per duecentosessanta lire veronesi all'abate Domenico otto mansi nella Saccisica, di cui sei a Piove e due a Codevigo, estesi per oltre un centinaio di campi (20).
Beni originati pare interamente da relazioni di parentela erano invece detenuti dai Gradenigo e dai rami ducali dei Polani e dei Michiel. Per i Gradenigo si conosce un Ottone che anteriormente al 1149 lasciava per testamento al monastero di S. Cipriano di Murano tre mansi nel territorio di Treviso a lui pervenuti "ex parte Armelende matris sue" (21). Dei Polani si ricorda invece Naimerio, figlio del doge Pietro e conte di Pola, proprietario nel 1157 di sei mansi a Castel di Brenta nel Padovano, che gli derivavano "ex parte matris mee per successionem" (22). I Michiel si imparentarono invece con la famiglia capitaneale veronese dei da Lendinara (23), avendo sposato nel 1172 Leonardo, conte di Ossero e figlio del doge Vitale II, Adelasina del fu Isnardino da Lendinara, ricevendone beni a Zevio lungo l'Adige (24).
Oltre agli istituti religiosi cittadini alcuni privati strinsero legami di vassallaggio con le autorità e gli enti ecclesiastici di terraferma. L'esempio più antico è rappresentato da Pietro Zopolo che nel 1128 deteneva in feudo dall'episcopio di Padova terre, diritti e immobili nella Saccisica (25). Sei anni dopo era invece Landolfo, vescovo di Ferrara, ad investire Domenico Mauro di un feudo ad usum regni, con l'obbligo del giuramento di fedeltà alla Chiesa ferrarese, a Tresigallo, lungo il ramo meridionale del Po che collegava la città emiliana al mare (26); il primo di una lunga serie di feudi che il vescovato locale concesse a numerose famiglie veneziane, a cominciare, nella seconda metà dello stesso secolo XII, dai Falier per beni nella citata località (27) e dai Corner per interessi simili sempre a Tresigallo e a Formignana (28).
In un modo o nell'altro, verso la fine del XII secolo alle proprietà in terraferma non accedevano però soltanto le famiglie di antica origine o quelle che vantavano una maggiore anzianità di potere. Così, se non meraviglia notare un figlio del doge Orio Mastropietro, Marino, acquistare nel 1197 per duecentonovantacinque lire un manso a Povegliano nel Trevigiano (29), non stupisce neppure trovare fra i proprietari veneziani nomi come quello degli Staniaro che, da un'origine addirittura servile, erano riusciti grazie all'esercizio dei traffici ad elevarsi economicamente se non ancora socialmente (30), nonché quelli dei Querini e dei Barozzi che attraverso la stessa pratica economica erano diventati tra i cittadini più facoltosi.
I primi, anteriormente al 1180 (31), possedevano un allodio situato a Villaestense nel Padovano, di cui non è nota l'origine ma che nel luglio del 1188 Pancrazio Staniaro e suo figlio Zaccaria concedevano a livello perpetuo a due abitanti della zona, a condizioni piuttosto gravose. Era infatti fissato l'obbligo di apportare migliorie al fondo, in modo tale che "usque ad decem annos debent iamdictum braidum bene lodamare et de fossatis claudere et supra ripam fossati vineam piantare". Per il canone era stabilita una corresponsione parziaria in generi, pari alla metà del frumento, delle restanti granaglie e del lino, oltre ad un terzo del vino e di ogni prodotto rimanente, da trasportarsi nella casa che gli Staniaro possedevano in quella località (32).
I Querini e i loro congiunti Barozzi furono invece impegnati in una politica di acquisizioni onerose a Vallonga nei pressi di Piove di Sacco, acquistando da proprietari locali, in tre momenti diversi fra il 1194 e il 1199, vari appezzamenti di terra utilizzata parte a coltivi e parte a fabbricati, per un investimento complessivo di cinquecentocinquanta lire (33). Tutti beni di cui furono poi investiti a livello perpetuo i precedenti proprietari, in cambio di un canone fisso in frumento, da portare fino "ad ripam codole vel pontis Sancte Margarite" (34).
Se le proprietà dei privati sono poco attestate per l'epoca in esame, assai più numerose risultano invece le testimonianze relative all'espansione patrimoniale degli istituti religiosi. S. Cipriano di Murano, S. Daniele, S. Giorgio Maggiore, S. Giovanni Evangelista di Torcello, S. Lorenzo, S. Maria della Carità, S. Nicolò di Lido, S. Zaccaria, SS. Felice e Fortunato di Ammiana, SS. Ilario e Benedetto, SS. Secondo ed Erasmo, SS. Trinità e S. Michele Arcangelo di Brondolo, solo per citare i casi maggiormente documentati, si dotarono infatti già nell'XI e nella prima metà del XII secolo di disponibilità fondiarie di estensione non indifferente, situate in territori anche distanti fra loro (35). Le fonti che le descrivono confermano come da donatori non veneziani e da una oculata politica d'investimenti provenissero i possessi monastici in terraferma.
Lentamente però il numero dei proprietari terrieri si accrebbe, anche se il loro patrimonio non era paragonabile come consistenza a quello dei maggiori monasteri. L'aspirazione al possesso fondiario, sia pure in pieno fiorire di attività mercantili, era però profondamente radicata. Le grandi famiglie - quelle stesse che dal mare avevano conseguito e continuavano a trarre le loro fortune - destinavano una parte dei loro redditi all'acquisizione di case, fondi e saline in città e nell'ambito lagunare, terre e mansi, feudi e livelli nei territori d'oltreconfine.
L'allargamento della propria consistenza patrimoniale e non l'accumulo indefinito di denaro e di ricchezze rimaneva l'esito ultimo dei traffici, ma per coloro che erano interessati a soddisfare i loro desideri in tal senso la limitata superficie territoriale del Dogado risultava insufficiente. Vi era stato in precedenza ed era ancora in atto nella seconda metà del XII secolo un processo di ridistribuzione della proprietà (36), ma questo fenomeno aveva semmai ancor più compresso i margini di movimento all'interno della laguna, rivelandosi una chiara tendenza alla concentrazione delle aree migliori nelle mani di una cerchia relativamente ristretta di privati di vecchia o recente fortuna, come nel caso, conosciutissimo, degli Ziani (37), e in quelle dei numerosi enti ecclesiastici di cui era così ricco allora il patriarcato gradense.
In difetto di spazi cittadini e di fronte ad una legislazione ispirata ad un criterio immobilista della proprietà che, fissando norme fortemente limitative, rendeva quasi impossibile l'alienazione dei beni ecclesiastici anche al di là dei divieti canonici, e al tempo stesso privilegiava i parenti e i vicini del venditore di un immobile nei confronti degli acquirenti estranei (38), all'inizio del Duecento coloro che disponevano di capitali liquidi ma erano privi o scarsamente dotati di ricchezze immobiliari, a cominciare dalle famiglie popolari in ascesa, non avevano altra alternativa che destinare i loro redditi mercantili agli investimenti da effettuarsi al di fuori dei confini.
Certo, per buona parte del XII secolo, quando si può dire che solo gli istituti religiosi e un numero ridotto di famiglie, con prevalenza di quelle che costituivano allora il ristretto gruppo di potere, conoscessero la via dell'insediamento in terraferma, le proprietà terriere colà site non avevano modificato in modo decisivo la posizione reciproca di Venezia e dei comuni in cui si andavano moltiplicando gli acquisti fondiari dei suoi cittadini, sebbene non fossero mancate occasioni di deciso intervento, anche armato, a favore di alcuni enti ecclesiastici minacciati nei loro interessi, come si verificò nel 1142, contro i Padovani, a difesa del monastero dei SS. Ilario e Benedetto (39), e nel 1214, ancora contro il comune di Padova, alleato in quella circostanza con i Trevigiani, a tutela dello stesso monastero e di quello di S. Cipriano di Murano (40).
