I programmi figurativi della Chiesa ortodossa
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Tra IX e X secolo, ormai superata l’iconoclastia, si radicano i caratteri della cosiddetta “rinascenza” bizantina. Lo schema decorativo è impostato come rappresentazione dei dogmi cristiani, una creazione iconografica ispirata dalla liturgia nuova con attenzione a temi eucaristici e alla storia salvifica. Quanto è giunto fino a noi di questa produzione pittorica documenta la ricerca di modi e strumenti espressivi che fondono l’eredità antica e l’aspirazione ad un linguaggio plastico. Il prestigio e la forza dell’ideologia imperiale, l’autorità della chiesa ortodossa, l’estesa rete di rapporti culturali, politici ed economici costituiscono la base per l’ampia diffusione che l’arte di Bisanzio, con i suoi modelli e le sue forme, conosce tra la fine del XI secolo e l’inizio del XII. Essa si irradierà dunque verso gli estesi territori dell’ortodossia, grazie anche all’ausilio di maestranze costantinopolitane.
Superata la crisi iconoclasta tra la seconda metà del IX e l’inizio del X secolo, l’impero d’Oriente attua una lunga serie di offensive di riconquista territoriale e di iniziative atte a riaffermare il proprio prestigio e la propria supremazia. Il IX secolo, l’età della dinastia macedone (867-1056), è anche quello dell’espansione dell’ortodossia verso la Bulgaria (864), la Serbia (867-874) e la Russia (988), e di conseguenza dell’unificazione politica e in parte culturale nell’adozione di un’amministrazione, di un cerimoniale e di un’arte bizantina che non verranno mai totalmente abbandonati nei secoli a venire. L’iconoclastia è oramai superata e segnata dalla restituzione delle sacre immagini in Santa Sofia a Costantinopoli da parte dei “pii imperatori”.
Ed è in questo lasso di tempo, dunque, che si afferma il modello bizantino “classico”, universale e centralizzato, uniforme nella sua cultura e nella sua ideologia, e nel quale si radicano, pertanto, i caratteri della cosiddetta “rinascenza” bizantina. L’obiettivo dello schema decorativo che si impone dal IX secolo consiste nel dare rappresentazione in sintesi dei dogmi cristiani e della storia della Salvezza, secondo una disposizione gerarchica dei soggetti adeguata al tipo architettonico centralizzato prevalente nella cultura artistica del tempo, quello della chiesa a croce inscritta, le cui diverse parti assumono un significato simbolico specifico. Poiché la chiesa è un “altro cielo sulla terra”, come afferma il patriarca Fozio, simbolo dell’universo, la decorazione culmina necessariamente nel busto del Cristo Pantokrator (Creatore e Salvatore del mondo) figurato sulla cupola per dominare l’ambiente sottostante, dove si svolgono le principali funzioni liturgiche. La chiesa, come ribadisce Fozio, è “prefigurata nella persona dei patriarchi, annunciata in quelle dei profeti, fondata su quelle degli apostoli, consumata in quelle dei martiri, ornata da quelle dei vescovi”, pertanto, da una sfera celeste, cioè quella absidale del bema, si passa immediatamente a una terrena, rappresentata dallo spazio del naos, nelle cui pareti la storia salvifica si compendia negli episodi della storia evangelica.
Perduti, purtroppo, i grandi cicli a soggetto profano descritti dalle fonti, quanto è giunto fino a noi dell’ampia produzione pittorica successiva alla ripresa post-iconoclastica, documenta un’età di notevole tensione nella ricerca, di modi e strumenti espressivi elevati in continua elaborazione negli ambienti culturalmente egemoni della capitale, e da questi diffusi in ampie aree provinciali dell’impero. Lo stile dell’XI secolo, infatti, raggiunge una perfezione classica nella quale si bilanciano e si fondono nella maniera più riuscita l’eredità antica e l’aspirazione a un linguaggio plastico, capace di tradurre in immagini il mondo intelligibile e l’etica dell’ascesi che ne era il riflesso terreno. Ecco dunque che gli austeri personaggi raffigurati esprimono alla perfezione quell’ideale di rigore e di elevazione spirituale proprio dei Bizantini. I grandi cicli musivi di Hosios Lukas, Daphnì, Chios, Santa Sofia a Kiev, nonché quello pittorico di Santa Sofia a Ochrida, segnano, oltre alla volontà imperiale e della grande committenza iconofila di sottolineare il ritorno all’arte religiosa figurativa nei decenni immediatamente successivi al trionfo dell’ortodossia, anche l’inizio di una creazione iconografica ispirata dalla liturgia la cui influenza sulla pittura si intensificherà nei secoli seguenti.
