Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Intorno alla metà del Settecento una coerente visione realistica e un’accentuazione dell’aspetto morale dei soggetti caratterizza alcuni importanti episodi figurativi. Ciò che distingue la pittura di artisti quali Chardin, Liotard, Hogarth, Greuze e Longhi è il fatto che la realtà viene registrata con evidenza ottica assoluta, garantita dall’obiettività della percezione visiva e da un atteggiamento di fondo disincantato e antiretorico. Si tratta sempre di una tendenza antitetica rispetto ai ritmi vorticosi e ai contenuti cortigiani del rococò, lo stile che trionfa nelle corti e nelle accademie; in tal senso si può dunque parlare di pittura illuminista.
La pittura illuminista in Francia
L’opera di Jean-Baptiste-Siméon Chardin si caratterizza per una concezione del vero dotato di autonoma e immediata poesia e di rigore morale. Proprio questa concezione motiva la grandezza e la modernità di Chardin, ma anche la limitata comprensione della sua opera da parte dei contemporanei, non ancora pronti alla disarmante verità e all’apparente modestia dei suoi soggetti.
Maturata già nella prima metà del Settecento, l’arte di Chardin si svolge parallelamente alla crescita del movimento illuminista in Francia; l’artista dà una voce pittorica del tutto autonoma alla rivoluzionaria aspirazione realistica promossa dall’Illuminismo che costituisce l’ineliminabile scenario storico dei suoi traguardi artistici.
La ricerca degli effetti che la luce naturale ha sugli oggetti diventa in Chardin poesia delle cose comuni, sorprese nella loro essenza luminosa. Nitido e delineato, il segno dell’artista paga un chiaro tributo alla pittura olandese del Seicento – specialmente alla limpidezza cristallina di Johannes Vermeer – con la novità di un fare dimesso e lirico al tempo stesso. Superando così una certa analiticità dei fiamminghi, Chardin apre la grande tradizione della pittura francese ottocentesca fino a Cézanne, memore dei prodigi di equilibrio tra forme diverse che le tele di Chardin – in primo luogo le nature morte – sanno realizzare.
Jean-Étienne Liotard
Incisore, miniatore, pastellista e pittore, ma anche raffinato collezionista, mercante d’arte e grande viaggiatore, Jean-Étienne Liotard rappresenta al meglio la figura, tipicamente settecentesca, dell’artista cosmopolita. I viaggi in Paesi orientali contribuiscono a rafforzare quei valori illuministi di tolleranza, solidarietà e cosmopolitismo che portano Liotard ad abbigliarsi alla turca, con la lunga barba, come appare nell’Autoritratto eseguito alla corte viennese (1743; Dresda, Gemäldegalerie).
Nel suo Trattato dei principi e delle regole della pittura (Lione, 1781; manoscritto autografo presso l’Archivio di Stato di Ginevra), l’artista sostiene che la pittura deve rivaleggiare con la natura: coi suoi artifici essa guida alla comprensione della verità, anche meglio della natura stessa.
Una pittura, dunque, alla ricerca della più assoluta verità, sulla scorta delle correnti sensiste francesi e dello spirito razionalista dell’Encyclopédie. Infatti Liotard è amico e in contatto con Bernard Le Bovier de Fontenelle, Voltaire e Rousseau: di tutti e tre dipinge i ritratti, purtroppo perduti.
Dimenticato dopo la sua morte, Liotard viene parzialmente recuperato dalla critica di fine Ottocento. Ma è solo in anni recenti che un filone di studi ha fatto luce sulla sua carriera artistica, autonoma anche rispetto alla tradizione dei pastellisti francesi che, specialmente con Maurice Quentin de La Tour, si distinguono per l’intima verità della pittura di tocco dalla tradizione del rococò più esteriore di artisti come Jean Marc Nattier.
Liotard sfugge la notazione psicologica per non indulgere a valori soggettivi, imponendosi così quella distanza dal soggetto come unica garanzia di una moderna visione realista. L’artista tende a evitare gli accenti eleganti insiti nella pittura sfumata e cangiante, prediligendo gli sfondi chiari su cui delinea piani nitidi, illuminati da secchi contrasti. È il metodo empirico trasferito in pittura: la conoscenza avviene attraverso l’esperienza e l’esperienza coincide con l’analisi del mondo circostante.