Ma ora che, dopo la quarta Crociata, una percentuale sempre più consistente di persone era in grado di disporre di apprezzabili risorse mobiliari e contemporaneamente si affermava in modo crescente sul piano sociale (41), senza tuttavia trovare poi sbocchi adeguati per i propri capitali perché i redditi dei traffici superavano di molto le possibilità d'investimento in terre e case, e le stesse grandi famiglie soffrivano anch'esse dell'eccedenza di mezzi rispetto alle possibilità d'impiego, mentre si assisteva ad un incremento dei prezzi sul mercato ed erano in aumento i profitti ricavabili dall'immobilizzo edilizio come pure il valore dei prodotti alimentari, si fece strada un interesse crescente verso le nuove occasioni d'investimento e di guadagno offerte dall'inserimento nella vita economica dell'entroterra.
I primi a muoversi - si è detto - erano stati i componenti delle famiglie ducali o di quelle che erano ad esse collegate, i quali, in prima persona o attraverso lo schermo dei benefici ecclesiastici da essi controllati, avevano scelto di correre l'avventura dell'insediamento in terraferma, ma costoro erano stati raggiunti e poi superati dai nuovi ricchi protesi con successo lungo la strada che essi avevano inaugurato. Era appunto grazie ad individui come questi che filtrava nelle campagne lo spirito di iniziativa che in quegli anni pervadeva la città e che differenziava il più lento evolversi dell'economia dei proprietari locali dal dinamismo dei Veneziani. Questi ultimi infatti non solo comperavano di solito le terre migliori ma rivolgevano in genere le loro preferenze all'acquisto di unità poderali complete, di mansi autosufficienti, in grado di produrre in tempi brevi. Costituivano aziende agrarie più compatte, scarsamente frazionate, favorite sotto questo aspetto dalla frequenza di permute e di compere minori con le quali i proprietari perfezionavano le confinazioni dei loro fondi; come fece, ad esempio, il ramo dei Dolfin che risiedeva nella parrocchia di S. Canciano, proprietario fin dai primi anni del XIII secolo di una grossa azienda a Gorgo nella Bassa Padovana (42). Non mancavano inoltre gli investimenti effettuati allo scopo di aumentare la produttività mediante opere di miglioria, di bonifica, di sistemazione fluviale e di disboscamento, attività nelle quali si segnalò in particolare la famiglia Querini che ancor prima del 1250 deteneva consistenti proprietà e feudi a Papozze, nei pressi della sponda sinistra del ramo principale del Po, nel basso Polesine soggetto al dominio degli Estensi (43).
Si trattava di un atteggiamento inconsueto, insolito per l'ambiente veneziano, ma che si fosse affermato su vasta scala e con rapidità lo dimostra, ad esempio, il fatto che in quegli anni si diffuse l'abitudine di fissare quale destinazione dei lasciti più consistenti a favore degli istituti religiosi non più o non solo come per il passato il restauro degli edifici sacri o il mantenimento dei religiosi bensì l'acquisto di un manso o di una terra, ritenendo evidentemente opportuno i testatori che il patrimonio - in questo caso di un ente ecclesiastico ma la medesima considerazione può essere fatta anche per quello dei privati - comprendesse terre e mansi, considerati garanzia di stabilità del patrimonio stesso. È il caso del doge Pietro Ziani, nel cui testamento, redatto nel 1228, erano fissati quattro lasciti in denaro a favore di altrettanti monasteri affinché investissero la somma loro concessa nell'acquisto di un manso, mentre in un quinto caso si stabiliva che il denaro dovesse essere impiegato per comperare alcune terre (44).
Agli inizi del Duecento si accentuò in tal modo fortemente la penetrazione patrimoniale veneziana in terraferma, tranne che a meridione del Po dove rimase ristretta ad un'area contenuta a est di Ferrara, e, ben presto, le proprietà dalle zone confinarie tesero ad avanzare verso il centro dei territori padovano e trevigiano, fino a raggiungere e superare gli stessi capoluoghi. Si venne così a creare un vivo intreccio di interessi e di rapporti giuridici fra i privati, che traeva la sua ragion d'essere dalla piccola e media proprietà che costituiva allora l'autentico tessuto connettivo della presenza veneziana. Non mancava però già allora qualche azienda di grossa estensione, come quella appartenente dapprima ai Fermo, imparentati con il celebre mercante Romano Mairano (45), e poi passata ai Dolfin, che nel 1203 si estendeva a Gorgo, nei pressi di Pernumia, probabilmente su una superficie di oltre trecento campi (46), e quella che Profeta da Molin, personaggio di rilievo nella società veneziana della fine del secolo XII e dei primi del XIII, acquistò nel 1205 da Iacopo da Sant'Andrea, lo scialacquatore ricordato da Dante, per la grossa somma di quasi quattromila lire a Favariego, presso Borgoricco, a nord-est di Padova, formata da un'intera corte, comprendente, oltre a beni minori e ai relativi diritti, tredici mansi, decine di campi a prato e a bosco e tre mulini lungo il corso del fiume Musone (47).
Non è certo possibile quantificare le dimensioni del fenomeno e proporre ipotesi al riguardo sarebbe azzardato. Oltre alle indicazioni fornite dai documenti privati esiste tuttavia un altro elemento che costituisce una significativa prova del suo aumentato rilievo: l'introduzione, che si verificò proprio nei primi decenni del secolo - i primi esempi riguardano il comune di Padova nel 1227 e quello di Ferrara nel 1230 -, nei patti che regolavano le questioni di reciproco interesse fra Venezia e le città dell'immediato entroterra di clausole, assenti negli accordi del passato, che prevedevano il riconoscimento ai Veneziani del diritto di trasportare liberamente in patria le rendite, in gran parte in natura, riscosse nelle loro proprietà situate nei territori dei comuni con i quali erano stipulate queste intese (48). Se non si fosse verificato un incremento delle proprietà in quelle zone una disposizione di questo genere non avrebbe avuto motivo d'essere.
Anche in seguito, lungo tutto il corso del XIII secolo, in particolare dopo il crollo del regime di Ezzelino da Romano, è accertabile un ulteriore consistente impiego di capitali di origine almeno in parte mercantile nell'investimento fondiario, mentre si accrebbe il numero dei proprietari. Al tempo stesso, le più estese proprietà rurali, come alcune delle maggiori ricchezze mobiliari, non erano più solamente nelle mani delle grandi famiglie, ma anche in quelle degli uomini i cui padri avevano gettato le basi delle loro fortune con i traffici e con il commercio del denaro.
Come spiegare questa tendenza dei Veneziani all'acquisto di terre quando il commercio assicurava più concrete opportunità di rapidi e talvolta cospicui guadagni? Alla base di questo atteggiamento economico vi erano varie motivazioni, tra le quali tenderei però a porre in secondo piano il senso di affermazione sociale che la residenza in campagna assicurava ai nuovi acquirenti. Sembrano invece decisivi altri motivi, quali il fatto che, a parte il reimpiego nei traffici, non si riesce a vedere dove i Veneziani avrebbero potuto investire i loro guadagni se non in immobili; il desiderio di assicurarsi proprie derrate alimentari, motivazione assai sensibile per gli abitanti di una città dipendente dall'esterno per la quasi totalità dei suoi consumi; infine, il profitto ricavabile dagli impieghi fondiari che, seppure difficilmente valutabile e certo inferiore a quello che si sarebbe potuto realizzare con fortunate operazioni mercantili, era tuttavia sufficientemente redditizio, se poté, in certi casi, raggiungere il dieci per cento del valore dei fondi (49).
Esempio particolarmente significativo di questo orientamento appare il caso di una famiglia di antica origine: i Badoer del ramo che risiedeva nella parrocchia di S. Giacomo di Luprio e poi si trasferì almeno in parte in quella di S. Giustina (50). Attorno alla metà del Duecento i Badoer erano una delle famiglie più ricche e influenti di Venezia, imparentati con i rami ducali dei Dandolo e dei Michiel, i Gradenigo, nonché con gli Ziani, di cui ereditarono gran parte del ricchissimo patrimonio dopo l'estinzione di questi ultimi. Fuori Venezia alcuni loro componenti erano inoltre legati da rapporti di parentela con i Veronesi da Lendinara e i Padovani da Peraga, e indirettamente con gli Altavilla e gli Estensi. Comparivano come proprietari in terraferma per la prima volta nel 1249, quando uno di essi, Giovanni, era ricordato fra i confinanti di un manso sito a Borbiago nel Padovano.