Il linguaggio formale ricorda ora che ogni celebrazione rinnova l’opera di Salvezza, nuova attenzione viene portata dunque a temi eucaristici e ad aspetti patetici della storia salvifica attraverso la morte di Cristo. Infatti, è proprio nell’XI secolo che l’abside non accoglie più solo l’Incarnazione, ma anche la trasposizione liturgica della Cena, cioè la Comunione degli Apostoli introdotta nel secondo registro dell’abside, liturgia che ha luogo permanentemente in cielo e della quale Cristo è il celebrante, e pertanto considerata modello per quella terrena. La prima rappresentazione datata di questo soggetto nella pittura parietale si trova nell’abside della Panagia ton Chalkeon a Salonicco (1028), che nella cupola accoglie ancora un’Ascensione, seguita nel tamburo dai profeti e sui pennacchi dai cherubini, altro arcaismo che rimanda alle immagini dei pennacchi in Santa Sofia a Costantinopoli. La Crocifissione e l’Anastasis nel naos, appartenenti a un ciclo delle Grandi Feste, affiancano una tomba ad arcosolio, probabilmente il sepolcro del fondatore, introducendo una componente di carattere funerario nel ciclo pittorico. Quest’ultimo, anzi, viene accentuato dalla presenza nel nartece di un Giudizio universale (tema iconografico la cui evoluzione risulta appunto definita nell’XI secolo), interamente sviluppato e il più antico tra quelli datati.
Il katholikon del monastero di Hosios Loukas nella Focide, edificato sulla sepoltura di san Luca Stiriota all’inizio dell’XI secolo probabilmente su commissione imperiale, riceve intorno al 1040 circa uno tra i più importanti interventi superstiti di decorazione musiva (ma anche pittorica nelle cappelle, nella galleria e nella cripta) realizzati seguendo lo schema iconografico canonico. La cupola (ridipinta nel XIX secolo), infatti, è occupata dal Pantokrator circondato da quattro angeli, dalla Vergine e dal Battista, mentre sedici profeti si ergono nel tamburo. Nell’abside c’è la Vergine in trono con il Bambino e al di sopra, nella calotta del bema, figura la Pentecoste, un’abile soluzione in quanto il sacerdote si trova sotto questa calotta proprio durante la preghiera dell’epiclesi, in cui egli domanda al Signore di inviare lo Spirito Santo al fine di trasformare in corpo e in sangue di Cristo il pane e il vino della Comunione. Essendo ancora limitato a quest’epoca il numero delle scene evangeliche, nelle trombe del naos figurano solo quattro Grandi Feste: l’Annunciazione (perduta), la Natività, la Presentazione al Tempio e il Battesimo. Nel nartece, invece, come sarà di consuetudine, sono raggruppati gli avvenimenti che illustrano la morte e la resurrezione di Gesù: la Crocifissione, la Discesa al Limbo, la Lavanda dei Piedi e l’Incredulità di Tommaso. Il Cristo è raffigurato morto sulla croce al fine di manifestare la realtà e le conseguenze dell’Incarnazione, mentre la Vergine e Giovanni, testimoni della sua doppia natura, si limitano al puro raccoglimento non lasciando ancora trasparire tutta la sofferenza dell’evento.