Non è dunque un caso che il suo Ritratto di Madame d’Epinay piaccia moltissimo a Voltaire e più tardi ottenga il plauso non solo di un grande artista come Jean-Auguste-Dominique Ingres, ma anche di Gustave Flaubert; questi infatti trova nel dipinto di Liotard il parallelo pittorico della spietata analisi che in letteratura egli applica ai suoi personaggi.
Jean-Baptiste Greuze e la pittura morale
La nuova apertura alla realtà è anche alla base di un filone pittorico in rapporto con gli intenti edificanti del moralismo illuminista di Diderot e Rousseau. La solidarietà viene dunque considerata fatto interiore e spontaneo, come la bellezza, secondo una morale istintiva e sentimentale con risvolti preromantici.
In perfetta sintonia con La nouvelle Héloïse di Rousseau (1761) è la pittura di Jean-Baptiste Greuze, tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, come dimostra Il contratto nuziale (1761; Parigi, Louvre) che descrive la vita rurale secondo l’aspirazione sentimentale delineata nel celebre libro di Rousseau. La pittura dell’artista si fa successivamente ripetitiva nei modelli e nell’insistita accentuazione moralistica dell’aspetto idilliaco, degli affetti e del mondo incorrotto dei semplici. Nei dipinti di Grueze la visione della realtà diventa una sorta di epica del quotidiano svuotata di forza rivoluzionaria, ma importante poiché inaugura la tradizione del realismo borghese ottocentesco.
La pittura illuminista in Inghilterra
La pittura morale che si delinea in Inghilterra con William Hogarth ha una ben diversa incidenza sociale rispetto al filone francese capeggiato da Greuze.
I soggetti di Hogarth, delineati con sapienza registica, hanno forza d’indagine e di denuncia morale, sostenuta da una satira sociale che non scade mai nel moralismo. Il successo delle sue stampe satiriche è immediato: il primo nucleo, La carriera di una prostituta, viene inciso da dodici dipinti (1732). Ma le stesse qualità si ammirano anche nei ritratti, in particolare nella serie comprendente I domestici di casa Hogarth o la Venditrice di gamberetti (conservati alla National Gallery di Londra). Hogarth insorge contro il gusto del passato tramandato dalle accademie, esaltando quel rinnovamento delle arti strettamente connesso alle trasformazioni sociali e morali.
Nel 1753 l’artista pubblica le sue idee estetiche nell’Analisi della Bellezza. La sua arte diviene così un modello per la pittura morale inglese e per molta pittura europea tra Sette e Ottocento, compresa quella di David e Goya. Anche Diderot conosce e apprezza l’opera di Hogarth che, divenuto ormai personalità di spicco nella giovane scuola artistica inglese, finirà per imporre le sue posizioni su quelle – ancora legate alle gerarchie dei generi artistici – di Sir Joshua Reynolds, portabandiera della ritrattistica ufficiale.
Anche la novità di The Beggar’s Opera è percepita e apprezzata; si tratta di una serie di repliche di una scena dell’omonimo dramma di John Gay, rappresentato in quel tempo a Londra. Hogarth introduce così un genere di favoloso successo in Inghilterra, quello di rappresentazioni tratte dalla vita del teatro e degli attori, destinato a incarnare l’orizzonte epico della classe borghese emergente.
Anche i Racconti morali vengono concepiti come scene di teatro, serie in costume connesse con le teorie di Shaftesbury sui compiti morali dell’arte.
La filantropia è un’altra espressione dell’impegno sociale della classe media che ama proiettare nelle opere d’arte il desiderio di bontà e tutte le qualità d’animo che garantiscono l’ascesa e il miglioramento rispetto al passato. Ne è l’esempio il Capitano Coram di Hogarth, realizzato per l’Ospedale dei Trovatelli di Londra.