Fu però il figlio di Giovanni, Marco, a segnalarsi come il personaggio di maggior rilievo della famiglia. Secondo la divisione del 1288, con la quale i suoi eredi si spartirono l'eredità paterna, Marco Badoer disponeva infatti di beni dall'incerta ampiezza ma ubicati in numerose località: nel Padovano, nel Trevigiano, nel Ferrarese e persino nel Regno di Sicilia.
La parte maggiore di queste proprietà si trovava nel territorio di Padova, sulla sinistra del Brenta, concentrate specialmente a Borbiago, Gorgo, Martorigo, Mirano, Roncomorello e S. Martino, il tutto comprendeva "terre, domus, vinee, nemora, prata, pascua, decime, iura decimationum, aque, molendina et paludes". Il centro degli interessi era Borbiago, dove sorgeva il castrum dei Badoer, la cui costruzione sembra si possa attribuire già al padre di Marco anche se la prima menzione della sua esistenza risale al 1258.
Nella medesima zona e in quelle adiacenti era poi frequente ricordo nelle confinazioni dei possessi dei Badoer. Questi erano inoltre sovente frammisti con quelli dell'ospedale veneziano di S. Giovanni Evangelista, fondato dalla stessa famiglia e sul quale essa esercitò per secoli il patronato, le cui proprietà, in continuo incremento a seguito specialmente di lasciti e di donazioni, si possono dunque considerare come una specie di appendice e di naturale prolungamento di quelle della casata. Accanto ai possessi dell'ospedale comparivano poi, con ancora maggior frequenza, le terre appartenenti al monastero di S. Ilario, dal quale Marco Badoer aveva ottenuto a feudo beni confinanti con i propri. Risulta dunque chiaro come egli avesse sfruttato i benefici ecclesiastici per arricchire la sua disponibilità fondiaria in quell'area.
Proprietà di minor consistenza il Badoer possedeva invece nel Trevigiano. Qui il centro principale era costituito da Musestre, lungo il basso corso del Sile, importante specialmente per i suoi mulini, già appartenuti agli Ziani.
Nel Ferrarese Marco Badoer disponeva di beni a Massa Fiscaglia, ma sembra potersi escludere che essi facessero parte di uno dei consueti feudi di cui il vescovato locale aveva investito da tempo varie casate veneziane. Più probabilmente si trattava di beni allodiali oppure di un raro caso di feudo di nomina marchionale, di quelli che gli Estensi assegnavano a quelle poche famiglie veneziane che erano loro legate da vincoli di amicizia o da rapporti di affari, come appunto i Badoer.
Più unica che rara infine la disponibilità di un feudo nel Regno di Sicilia, più precisamente nella zona di Capua, di cui il Badoer e la moglie Marchesina Ziani erano stati investiti nel 1273 da Carlo I d'Angiò, in cambio della rinuncia alle pretese sul Regno avanzate dagli Ziani prima e dai Badoer poi in quanto discendenti degli Altavilla, oltre che a compensazione dei finanziamenti che l'angioino aveva ottenuto dal Badoer nei suoi primi anni di regno.
Anche il primogenito di Marco, Marino, è conosciuto soprattutto come importante detentore di possessi fondiari. Nel 1256 infatti, dopo che il padre alla testa dell'esercito inviato contro Ezzelino da Romano aveva liberato la città di Padova, Marino sposò Balzanella da Peraga, ultima discendente di una illustre famiglia che aveva detenuto per lungo tempo l'avvocazia del monastero di S. Ilario. Marino riuscì con successo nell'impresa di recuperare i beni della moglie andati dispersi durante il dominio ezzeliniano, e per alcuni decenni fino alla scomparsa rimase l'amministratore di un considerevole patrimonio che, tra i centri principali di Peraga e di Mirano, entrambi sedi di castra appartenenti a Balzanella, si estendeva lungo la parte meridionale dell'Oltrebrenta, delimitato dal corso dei fiumi Brenta e Musone, all'estremità occidentale del territorio sottoposto all'influenza di S. Ilario e confinante ad est con le aree in cui si trovavano le proprietà di suo padre.
Un altro figlio di Marco, Badoero, si imparentò invece con i da Lendinara che detenevano la giurisdizione del castello nell'alto Polesine, da cui la famiglia prendeva il nome, e delle sue dipendenze, oltre ad avere vari interessi nel Veronese e nel Padovano. A seguito di questi rapporti, il Badoer fu inserito nel 1278 in un elenco di magnati del contado di Padova predisposto dal comune patavino, in quanto giurisdicente della villa di Cinto e del suo distretto sui colli Euganei. Cinque anni dopo vendeva allo stesso comune la giurisdizione e tutti gli altri diritti di sua spettanza sulla terra di Lendinara.
Vicende forse eccezionali quelle dei Badoer, nelle quali i rapporti con la terraferma, non occasionali ma voluti e fortemente ricercati, si intrecciano costantemente con i fatti più propriamente veneziani. Più modesto, ma proprio per questa ragione esemplare invece il caso dei Viaro che vivevano nella parrocchia di S. Maurizio, una famiglia di origine popolare che "nasce sul mare", esercitando le sue attività, tra la fine del secolo XII e l'inizio del XIII, un po' in tutti i porti mediterranei, per poi spostare a poco a poco i suoi interessi economici verso la terraferma (51). Nella seconda metà del Duecento, se infatti le transazioni commerciali non spariscono completamente, la loro funzione appare però secondaria rispetto agli impieghi di capitale negli acquisti fondiari effettuati nel Trevigiano.
La serie delle compere iniziò nel 1246, allorché Pietro Viaro acquistò assieme ad un socio da Giacomo Cattaneo, abitante a Casier, due mansi e dodici terre presso Casier, sulla destra del Sile poco a sud di Treviso, assieme ad altri due mansi nella stessa località con la decima di questi ultimi, il tutto per la somma di duecentocinquanta lire. Questa compravendita segna l'inizio della penetrazione economica dei Viaro nel basso Trevigiano, ma le modalità con cui essa avvenne inducono a pensare che si sia trattato almeno in parte di una cessione non volontaria ma forzata, come sostennero alcuni decenni più tardi gli eredi dell'antico proprietario, che, nel tentativo di rientrare in possesso per vie giudiziarie di quei beni, affermarono senz'altro che si trattava di terre sottratte alla loro famiglia dalla sopraffazione di Alberico da Romano. Lo dimostrerebbe la particolare solennità conferita al documento dal fatto di essere rogato nel consiglio generale di Treviso e dalla presenza dello stesso da Romano che sottoscrisse personalmente il contratto. Comunque sia, al tempo dell'acquisto il Viaro entrò pacificamente in possesso dei beni che sarebbero stati in seguito oggetto di contesa, anzi, nel 1248 comperò per trecento lire altri due mansi con le relative decime a Mogliano.
All'indomani della caduta del dominio albericiano in Treviso, Pietro Viaro si preoccupò di incrementare il suo patrimonio in quell'area. Rimase infatti il solo proprietario dei beni in questione, acquistando nel 1260 la quota del socio, e provvedendo poi ad alcune compere minori. Le proprietà così acquisite furono poi sfruttate cedendole a coltivatori locali mediante contratti di affitto a tempo determinato, con canoni fissi o parziari in denaro e in generi.
La penetrazione economica dei Veneziani in terraferma era allora una concreta realtà nel Duecento, ma essa non poteva essere né pacifica né incontrastata poiché l'aumento delle loro aziende danneggiava gli interessi dei comuni nel cui territorio si verificava quel processo, costituendo inoltre occasione di contrasto fra questi ultimi e Venezia. È evidente quindi che se i proprietari fossero stati lasciati a loro stessi non avrebbero certamente potuto procedere ad ulteriori acquisti. Era indispensabile invece una qualche forma di tutela che assicurasse loro la possibilità di sopravvivenza e di successivo incremento. Per comprendere nelle sue esatte dimensioni il rilievo del fenomeno e le sue varie implicazioni è quindi necessario porre l'attenzione su alcune questioni che appaiono di primaria importanza.