L’intervento imperiale, ipotizzabile per il monastero della Focide, è certo nel caso della Nea Moni di Chios, i cui mosaici sono stati commissionati da Costantino IX Monomaco. Sono dunque la liberalità del basileus e l’arrivo di maestri dalla capitale al lavoro probabilmente con maestri provinciali, a consentire la realizzazione di una vasta e ricca decorazione musiva in buona parte conservata, conforme agli schemi dell’XI secolo. Nella cupola il Pantokrator (perduto) attorniato da nove angeli che ricordano i nove ordini angelici dello pseudo Dionigi l’Aeropagita, la Vergine raffigurata nell’atteggiamento dell’orante (anche se di consueto è più frequente nelle chiese palaziali) è nella conca absidale, mentre le scene delle Grandi Feste del naos trovano prosecuzione negli episodi della Passione del nartece interno, nella cui cupola compare uno dei più antichi esempi pervenuteci di raffigurazione della Vergine scortata da santi militari e martiri. Un primo accenno di drammaticità scenica si può riscontrare sia nella Crocifissione, dove le Marie volgendosi l’una verso l’altra per condividere il loro dolore avvicinano al viso le loro mani velate (gesto che già nell’antichità esprime la tristezza), così come nella Deposizione, nella quale Maria manifesta una certa tenerezza nei confronti del Figlio accostando la mano alla propria guancia.
Ad ogni modo la più elevata testimonianza dell’arte musiva dei primi decenni dell’età comnena va ricercata tuttavia fuori della metropoli, a Daphnì (1100 ca.), nell’Attica, anche se vi sono attivi maestri chiamati dalla capitale. Il katholikon del monastero intitolato alla Theotokos conserva infatti uno dei più importanti cicli musivi mediobizantini impostati secondo le linee generali del programma iconografico canonico e pervenutoci sostanzialmente completo, nonostante il grave sisma che danneggia l’edificio nel secondo Ottocento. La cupola, ancora una volta, è dominata dal busto del Pantokrator, mentre la volta del bema è occupata dall’Etimasia.
L’innovazione sta in un vero e proprio ciclo delle Grandi Feste, qui sviluppato ampiamente e accentuato oltretutto dalla presenza nel nartece del racconto apocrifo dell’infanzia di Maria, segnale del crescente irradiamento del culto mariano e della sua incidenza nell’iconografia. Questi mosaici riflettono il gusto degli ambienti aristocratici della capitale bizantina, nella nobiltà degli atteggiamenti, nella grazia dei gesti e nella disinvoltura dei movimenti, il disegno è sottile e le forme si arrotondano grazie a un modellato delicato.
Il prestigio e la forza dell’ideologia imperiale, l’autorità della Chiesa ortodossa, l’estesa rete di rapporti culturali, politici ed economici costituiscono la base per l’ampia diffusione che l’arte di Bisanzio, con i suoi modelli e le sue forme, conosce tra la fine del XI secolo e l’inizio del XII. Essa si irradia dunque verso gli estesi territori dell’ortodossia, grazie anche all’ausilio di maestranze costantinopolitane.
Il quarto grande ciclo musivo coevo giunto fino a noi, infatti, viene realizzato fuori dei confini dell’impero nel principato della Rus’ di recente cristianizzazione, nella chiesa di Santa Sofia a Kiev (1037-1046).
La disposizione delle rappresentazioni segue rigidamente il sistema iconografico mediobizantino; il Pantokrator e i quattro arcangeli dominano nella cupola principale, mentre nell’abside, introdotta dalla Deesis e dall’Annunciazione sull’arco trionfale, domina la figura protettrice della Vergine orante, che sovrasta la Comunione degli apostoli e una teoria di Padri della Chiesa (come il papa Clemente, evangelizzatore della Crimea) qui ancora raffigurati frontalmente, proprio come nella chiesa macedone di Santa Sofia a Ochrida. E proprio in quest’ultima, il programma decorativo rende testimonianza di un approfondimento teologico e simbolico al quale sono stati sottoposti gli affreschi in questione, voluti nell’XI secolo da Leone, già chartophylax di Santa Sofia a Costantinopoli e arcivescovo autocefalo di Ochrida. Una forte accentuazione del tema dell’Eucarestia occupa praticamente tutto il bema. Nella conca absidale figurano una Vergine in trono che tiene davanti a sé il Cristo benedicente in mandorla (del tipo della Vergine detta Nikopoia o Blachernitissa, rappresentato a partire dal V secolo sulle monete bizantine) e al di sopra una Deesis a mezza figura con angeli. Sotto compaiono la Comunione degli apostoli con il Cristo officiante al centro (è il momento della liturgia eucaristica che precede la distribuzione della comunione), più in basso una teoria di santi, anche qui frontali e immobili. La volta del bema è affrescata dalla visione apocalittica dell’Ascensione. Il simbolismo eucaristico di queste rappresentazioni è accentuato da un’inconsueta sequenza di scene anche veterotestamentarie (come il Sacrificio di Abramo) e dalle rare immagini di san Basilio il Grande e san Giovanni Crisostomo officianti, gli autori delle due principali liturgie della chiesa bizantina. Oltre a un ciclo del Dodekaorton in parte conservato, Santa Sofia accoglie anche ritratti di patriarchi e vescovi di Costantinopoli, Antiochia, Gerusalemme, Alessandria e Roma, i grandi centri della cristianità, in un evidente intento di sottolineare il carattere universale della Chiesa bizantina e rimarcare il ristabilimento dell’autorità di Costantinopoli nella regione al seguito della sottomissione dei patriarchi bulgari (976-1014).