Johann Zoffany e le conversation pieces
In stretto rapporto con l’esigenza autorappresentativa della classe borghese emergente è anche la pittura di conversation pieces. Il genere mette radici profonde in Inghilterra, adattandosi perfettamente a incarnare quei valori di domesticity – vita familiare colta fuori dai canoni ufficiali – cari alla classe borghese, ma graditi anche ai nobili e alla corte durante il regno di Giorgio III. Lo stesso Hogarth è maestro di conversation pieces e anche il tedesco naturalizzato inglese Johann Zoffany – personalità significativa tra gli esponti della pittura illuminista – deve a questo genere la sua grande popolarità.
Il successo londinese di Zoffany è strettamente legato alla sua attività per il celeberrimo attore David Garrick che ne fa il maestro della pittura ispirata a rappresentazioni teatrali, le cosiddette theatrical conversation pieces. La pittura, con un enorme salto di modernità rispetto al passato, diventa così strumento di pubblicità e promozione, in collegamento con un settore – quello teatrale – che rispecchia le trasformazioni e le esigenze culturali della classe borghese.
Sulla natura verista della sua pittura ha messo l’accento lo storico dell’arte Giuliano Briganti. Lo studioso si sofferma in particolare sul dipinto John Cuff e il suo assistente (1772; Londra, Kensington, Collezioni Reali), indicandone il carattere di analisi realistica affidata alla qualità indagatrice della luce che realizza una pittura speculare fino ai limiti del surreale. Zoffany opera una netta cesura con la narrazione idealizzante del barocco e anche nelle sue numerosissime scene di conversation pieces il pittore attua una scelta di taglio analitico e cronachistico. Tutto è puntualmente elencato: la tela è l’inventario della realtà descritta, tanto che in molti casi si possono ancora riconoscere negli ambienti originali gli arredi dipinti, come avviene ad esempio nelle stanze di Buckingham Palace, sfondo del quadro con la regina Carlotta e i due figli maggiori (1765 ca.; Londra, Buckingham Palace). Una tecnica di raffinata trasparenza e levigatezza dell’immagine plasma cose e persone con un altissimo grado di definizione. La pittura di Zoffany nasce, infatti, sugli stessi presupposti di verità retinica delle vedute di Canaletto.
La pittura illuminista in Italia
Nel 1953 lo storico dell’arte Roberto Longhi dedica una celebre mostra a I pittori della realtà in Lombardia con un saggio in catalogo intitolato Dal Moroni al Ceruti.
Longhi istituisce nuove coordinate di lettura per alcuni aspetti dell’arte italiana della prima metà del Settecento. Sono definiti, così, “pittori della realtà” artisti in linea con una visione ispirata ai valori che saranno dell’età illuministica, ma anche artisti con una ben precisa tradizione dell’Italia settentrionale – precisamente lombarda – che andrebbe dal pittore cinquecentesco Giovan Battista Moroni fino a Giacomo Ceruti, passando attraverso Vittore Ghislandi.
Un maestro di verità: Giuseppe Maria Crespi
Non poco influisce su Ceruti e su Ghislandi l’esempio bolognese della pittura di Giuseppe Maria Crespi, pienamente matura già sullo scorcio del Seicento.
Isolato nell’ambiente dell’Accademia Clementina di Bologna, saldamente ancorata alla fulgida stagione carraccesca e alla sua armonia formale, Crespi risulta immediato e vero anche nelle tematiche mitologiche, come negli affreschi di palazzo Pepoli a Bologna (1691). Ma la sua impostazione realistica si esprime con maggior forza nei soggetti tratti dal quotidiano, dove i suoi brani di vita si impongono per una verità poetica e assoluta che, su un diverso versante culturale, può essere confrontata con l’opera di Chardin.
Vittore Ghislandi detto Fra’ Galgario
Sullo stile di Ceruti influisce l’esempio del bergamasco Vittore Ghislandi, detto Fra’ Galgario dal nome del monastero in cui era frate minimo, l’altro grande protagonista del filone realista lombardo settecentesco delineato da Roberto Longhi.
Ghislandi può essere infatti considerato uno dei maggiori ritrattisti del secolo in Italia e anche in Europa. La grande tradizione della pittura veneta, da Tiziano a Veronese, ha un ruolo decisivo nella sua brillante stesura cromatica che conserva il segreto delle mirabili lacche.