Innanzi tutto il problema annonario. Le scarse rese agricole del tempo e le consuete fluttuazioni della produzione imponevano ai comuni dell'entroterra misure restrittive in questo settore, per ridurre quanto più possibile il deficit alimentare in caso di insufficiente disponibilità di prodotti, ma questa politica non poteva conciliarsi con i desideri e le esigenze dei proprietari veneziani, i quali non avevano interesse a convertire in denaro oppure vendere sul posto le rendite in natura che costituivano la maggioranza dei loro redditi agricoli, ma chiedevano invece di poterle trasportare nella loro città.
Fino a che il numero e l'estensione dei possessi extraconfine si mantenne limitato e quindi anche il quantitativo di prodotti importati rimase trascurabile, non vi fu motivo di regolare la materia, ma quando, negli ultimi tempi del dogado di Pietro Ziani (1205-1229) e nei primi anni di governo del suo successore Giacomo Tiepolo (1229-1249), peggiorarono drasticamente i rapporti con le città della Marca e anche con il comune di Ferrara e i sudditi dei marchesi d'Este (52), e le autorità locali ricorsero alle confische dei beni fondiari e ai sequestri delle rendite come arma politica, si sentì la necessità di includere negli accordi bilaterali un'apposita normativa che, in diversi modi, consentisse il libero trasferimento a Venezia dei prodotti provenienti dai terreni di pertinenza veneziana (53).
Con ciò non si deve tuttavia credere che fosse risolta l'importante questione. Anzi, malgrado la costante presenza di questa disciplina nei patti successivi con Ferrara, Padova e Treviso (54), il blocco delle rendite si mantenne un evento piuttosto frequente (specie in occasione di crisi violente, come durante la guerra combattuta contro Padova nel 1234-1235 (55), di carestie, quale quella particolarmente pesante del 1268 (56), e di vertenze che coinvolgevano privati o enti con intervento dei rispettivi comuni a sostegno delle parti in causa), tanto da potersi affermare come la riscossione di quei prodotti fosse, fino alla sottomissione politica dell'entroterra, in linea di massima incerta e comunque subordinata ai mutevoli umori delle autorità del posto.
Non può poi essere trascurato l'aspetto rappresentato dai doveri fiscali dei proprietari. Per tutta la prima metà del XIII secolo è probabile, pur in mancanza di dati certi, che i Veneziani fossero tenuti unicamente alla prestazione a favore delle autorità locali delle consuete imposte fondiarie: colte, collette, oneri vari che colpivano un po' tutti gli abitanti delle campagne (57), ma in seguito le loro possessioni furono sottoposte ad un duplice regime fiscale: quello proprio veneziano e quello particolare del comune nel cui ambito territoriale esse si trovavano. Nel primo caso le proprietà di terraferma erano interessate al sistema dei prestiti obbligatori e, analogamente a quelle degli enti ecclesiastici alle quali era stato esteso questo dovere fin dal 1258 (58), la misura del patrimonio imponibile era determinata dal reddito ricavabile annualmente moltiplicato per dieci (59), valutato sulla base delle dichiarazioni giurate dei contribuenti.
In realtà però è da ritenersi probabile come l'evasione a quest'imposta fosse molto diffusa in quanto, anche senza tener conto degli alti margini di frode abituali per l'epoca, si deve tener presente che gli ufficiali incaricati della riscossione non avevano alcuna possibilità, a differenza di quanto non avvenisse nel territorio del Dogado (60), di appurare se realmente gli interessati avessero denunciato e in quali termini la consistenza dei loro redditi extra Veneciam, come dimostra con chiarezza il caso di un ricorso presentato dal priore dell'ospedale di S. Bartolomeo avverso una condanna inflittagli dagli ufficiali agli imprestiti nel 1306 in quanto non avevano potuto esigere i prestiti sulle proprietà, situate a Papozze, legate all'ospedale da Tommaso Querini. In quell'occasione la tesi del priore venne accolta e i beni oggetto della controversia furono esentati da ogni obbligo, perché, come si riconosceva espressamente, si era constatata l'impossibilità di imporre l'esecuzione delle disposizioni in materia alle proprietà che si trovavano fuori della giurisdizione veneziana (61).
Per quanto riguarda invece il fisco locale, è verosimile che la situazione non sia cambiata di molto, e anche se nel Padovano negli anni '80 fu istituita e rapidamente soppressa un'imposta straordinaria a carico delle proprietà veneziane, laiche ed ecclesiastiche (62), sono giunte testimonianze di esoneri completi da ogni forma di imposizione, concessi specialmente alle famiglie maggiormente inserite nella realtà della terraferma, come avvenne, ad esempio, ai Querini negli anni '70 da parte del marchese d'Este per il loro grosso feudo di Papozze (63), per cui si potrebbe sostenere che la sicurezza di poter evitare le più pesanti imposizioni veneziane come pure la possibilità di farsi esentare da quelle proprie del luogo abbia costituito un ulteriore incentivo per i privati nel procedere agli acquisti fondiari.
Un altro elemento da considerare è la particolare posizione che i proprietari veneziani venivano ad assumere sul piano giudiziario. Il primo obiettivo dei più antichi trattati con i comuni confinanti era stato appunto la regolamentazione della giustizia nei casi in cui i cittadini veneziani si fossero trovati coinvolti in liti o fossero stati accusati di aver commesso qualche reato fuori dall'ambito giurisdizionale del Dogado. In questo caso, volontà costante era di sottrarre la vertenza ai tribunali ordinari competenti per territorio e demandarne la discussione e il giudizio ad un collegio di giudici o di arbitri, nominati, secondo diverse procedure, almeno in parte dagli stessi organismi politici di Venezia (64), in modo da offrire le maggiori garanzie possibili al veneziano implicato.
In concreto però le occasioni di vertenza fra i proprietari in terraferma e i loro vicini o altri aventi diritto per i più svariati motivi erano talmente frequenti che sarebbe stato quasi impossibile applicare correttamente le normative stabilite nei patti, e in effetti risulta che ad esse si ricorresse solamente in casi estremi e di sicura gravità, come nel 1273, su espressa richiesta veneziana (65), in occasione di contrasti fra i proprietari di Massa Fiscaglia, il marchese d'Este e il comune di Ferrara (66), e tra il 1264 e il 1278 contro il comune di Padova per i beni di Giovanni Boccasso situati a Lova lungo il confine fra i due comuni (67). Per tutte le altre controversie, escluse quelle in cui le parti erano entrambe veneziane, nel qual caso era sottratta qualsiasi competenza ai tribunali locali e la causa veniva affidata ai giudici di procurator o a quelli del proprio, come fu stabilito fin dal 1269 (68), si preferiva rivolgersi ai giudici del posto, a seguito di apposita autorizzazione, come fece, fra gli altri, Marco del Legname che una parte del 1282 autorizzava, in deroga alle disposizioni vigenti, ad inviare un suo procuratore a Treviso perché difendesse i suoi diritti su certe terre per le quali era in lite (69), oppure violando deliberatamente i patti, come fecero i Viaro, impegnati fra il 1259 e il 1283 in varie vertenze per i loro beni nel Trevigiano contro proprietari locali (70).
Così facendo però il veneziano rinunciava automaticamente ad ogni garanzia assicuratagli dagli accordi e si esponeva al possibile arbitrio dei giudicanti di terraferma. In caso di sentenza a lui sfavorevole aveva sì la possibilità di ricorrere all'appoggio del comune ma questo interveniva semmai concedendogli il diritto alle rappresaglie, come avvenne nel 1293 al facoltoso Albertino Morosini in lite con i Trevigiani (71), con il risultato però d'introdurre un elemento di disordine e una causa di tensione nelle normali relazioni fra i comuni.