Anche in un contesto culturale effettivamente provinciale, la pittura parietale di età macedone, accanto a opere di carattere nettamente popolare, continua a mostrare rapporti più o meno diretti con gli sviluppi delle tendenze artistiche dominanti, diffuse a partire dalle botteghe della capitale o di Salonicco, come effetto dell’azione centralizzatrice delle autorità religiose e civili o dell’intervento della committenza. Il quadro d’insieme delle opere giunte fino a noi, seppure mutilo e frammentario, appare comunque ampio e diversificato. Poco a poco inizia a prevalere la pittura parietale a fresco, che tende a sostituirsi al mosaico non solo per ragioni economiche, ma anche distributive e percettive in relazione allo spazio sacro. Estendendosi a tutte le superfici disponibili, l’affresco permette l’estensione e l’arricchimento dei cicli iconografici, la sua duttilità, inoltre, si presta meglio alla ricerca di espressività, di contenuti emozionali e psicologici, soprattutto in epoca comnena (1081-1204).
Molto ben documentata è pure la produzione artistica cappadocena riferibile all’XI secolo, come nel caso della nuova chiesa di Tokalı Kilise (tardo XI sec.). In generale l’iconografia segue ormai gli schemi dei programmi predominanti, pur mantenendo, come abbiamo visto, particolarità proprie e tratti comuni con le altre regioni cristiane più orientali.
In area greca, sia continentale che insulare, si scorgono tratti affini a quelli dei cicli di Hosios Loukas e Kiev, così come in alcune chiese contemporanee della Cappadocia (ad esempio El Nazar). Ancora, all’inizio dell’XI secolo nel katholikon del monastero della Vergine fondato a Creta sulla cima del monte Myriokephalon da Giovanni Xenos, la cupola accoglie come in una visione profetica il Cristo in trono fra due coppie di ruote, mentre sul tamburo personaggi biblici affiancano la Panagia e due angeli. Nella Cipro, bizantina fino alla conquista crociata del 1192, alcune delle tendenze stilistiche ed espressive, preannunciate a Daphnì si esprimono nella Panagia Phorbiotissa di Asinou (1105-1106), dove, per particolare rilevanza espressiva, emerge la scena della Dormizione della Vergine. Esiti simili si ripresentano poco più tardi nella chiesa del Salvatore (1110-1118) del complesso monastico di Koutsovendis, nella quale compare per la prima volta il tema del compianto sul Cristo morto, threnos. Poco dopo lo stesso soggetto apparirà nella cattedrale della Trasfigurazione del Salvatore sulla Miroža a Pskov (1156-1158), ma anche qui, come già nella chiesa cipriota, l’espressività emotiva appare ancora assai trattenuta.
I nuovi soggetti iconografici
Il classicismo bizantino dell’XI secolo ha una sua continuazione nel corso dei primi decenni del XII, con il predominio di uno stile grafico e dinamico nei movimenti dei personaggi, con una straordinaria animazione del panneggio che pare essere investito da un dinamismo proprio.