Nuova e originale è la sua indagine della personalità che nei ritratti emerge con impietosa ed empirica evidenza nel rapporto causa-effetto tra le caratteristiche morali e quelle fisiche, con una lucidità e un rigore che anticipano quelli illuministi francesi. E Giovanni Testori (1967), che al Ghislandi ha dedicato numerosi studi, puntualizza come con efficacia personalissima: “[…] sciarpe, nastri e velluti; che han talvolta la pulsazione e l’orrore d’una ghigliottina che s’approssimi, come al rallentatore, al collo di dame e damazze pettegole, svampite, insidiosissime e bigotte o di gentiluomini dai labbri marci per abusi erotici neppur più solleticanti”. Osservando i nobili locali, principali committenti dei suoi ritratti, si avverte un’atmosfera di disfacimento, vecchiaia storica più che fisiologica, boria ostentata e presunzione, che evoca la galleria di ritratti della classe egemone in crisi, tracciata di lì a poco – in poesia – da Giuseppe Parini ne Il Giorno.
Giacomo Ceruti
Tra gli anni Quaranta e Cinquanta del Settecento Giacomo Ceruti, milanese di nascita ma attivo nel bresciano, invece, sviluppa una coerente poetica figurativa legata alla realtà popolare, resa con una materia pastosa e densa di ombre, veicolo di struggente verità.
Complesse sono le fonti della pittura del Ceruti: l’interesse per il mondo dei derelitti, per cui è soprannominato “il Pitocchetto”, si fonda sui modelli delle stampe nordiche, da cui derivano molti dei temi trattati (Le cucitrici, 1720-1730 ca.; Collezione privata). Da tenere presenti anche i fermenti giansenisti diffusi all’epoca nell’Italia settentrionale e che si accompagnano a un clima di diffusa solidarietà sociale.
Va comunque notato che i committenti dei dipinti del Ceruti, incentrati sulla vita dei derelitti, sono pur sempre nobili, mossi da ideali riformisti. Ciò che interessa Ceruti nel rendere i temi della pittura di genere è l’intonazione quasi monocroma e l’evidenza ottica che centra il soggetto, presentando personaggi di una ben precisa e tragica realtà.
Pietro Longhi
Intorno alla metà del secolo, mentre in Europa trionfa il prezioso rococò lagunare, dall’ambito artistico veneziano si stacca l’opera di Pietro Longhi, quella del figlio Alessandro e di Giandomenico Tiepolo, figlio di Giovambattista, straordinario narratore di costume.
Vicino a scrittori aperti e illuminati quali Carlo Goldoni e Carlo Gozzi, Pietro Longhi conosce probabilmente l’opera di Hogarth – e in genere la pittura di conversation pieces inglese – da artisti-viaggiatori, oltre che attraverso le stampe. Con questi presupposti e grazie alla conoscenza delle scene di genere, diffuse a più livelli in Italia, il pittore veneziano offre una rappresentazione vivace e veritiera della società veneziana con un sapore, coscientemente costruito, di commedia goldoniana. La verità delle sue scenette si può paragonare, per lo spirito obiettivo che le anima, alla pittura di vedute di Canaletto e Bernardo Bellotto. Una certa ripetitività d’impostazione oltre a una rigidezza di pose rispondono, infatti, al dato oggettivo di una società in crisi, cui ormai resta ben poco da comunicare.
Gaspare Traversi
Una società composita che prende atto di nuove stratificazioni sociali, accentuando gli aspetti quotidiani nella loro violenza di vita, traspare nelle opere del napoletano Gaspare Traversi.
Personalità artistica messa a fuoco da Roberto Longhi, Traversi elabora una pittura naturalista di grande impatto luministico e drammatico che trova il suo ascendente pittorico nella tradizione caravaggesca e in una cultura che risente delle cosiddette bambocciate, genere in voga nel Seicento. La tematica dell’artista giunge fino alla denuncia sociale grazie a un’osservazione lucida, ma non spassionata, delle vicende emotive e quotidiane delle classi medie e popolari. E proprio di queste Traversi documenta i ruoli sociali emergenti, come il medico del dipinto Il ferito della Galleria dell’Accademia di Venezia.