L'ultimo aspetto da sottolineare si riferisce alla legislazione e quindi all'atteggiamento ufficiale assunto dal comune di Venezia nei confronti di quei suoi cittadini che andavano acquisendo nuovi possessi nel retroterra. Fino a tutta la prima metà del Duecento vi era stato un unico intervento tendente a limitare l'aumento delle proprietà veneziane, allorché, nel patto con Padova del 1227, il doge Pietro Ziani si era riservato il diritto di proibire ai suoi compatrioti di comperare possessioni a Padova e nel Padovano (72), ma, se si esclude questa disposizione, che del resto non sembra abbia mai avuto effettiva applicazione, fu soltanto un trentennio più tardi, quando ormai appariva prossimo il crollo del dominio di Ezzelino da Romano nella regione, che il maggior consiglio cominciò ad approvare tutta una serie di deliberazioni a carattere limitativo e restrittivo in materia (73).
A partire dal 1256 furono infatti promulgate diverse leggi che, indirizzate al medesimo fine, si possono sostanzialmente suddividere in tre specie diverse: alcune vietavano l'acquisto, diretto o indiretto, di beni immobili oppure l'accettazione di feudi o altri benefici concessi da comuni e signori forestieri (74); altre prescrivevano l'espulsione dai consigli, in sede di discussione sui rapporti con altri comuni, di tutti coloro che avessero proprietà nell'ambito territoriale di questi ultimi (75), e altre ancora stabilivano l'incompatibilità dell'elezione a determinate cariche pubbliche, come quelle di ambasciatore, visdomino o console, di coloro che detenessero possessi nei luoghi in cui avrebbero dovuto svolgere il loro incarico (76).
Di fronte a questi provvedimenti è d'obbligo porsi almeno due interrogativi: quali furono le ragioni che spinsero i gruppi dirigenti veneziani ad assumere così severe disposizioni nei confronti dei proprietari di terraferma, ed esse furono veramente efficaci oppure no?
La risposta alla prima domanda appare piuttosto semplice. Quelle leggi si inquadravano perfettamente nelle scelte di fondo dell'economia lagunare di metà secolo caratterizzate da un disimpegno ufficiale da interessi e proprietà extraconfine in quanto di difficile acquisto, di ardua conservazione e, comunque, motivo costante di tensioni, cui va aggiunto un deciso ritorno ai traffici e uno sfruttamento a fondo degli scambi intesi come fonte fondamentale del reddito cittadino (77).
Di qui la necessità, da un lato, d'imporre rigide limitazioni al diritto di proprietà, per evitare il più possibile nuovi motivi di attrito con i comuni e le signorie dell'entroterra che avrebbero potuto comportare gravi turbamenti dei traffici e occasione di eventuali azioni armate, e, dall'altro, di impedire la partecipazione alle scelte di politica estera a tutti i proprietari, in quanto questi avrebbero potuto anteporre i loro interessi particolari a quelli generali.
Se poi ci si domanda se quelle disposizioni abbiano effettivamente conseguito i loro scopi, provocando un crollo nell'indice degli acquisti, la risposta non può essere che negativa dato che, anche senza tener conto di espedienti sempre possibili, le stesse leggi prevedevano alcuni casi in cui l'acquisizione era riconosciuta lecita (78) e, anche in caso contrario, i Veneziani potevano pur sempre pervenire al possesso fondiario ottenendo le debite esenzioni, come fecero Marco Badoer, che nel 1270 fu autorizzato a ricevere un feudo dal re di Sicilia Carlo I d'Angiò (79), Giovanni Querini, al quale nel 1274 fu concesso di acquistare un paio di mansi in località imprecisata (80), e Giacomo Dandolo, a cui fu permesso nel 1275 di comperare una terra nel Trevigiano, situata all'interno di un'altra sua proprietà (81).
Se si fosse veramente voluto impedire ulteriori acquisti sarebbe stato necessario far seguire ai divieti formali una serie di misure di carattere sostanziale che, incidendo direttamente sul piano economico, avrebbero costituito un potente disincentivo al trasferimento di nuovi capitali nelle campagne. Si sarebbe dovuto cioè negare ai proprietari, per esempio, la possibilità di esportare da Venezia in caso di bisogno sementi per campi e materiali utili per i lavori agricoli, oppure vietare agli stessi di poter concedere prestiti e sostegni di vario genere ai loro coltivatori. In realtà invece si realizzò l'esatto contrario, perché furono sempre attentamente tutelati gli interessi dei possessori di terraferma.
Nel 1260, ad esempio, due apposite parti del maggior consiglio concedevano agli "habentibus terras et possessiones extra Venecias" grani per la semina e ancora legna, pietre e calce "pro suis laboreriis" (82).
Nel 1271 veniva rinnovata la seconda delle due deliberazioni (83) e, dieci anni più tardi, mentre era in corso un'autentica guerra economica contro Padova e Treviso e si inibiva qualsiasi prestito agli abitanti di quei comuni, gli "homines Veneciarum qui habent terras" colà erano autorizzati a "concedere et imprestare suis villanis res necessarias pro sua terra" (84).
Si trattava di provvedimenti lontani dallo sconsigliare nuovi impieghi fondiari. Anzi, la loro stessa esistenza e il fatto che sulla base degli atti privati non si registri un rallentamento delle compere (ma piuttosto il contrario) rende lecita l'ipotesi che all'interno della massima assemblea veneziana esistesse una componente, ancora di minoranza ma sufficientemente forte se era in grado di far sentire le sue ragioni, che aveva scelto di continuare nell'insediamento al di fuori del Dogado.
Di fronte a questi dati, pare non possa mettersi in dubbio il fallimento della legislazione contro i proprietari di terraferma. Gli interessi di una parte della popolazione erano ormai troppo radicati nella realtà economica dell'entroterra perché potessero essere trascurati.
Del resto, una significativa riprova del mancato successo del tentativo di arrestare o quanto meno contenere il fenomeno è fornita da un lungo elenco di possessi veneziani nel Trevigiano redatto nel 1325 dalla cancelleria del comune di Treviso. Malgrado l'elenco appaia incompleto, da esso risulta come allora quasi tutti gli istituti religiosi e almeno centotrenta famiglie, fra nobili e popolari, disponessero di beni in quel territorio. Le proprietà si estendevano un po' in tutte le suddivisioni amministrative del distretto di Treviso e ammontavano a parecchie migliaia di campi (85). Al punto che nel 1345, solo pochi anni dopo la sottomissione del Trevigiano a Venezia, un'apposita commissione accertò che quasi un quarto (9.995 staia su un totale di 40.835) del frumento prodotto nella podesteria di Treviso che lasciava le campagne come canone spettante ai proprietari, locali o meno, finiva in mano ai Veneziani (86). Una quota decisamente elevata, che dimostra senza mezzi termini come ben prima dell'età moderna la conquista economica del Trevigiano da parte dei Veneziani e la notevole importanza delle loro disponibilità fondiarie fossero una concreta realtà.
1. Francesco Petrarca, Poesie latine, a cura di Guido Martellotti - Enrico Bianchi, Milano-Napoli 1951, nr. XV. La definizione è stata usata anche come titolo di un'opera recente: Giorgio Cracco, Un "altro mondo". Venezia nel Medioevo dal secolo XI al secolo XIV, Torino 1986.
2. Fra gli apporti più attuali di questo riesame iniziatosi con i lavori ancora stimolanti di Marino Berengo, La società veneta alla fine del Settecento, Firenze 1956; Angelo Ventura, Nobiltà e popolo nella società veneta del '400 e '500, Bari 1964; e Giorgio Cracco, Società e stato nel medioevo veneziano (secoli XII-XIV), Firenze 1967 - segnalo in particolare il volume Istituzioni, società e potere nella Marca Trevigiana e Veronese (secoli XIII-XIV). Sulle tracce di G.B. Verci, a cura di Gherardo Ortalli-Michael Knapton, Roma 1988, con contributi di Trevor Dean, Jean-Claude Hocquet, Lesley A. Ling, Reinhold C. Mueller, Marco Pozza, Josef Riedmann e Gerhard Rösch.