Un approfondimento del pensiero dogmatico (a suo tempo già trattato dagli iconofili) che porta a umanizzare la persona di Cristo e la sua rappresentazione accentuandone tutta la sofferenza, la comparsa di accese dispute cristologiche e l’evoluzione dell’ufficio eucaristico, suscitano la creazione di soggetti iconografici nuovi, come il Cristo di Pietà e la Madre addolorata che lo sorregge, l’Amnos nell’abside e il corteo dei vescovi officianti. Questi ultimi, inizialmente raffigurati frontalmente, solo verso la fine dell’XI secolo si volgono progressivamente verso l’altare, recando nelle mani dei phylacteria contenenti delle iscrizioni liturgiche che li definiscono come officianti, si vedranno allora giustapposte le due liturgie, celeste e terrena, e ciò al momento della preparazione e distribuzione dell’Eucarestia. Il primo accenno di questi mutamenti appare in Macedonia a Veljusa (1085-1093), dove solo Basilio e Giovanni Crisostomo sono rivolti verso il centro dell’abside occupato dal trono dell’Etimasia, figura anche dell’altare reale. La Salvezza, che diverrà effettiva solo al momento della Seconda Parousia, è ottenuta grazie al sacrificio sulla croce, per mezzo dell’Eucaristia offerta alla Santa Trinità. Nell’abside della chiesa di San Panteleimone a Nerezi (1164), in Macedonia, otto vescovi sono rivolti verso il centro dove compare il trono dell’Etimasia, affiancato da due angeli-diaconi che agitano ventagli liturgici. Qui per la prima volta si evidenziano chiaramente le connotazioni eucaristiche dell’Etimasia.
Il ciclo narrativo, che tra l’altro comprende una serie di episodi della Passione, rappresenta una delle espressioni più alte della pittura monumentale comnena, dal disegno severo e dalla stesura priva di esitazioni, dove la linea appare quale strumento d’espressione capace di solcare e scavare i volti, enfatizza drammaticamente le forme, i gesti e gli arti contratti dallo strazio del dolore e della morte, mentre le figure si allungano oltre il naturale raggiungendo forti accenti emotivi. Ed è proprio a Nerezi, nell’episodio del Threnos, che ritroviamo una delle pagine più intense della pittura medievale. Quella che ora diventa figurazione è una pietà profonda, dove il contatto fisico dei dolenti con il corpo esamine di Gesù ha un ruolo iconografico e compositivo essenziale, l’espressione del dolore conferma essenzialmente la realtà dell’Incarnazione. Anche nella Koimesis in San Nicola tou Kasnitzi a Kastoria (1160-1180), sempre in Macedonia, i toni drammatici e patetici sono enfatizzati attraverso analoghi procedimenti e rafforzati dall’uso di cromie cupe. Il senso del dramma si acuisce e si carica di accenti tragici nel Compianto di un’altra chiesa di Kastoria, la basilica dei Santi Anargyri, dove Maria abbraccia il corpo irrigidito del Figlio mentre le vesti ondeggiano mosse da un vento funereo e il paesaggio ondulato dello sfondo sembra scosso da un moto tumultuoso che accompagna il doloroso viaggio e, nello stesso tempo, interpreta iconograficamente il racconto evangelico. E proprio qui a Kastoria il trono dell’Etimasia viene sostituito dall’altare su cui erano posti calice, patena e pane eucaristico, una costante a partire dalla fine del XII e poi nel XIII secolo, come si vede a Bertubani (1212-1213) in Georgia, o a San Panteleimone (1259) a Bojana in Bulgaria.
Alla stessa cerchia della bottega attiva a Kastoria appartengono forse i maestri chiamati a decorare la chiesa macedone di San Giorgio a Kurbinovo (1191), dove il linearismo e la carica emozionale della pittura comnena del tardo XII secolo sono portati qui a un’interpretazione estrema, e dove compare per la prima volta un motivo che diventerà quasi d’obbligo nel registro inferiore dell’abside, quello dell’Amnos (Agnello immolato), chiamato anche Melismos (cioè divisione, in riferimento alla Spartizione del pane eucaristico): un bambino benedicente e parzialmente coperto da un velo liturgico segnato da una croce è disteso sull’altare (poco più tardi questo bambino si rimpicciolisce e ringiovanisce e viene posto all’interno di una patena), le figure dei santi vescovi convergono verso di lui inchinandosi leggermente, mentre una patena con il pane eucaristico, talvolta segnato con l’asterisco, e un calice sono posti sempre sull’altare. Questa la visione dell’Agnello immolato, dapprima evocato da Isaia (57, 7), poi dal Vangelo di Giovanni (1, 29) e, infine, dall’Apocalisse (5, 6 e 13). La liturgia si ispira a questi testi durante l’ufficio della prothesis: il momento in cui il celebrante taglia le particole nel pane eucaristico è la fine della Proskomidie, quando il pane e il vino sono divenuti il corpo e il sangue di Cristo. L’immagine manifesta chiaramente questo rituale, cioè la realtà dell’Eucaristia, il bambino figura il pane eucaristico, richiamando quello che è veramente il corpo di Cristo, interpretazione questa che trova conferma in numerosi testi patristici del tempo.