3. La bibliografia sull'argomento è ormai alquanto vasta, mi limito a ricordare: Aldo Stella, La crisi economica veneziana nella seconda metà del secolo XVI, "Archivio Veneto", ser. V, 58-59, 1956, pp. 27-37 (pp. 17-69); Stuart J. Woolf, Venice and the Terraferma: Problems of the Change from Commercial to the Landed Activities, "Bollettino dell'Istituto di Storia della Società e dello Stato Veneziano", 4, 1962, pp. 415-441; Angelo Ventura, Considerazioni sull'agricoltura veneta e sulla accumulazione originaria del capitale nei sett. XVI e XVII, "Studi Storici", 9, 1968, pp. 674-722; Ruggiero Romano, Tra due crisi: l'Italia del Rinascimento, Torino 1971, pp. 187-216; Brian Pullan, The Occupations and Investments of the Venetian Nobility in the Middle and Late Sixteenth Century, in Renaissance Venice, a cura di John R. Hale, London 1973, pp. 379-408; Fernand Braudel, L'Italia fuori d'Italia. Due secoli e tre Italie, in AA.VV., Storia d'Italia, II, Dalla caduta dell'Impero romano al secolo XVIII, Torino 1974, pp. 2229-2230 (pp. 2091-2248); Innocenzo Cervelli, Machiavelli e la crisi dello stato veneziano, Napoli 1974, pp. 187-217; Salvatore Ciriacono, Irrigazione e produttività agraria nella Terraferma veneta tra Cinque e Seicento, "Archivio Veneto", ser. V, 112, 1979, pp. 90-91 (pp. 73-135). Cf. inoltre Giorgio Borelli, Terra e patrizi nel XVI secolo: Marcantonio Serego, "Studi Storici Veronesi Luigi Simeoni", 26-27, 1976-77, pp. 43-72; Joanne M. Ferraro, Proprietà terriera e potere nello Stato veneto: la nobiltà bresciana del '400-'500, in Dentro lo "Stado Italico". Venezia e la terraferma fra Quattro e Seicento, a cura di Giorgio Cracco - Michael Knapton, Trento 1984, pp. 159-182.
4. Per l'annoso dibattito sulle ragioni che indussero Venezia alla costituzione del suo stato territoriale, cf. in sintesi Gaetano Cozzi, Politica, istituzioni, società, in Id. - Michael Knapton, Storia della Repubblica di Venezia dalla guerra di Chioggia alla riconquista della terraferma, Torino 1986 (Storia d'Italia, diretta da Giuseppe Galasso, XII, 1) specie pp. 14-15 (pp. 3-271).
5. Lo studio della penetrazione del capitale cittadino nelle campagne rappresenta uno dei temi tradizionali della medievistica italiana che si sofferma sul rapporto città-contado e dispone oggi di numerosi contributi.
6. Daniele Beltrami, La penetrazione economica dei veneziani in terraferma. Forze di lavoro e proprietà fondiaria nelle campagne venete dei secoli XVII e XVIII, Venezia-Roma 1961. L'indagine, pur notevole, è condotta su fonti fiscali per loro natura infide, e i dati complessivi che da esse si ricavano appaiono di dubbia sicurezza.
7. Per le vendite dei beni scaligeri e carraresi, v. Alfredo Pino-Branca, Il Comune di Padova sotto la Dominante nel sec. XV, "Atti del R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 93, 1933-34, nr. 2, pp. 924-933; 96/2, 1936-37, pp. 740-755; Vittorio Lazzarini, Beni carraresi e proprietari veneziani, in AA.VV., Studi in onore di Gino Luzzatto, I, Milano 1949, pp. 274-288; Giulio Sancassani, I beni della "Fattoria Scaligera" e la loro liquidazione ad opera della Repubblica Veneta 1406-1417, "Nova Historia", 12, 1960, nr. 1, pp. 102-108 (pp. 100-157). Cf. inoltre Giovanni Cherubini, La proprietà fondiaria in Italia nei secoli XV e XVI nella storiografia italiana, "Società e Storia", 1, 1978, nr. 1, pp. 26-28; Marian Malowist, Capitalismo commerciale e agricoltura, in AA.VV., Storia d'Italia, Annali, I, Dal feudalesimo al capitalismo, Torino 1978, pp. 500-504 (pp. 453-507); G. Cozzi, Politica, pp. 125-128. Di minore rilevanza invece la partecipazione dei Veneziani agli acquisti di beni dei Caminesi, già signori di Treviso, v. per questo A.S.V., Ufficiali alle Rason Vecchie, reg. 47; e di quelli confiscati alle potenti famiglie dei dal Verme, Bevilacqua e Sambonifacio, più volte ribelli a Venezia durante il primo secolo di dominio veneziano su Verona, cf. ivi, Governatori alle Entrate, reg. 170. Per questi ultimi episodi, in chiave e con documentazione veronese, v. Gian Maria Varanini, Il distretto veronese nel Quattrocento. Vicariati del comune di Verona e vicariati privati, Verona 1980, pp. 103-116.
8. Vittorio Lazzarini, Antiche leggi venete intorno ai proprietari nella terraferma, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 38, 1919, pp. 5-31.
9. Id., Possessi e feudi veneziani nel Ferrarese, in AA.VV., Miscellanea in onore di Roberto Cessi, I, Roma 1958, pp. 213-232.
10. Su queste più antiche proprietà, v. ora Sante Bortolami, L'agricoltura, in Storia di Venezia, I, Origini-Età ducale, a cura di Lellia Cracco Ruggini-Massimiliano Pavan e Giorgio Cracco-Gherardo Ortalli, Roma 1992, pp. 466-471 (pp. 461-489). Per il territorio trevigiano in specifico, si veda Marco Pozza, Penetrazione fondiaria e relazioni commerciali con Venezia, in Storia di Treviso, II, Il Medioevo, a cura di Daniela Rando-Gian Maria Varanini, Venezia 1991, pp. 300-304 (pp. 299-321). Per il caso più noto di una grande famiglia veneziana direttamente interessata alle vicende della terraferma, che portò un suo esponente alla carica di conte di Padova e di Vicenza, v. Id., Vitale-Ugo Candiano. Alle origini di una famiglia comitale del regno italico, "Studi Veneziani", n. ser., 5, 1981, pp. 15-32.
11. Sul Michiel, cf. Id., Il testamento di Andrea Michiel ambasciatore veneziano in Ungheria, "Studi Veneziani", n. ser., 7, 1983, pp. 223-232.
12. Per i da Carbonara, cf. Gerolamo Biscaro, Le temporalità del vescovo di Treviso dal secolo IX al XIII, "Archivio Veneto", ser. V, 18, 1936, specie pp. 19-24 (pp. 1-72).
13. SS. Trinità e S. Michele Arcangelo di Brondolo, II, Documenti (800-1199), a cura di Bianca Lanfranchi Strina, Venezia 1981, nr. 67, doc. 1125 ottobre.
14. Codice diplomatico padovano dal 1101 alla pace di Costanza (25 giugno 1183), I-II, a cura di Andrea Gloria, Venezia 1879-81: I, nr. 535.
15. Del matrimonio si ha notizia in un documento successivo: ibid., II, nr. 1193, doc. 1175 novembre.
16. Sui da Sossano, cf. Andrea Castagnetti, I conti di Vicenza e di Padova dall'età ottoniana al comune, Verona 1981, pp. 166-170.
17. Codice diplomatico padovano, II, nr. 123.
18. La donazione è ricordata nel doc. citato alla n. 15.
19. Sulla figura del doge Domenico Contarini, v. ora in sintesi Marco Pozza, Contarini, Domenico, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXVIII, Roma 1983, pp. 136-139.
20. Nuovi documenti padovani dei sec. XI-XII, a cura di Paolo Sambin, Venezia 1955, nr. 16.
21. A.S.V., Codice diplomatico veneziano, a cura di Luigi Lanfranchi, nr. 2032.
22. Codice diplomatico padovano, II, nr. 686.
23. Per i Lendinara, cf. Statuti di Lendinara del 1321, a cura di Marco Pozza, Roma 1984, pp. 15-21; Andrea Castagnetti, La Marca Veronese-Trevigiana (secoli XI-XIV), Torino 1986, pp. 24-25, 36; Id., La società veronese nel medioevo, II, Ceti e famiglie dominanti nella prima età comunale, Verona 1987, pp. 16-17.
24. A.S.V., Codice diplomatico veneziano, nr. 2888.
25. Codice diplomatico padovano, I, nr. 182.
26. V. Lazzarini, Possessi e feudi, nr. IX.
27. Id., Marino Faliero e un feudo dei Falier nel Ferrarese, "Archivio Veneto", ser. V, 38-41, 1946-47, p. 77 (pp. 77-85). Id., Possessi e feudi, p. 213.
28. Id., Possessi e feudi, nr. XII.
29. A.S.V., Codice diplomatico veneziano, nr. 4577.
30. Sugli Staniaro, v. Silvano Borsari, Venezia e Bisanzio nel XII secolo. I rapporti economici, Venezia 1988, pp. 109-116.
31. Ibid., Appendice II, nr. A 1.
32. Ibid., nr. A 3. Per un rinnovo della locazione ad un coltivatore diverso dai precedenti, v. ibid., nr. A 5, doc. 1197 luglio 25.
33. S. Lorenzo (853-1199), a cura di Franco Gaeta, Venezia 1959, nr. 99; ibid., Appendice, nrr. XLIX, LIII.
34. Ibid., Appendice, nrr. L, LIV.
35. Per i beni fondiari in terraferma degli enti ecclesiastici veneziani fino al XII secolo, v. la ricchissima documentazione edita nei citati Codice diplomatico padovano (e per i casi più antichi in Codice diplomatico padovano dal secolo sesto a tutto l'undicesimo, a cura di Andrea Gloria, Venezia 1877); Nuovi documenti padovani; S. Lorenzo; SS. Trinità; e inoltre S. Giovanni Evangelista di Torcello (1024-1199), a cura di Luigi Lanfranchi, Venezia 1948; S. Giorgio di Fossone (1074-1199), a cura di Bianca Strina, Venezia 1957; SS. Secondo ed Erasmo (1089-1199), a cura di Eva Malipiero Ucropina, Venezia 1958; SS. Ilario e Benedetto e S. Gregorio (819-1199), a cura di Luigi Lanfranchi - Bianca Strina, Venezia 1965; S. Giorgio Maggiore, II, Documenti (928-1159), a cura di Luigi Lanfranchi, Venezia 1967; III, Documenti (1160-1199), a cura di Luigi Lanfranchi, Venezia 1968; Benedettini in S. Daniele, a cura di Elisabeth Santschi, Venezia 1989. Per l'organizzazione delle proprietà di S. Zaccaria, le sole oggetto finora di uno studio organico, v. Karol Modzelewski, Le vicende della "pars dominica" nei beni fondiari del monastero di San Zaccaria di Venezia (secc. X-XIV), "Bollettino dell'Istituto di Storia della Società e dello Stato Veneziano", 4, 1962, pp. 42-79; 5-6, 1963-64, pp. 15-64. Cf. inoltre gli accenni di S. Bortolami, L'agricoltura, pp. 478-482.
36. Sulle trasformazioni nel regime della proprietà all'interno del Dogado nei secoli XI-XII, cf. Roberto Cessi, Aspetti del regime agrario nell'antico ducato veneziano (secoli IX-XII), "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 96, 1957-58, pp. 375-384; Id., Politica, economia, religione, in AA.VV., Storia di Venezia, II, Dalle origini del Ducato alla IV Crociata, Venezia 1958, pp. 330-335 (pp. 67-476); Id., Venezia ducale, II/1, Commune Venetiarum, Venezia 1965, pp. 139-144.
37. Per gli Ziani, cf. Silvano Borsari, Una famiglia veneziana del Medioevo: gli Ziani, "Archivio Veneto", ser. V, 110, 1978, pp. 27-53 (pp. 27-72); Irmgard Fees, Reichtum und Macht im mittelalterlichen Venedig. Die Familie Ziani, Tübingen 1988, particolarmente pp. 103-197.
38. Sulle leggi che regolavano i passaggi di proprietà, v. Gli statuti veneziani di Jacopo Tiepolo del 1242 e le loro glosse, a cura di Roberto Cessi, Venezia 1938, pp. 20-30, 125, 128-131; Gli statuti civili di Venezia anteriori al 1242, a cura di Enrico Besta-Riccardo Predelli, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 1, 1901, pp. 58-65, 253-255, 285-295 (pp. 5-117; 205-300).
39. Per il fatto, ricordato per primo dagli Annales Veneti breves: Annales Veneti saec. XIII, a cura di Heinrich Volbert Sauerland, "Nuovo Archivio Veneto", 7, 1894, p. 5 (pp. 5-8); cf. Giuseppe Pavanello, Marco Cornaro, Scritture sulla Laguna, in AA.VV., Antichi scrittori di idraulica veneta, I, Venezia 1919, pp. 123-132; Roberto Cessi, La diversione del Brenta ed il delta ilariano nel sec. XII, "Atti del R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 80/2, 1920-21, pp. 1225-1243. II trattato di pace che pose fine al conflitto è edito in SS. Ilario e Benedetto, nr. 23, doc. 1144 o 1146 ottobre 10.
40. Intorno a questo episodio, noto all'anonimo autore del Chronicon Marchiae: Chronicon Marchiae Tarvisinae et Lombardiae (a. 1207-1270), a cura di Luigi A. Botteghi, in R.I.S.2, VIII, 3, 1914-1916, p. 5; e riportato, con maggiore ampiezza di particolari, in Rolandini Patavini Cronica in factis et circa facta Marchie Trivixane, a cura di Antonio Bonardi, ibid., VIII, 1, 1905-1908, pp. 24-27; Martin da Canal, Les estoires de Venise. Cronaca veneziana in lingua francese dalle origini al 1275, a cura di Alberto Limentani, Firenze 1972, pp. 74-80; v. anche Riccardo Predelli, Documenti relativi alla guerra del fatto del Castello d'Amore, "Archivio Veneto", 30, 1885, pp. 421-429 (pp. 421-447); Melchiorre Roberti, Studi e documenti di storia veneziana, II, I trattati fra Venezia e Padova anteriori al dominio ezzeliniano, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 16, 1908, pp. 37-42 (pp. 5-61). I trattati di pace con Padova e Treviso sono editi da R. Predelli, Documenti relativi alla guerra, nrr. I-II, docc. I216 aprile 9 [ma v. ora una nuova edizione dei due documenti in Il Liber Pactorum I del Comune di Venezia, a cura di Marco Pozza (in preparazione), II, nrr. 176, 178>.
41. Circa l'ascesa dei popolari, cf. G. Cracco, Società e Stato, pp. 103-134; Id., Un "altro mondo", pp. 63-75. Per l'aumento della ricchezza cittadina dopo la quarta Crociata, v. Gerhard Rösch, Venedig und das Reich. Handels- und verkehrspolitische Beziehungen in der deutschen Kaiserzeit, Tübingen 1982, p. 190 (trad. it. Venezia e l'Impero 962-1250. I rapporti politici, commerciali e di traffico nel periodo imperiale germanico, Roma 1985, p. 252).
42. I possessi dei Dolfin a Gorgo nel XIII secolo sono attestati da numerosi documenti: A.S.V., Procuratori di S. Marco, Misti, Carte Dolfin Marco, b. 120.
43. Sui Querini, ibid., Carte Querini, b. 138a; ibid., Carte Querini Tommaso, b. 159a; ibid., Commissaria Querini Giacomo, b. 124a; ivi, Procuratori di S. Marco de Citra, Commissaria Querini Bartolomeo, bb. 272-273; ibid., Commissaria Querini Tommaso, b. 260.
44. S. Borsari, Una famiglia veneziana, Appendice I. Per una disamina del suo contenuto, cf. ibid., pp. 41-44; I. Fees, Reichtum und Macht, pp. 72-75, 381-388.