La variante di Nerezi si irraggia in un ambito assai ampio, di cui gli affreschi della chiesa serba di Djurdjevi Stupovi (1175) fondata da Stefano Nemanja nelle vicinanze di Novi Pazar, sono un buon esempio e possono considerarsi come una versione balcanica del programma decorativo “canonico”.
L’influenza bizantina appare determinante anche nell’arte bulgara dell’XI e XII secolo, come per esempio nella chiesa-ossario del monastero di Petritzos a Bačkovo, fondata nel 1083, i cui affreschi del primo periodo, databili fra la fine dell’XI e il terzo quarto del XII secolo (a seguire quelli del XIV sec. che interesseranno il nartece della chiesa) vengono eseguiti da maestri che, pur se formatisi forse a Costantinopoli, tuttavia potrebbero aver risentito di forme sceniche ed espressive da aree periferiche, come la Cappadocia. La funzione funeraria dell’edificio giustifica il suo programma iconografico che vede una Deesis nell’abside della cripta, quale preghiera d’intercessione presso Cristo giudice collocato nella conca absidale, e di fronte una scena assai rara, la Visione delle ossa di Ezechiele, interpretata come un annuncio della resurrezione dei defunti.
Anche nel regno cristiano della Georgia, fra il XII e XIII secolo il principale modello di riferimento per i sovrani e l’aristocrazia rimane quello imperiale bizantino. Nella chiesa della Madre di Dio del complesso monastico a Gelati (Imeretia) fondato nel 1106, l’intenzionale ripresa della magnificenza costantinopolitana è palese nel mosaico absidale (eccezionale nel suo genere in quanto ormai soppiantato dall’affresco) della Vergine Nikopoios stante, affiancata da due arcangeli (1125-1130 ca.) dove, invece, prettamente georgiana appare la variante iconografica e la gamma coloristica. Negli affreschi della chiesa della Dormizione a Vardzia (1184-1186), invece, Giorgio III e Tamara di Georgia sono raffigurati con le vesti cerimoniali del basileus di Costantinopoli.
Nella diffusione mediterranea, in epoca tardocomnena, dei modelli costantinopolitani, la chiesa cipriota della Panagia tou Arakou a Lagoudera (1192), realizzata l’anno successivo l’occupazione dell’isola da parte dei crociati, ha un ruolo indiscusso. Lo provano la forma abbreviata della Presentazione di Cristo a Simeone e la tipologia dell’icona murale della Vergine Kykkotissa. L’irradiazione verso l’Oriente e l’Occidente, per via di pittori, di modelli o di opere, è testimoniata, fra l’altro, da un’icona dell’Annunciazione nel monastero di Santa Caterina al Sinai e dalle tavole dipinte o anche affreschi dell’Italia meridionale, già duecenteschi, come a Santa Maria delle Cerrate nel Salento pugliese. In Italia meridionale, come noto, è comunque la Sicilia normanna a segnare la penetrazione più incisiva dell’arte bizantina, con i suoi mosaici e anche icone.
Gli anni finali del XII secolo segnano la creazione di un capolavoro di pittura murale universalmente assegnato a pittori costantinopolitani: San Demetrio a Vladimir (1194-1197). Qui appare particolarmente intensa l’attenzione ai caratteri espressivi e psichici dei personaggi, degli apostoli e, sorprendentemente, di alcuni angeli del Giudizio Universale. È un’intensa tristezza che non si era mai riscontrata nei messaggeri celesti, se non nelle scene della Passione, qui anticipando quel fenomeno di umanesimo che segnerà l’arte del XIII secolo, a Oriente come a Occidente.