45. Per Romano Mairano, v. da ultimo S. Borsari, Venezia e Bisanzio, pp. 116-129.
46. Sui Fermo-Dolfin, cf. n. 42.
47. Per Profeta da Molin, v. Marco Pozza, Un trattato fra Venezia e Padova ed i proprietari veneziani in terraferma, "Studi Veneziani", n. ser., 7, 1983, p. 25 (pp. 15-29). Il contratto d'acquisto è stato pubblicato da Roberto Cessi, Iacopo da Sant'Andrea, "Bollettino del Museo Civico di Padova", 11, nr. 3, 1908, pp. 53-56 (pp. 49-56).
48. Il trattato con Padova è edito da M. Roberti, Studi e documenti, II; quello con Ferrara da Bernardino Ghetti, I patti tra Venezia e Ferrara dal 1191 al 1313 esaminati nel loro testo e nel loro contenuto storico, Roma 1907, pp. 189-196; nonché in Statuta Ferrariae anno MCCLXXXVII, a cura di William Montorsi, Modena 1955, III, nr. XXXXIa.
49. Il dato si ricava da due contratti di affitto decennale con canone in denaro pari a un decimo del valore della proprietà: A.S.V., S. Lorenzo, b. 18, Proc. Moian I, doc. 1262 aprile 14; ivi, Procuratori di S. Marco, Misti, Commissaria Contarini Marchesina, b.. 109, doc. 1298 giugno 11.
50. Sui Badoer e le notizie che ad essi si riferiscono, cf. Marco Pozza, I Badoer. Una famiglia veneziana dal X al XIII secolo, Abano Terme 1982.
51. Le notizie relative ai Viaro sono tratte dal loro archivio privato che si conserva in A.S.V., S. Maffio di Mazzorbo, bb. 1-3 perg. Gli atti commerciali sono editi in Documenti del commercio veneziano nei secoli XI-XIII, I-II, a cura di Raimondo Morozzo della Rocca-Antonino Lombardo, Torino 1940; Nuovi documenti del commercio veneto dei sec. XI-XIII, a cura di Idd., Venezia 1953; i documenti duecenteschi sono regestati in San Maffio di Mazzorbo e Santa Margherita di Torcello, a cura di Lina Frizziero, Firenze 1965.
52. Cf. per questo G. Cracco, Società e stato, pp. 136-139; Id., Un "altro mondo", pp. 77-80; Roberto Cessi, Venezia nel Duecento: tra Oriente e Occidente, Venezia 1985, pp. 103-111.
53. Cf. n. 48.
54. La questione è stata studiata solo per Treviso: M. Pozza, Penetrazione fondiaria, pp. 305-312. I patti duecenteschi con Ferrara sono stati tutti pubblicati da B. Ghetti, I patti; quelli con Padova invece sono editi fino al 1235: M. Roberti, Studi e documenti; M. Pozza, Un trattato, pp. 26-29.
55. M. Pozza, Un trattato, pp. 15-29.
56. La carestia e le misure protezionistiche adottate in quella circostanza dai comuni di terraferma sono ricordate dal cronista contemporaneo Martin da Canal: M. da Canal, Les estoires, p. 324.
57. Di quest'obbligo si ha notizia per la prima volta da uno statuto del comune di Treviso del 1260: A.S.V., Miscellanea atti diplomatici e privati, b. 5, nr. 171 bis, doc. 1276 dicembre 17. Per un'attestazione veneziana di imposte trevigiane, v. Deliberazioni del Maggior Consiglio di Venezia, I-III, a cura di Roberto Cessi, Bologna 1931-1950: II, p. 138, nr. XLV, doc. 1282 giugno 6.
58. Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, pp. 50-51, nrr. XXVIIII-XXX; I prestiti della Repubblica di Venezia (sec. XIII-XV), a cura di Gino Luzzatto, Padova 1929, nr. 20, doc. 1262-78, particolarmente pp. 39-40.
59. I prestiti, p. XXV.
60. Ad accertare la veridicità delle dichiarazioni giurate erano stati incaricati fin dal 1285 i capicontrada, cf. Deliberazioni del Maggior Consiglio, III, p. 95, nr. 209.
61. I prestiti, p. XLVIII e nr. 77, particolarmente pp. 79-80.
62. Sulla questione, cf. Paolo Sambin, Aspetti dell'organizzazione e della politica comunale nel territorio e nella città di Padova tra il XII e il XIII secolo, "Archivio Veneto", ser. V, 58-59, 1956, pp. 6-9 (pp. 1-16).
63. A.S.V., Procuratori di S. Marco de Citra, Commissaria Querini Bartolomeo, b. 273, docc. 1273 novembre 18, 1279 aprile 22, 1279 aprile 27.
64. Per l'intero problema, v. G. Rösch, Venedig und das Reich, pp. 48-69 (trad. it., pp. 89-104).
65. Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, p. 113, doc. 1273 agosto 30.
66. B. Ghetti, I patti, pp. 215-221; Statuta Ferrariae, III, nr. XXXXIb.
67. Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, p. 382, doc. 1264 dicembre 26; p. 409, doc. 1272 giugno 6; A.S.V., Procuratori di S. Marco de Ultra, Commissaria Tamagnino Nicolò, b. 268, docc. 1277 luglio 9, 1278 settembre 2.
68. Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, pp. 206-207, nr. I; la delibera fu confermata nel 1271: ibid., p. 200, nr. IV. Per un caso specifico, cf. Gino Belloni-Marco Pozza, Sei testi veneti antichi, Roma 1987, pp. 55-61.
69. Deliberazioni del Maggior Consiglio, III, p. 14, nr. 64.
70. San Maffio, ad indicem.
71. Giambattista Verci, Storia della Marca trivigiana e veronese, IV, Venezia 1787, nr. CCCLXIV. Sul Morosini, v. Ugo Tucci, Albertino Morosini podestà veneziano di Pisa alla Meloria, in AA.VV., Genova, Pisa e il Mediterraneo tra Due e Trecento, Genova 1984, pp. 211-227, specie pp. 218-226.
72. M. Roberti, Studi e documenti, II.
73. Sull'argomento resta fondamentale per l'epoca qui presa in considerazione lo studio di V. Lazzarini, Antiche leggi venete, pp. 6 - 11.
74. Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, p. 64, nr. LXXVII, doc. 1274 maggio 31.
75. Ibid., II, p. 49, nr. XXIIII, doc. 1256 maggio 27; pp. 80-81, nr. VI, doc. 1261 febbraio 16; p. 84, nr. XXIIII, doc. 1274 maggio 31; p. 86, nr. XXX, doc. 1275 dicembre 11; III, pp. 263-264, nr. 30, doc. 1290 aprile 13.
76. Ibid., II, p. 61, nr. LXVIIII, doc. 1271 dicembre 29; p. 84, nr. XXIIII, doc. 1274 maggio 31; p. 97, nr. XLVIII, doc. 1279 novembre 25.
77. Sul problema in generale, v. G. Cracco, Società e Stato, pp. 173-198; Id., Un "altro mondo", pp. 82-86.
78. La deliberazione del 1274, citata alla n. 74, stabiliva infatti che "persona veneta possit comparare a personis venetis, excepto a monasteriis, et eciam persona veneta possit comparare terram vel possessionem a suis feudatis, si haberet, et a suis propinquis".
79. Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, p. 395, doc. 1270 maggio 11.
80. Ibid., p. 426, doc. 1274 settembre 25.
81. Ibid., p. 162, nr. 106.
82. Ibid., p. 26, nrr. XXVII-XXVIII.
83. Ibid., p. 60, nr. LXIIII.
84. Ibid., p. 131, nr. XVIIII, doc. 1281 ottobre 23. La parte del maggior consiglio fu rinnovata il 27 maggio del 1292: ibid., III, p. 318, nr. 27.
85. Treviso, Biblioteca Comunale, ms. 678: Liber continens possessiones Venetorum antiquas, cc. 1-46. Per un cenno al manoscritto, cf. Michael Knapton, Venezia e Treviso nel Trecento: proposte per una ricerca sul primo dominio veneziano a Treviso, in AA.VV., Tomaso da Modena e il suo tempo, Treviso 1980, p. 71 n. 78 (pp. 41-78).
86. Angelo Marchesan, Treviso medievale. Istituzioni-usi-costumi-aneddoti-curiosità, I, Treviso 1923, p. 319.