Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Da Elvis in poi i cantanti rock godono di un’aura particolare che li pone al di sopra dei fan. Il modo di vestire, di muoversi e infine lo stile di vita affascinano e permettono processi di identificazione. Si arriva a una difficile scissione tra persona e personaggio, come nel caso di David Bowie e della creazione del suo alter ego Ziggy Stardust.
Il divismo
Vuoi essere una rock’n’roll star? Prendi una chitarra, impara a suonarla, poi con capelli lunghi e pantaloni attillati vai in città, trova un agente e vendi l’anima all’industria: nel giro di due settimane andrai in classifica e avrai le ragazze ai tuoi piedi. Così recitava il testo di So You Want To Be A Rock’n’Roll Star dei Byrds che nel 1969 fotografa il divismo rock. Nel Novecento il fenomeno del divismo è esploso precedentemente nell’ambito del cinema con stelle hollywoodiane del calibro di Mary Pickford e Rodolfo Valentino. Nei territori del grande schermo manterrà il proprio dominio fino alla metà degli anni Sessanta quando il ruolo assunto dalla musica giovanile nella società lo sostituirà per il periodo di almeno un decennio. “Dove il reale incontra l’immaginario, lì nascono i divi moderni” afferma Edgar Morin ne Lo spirito del tempo (1962).
La cultura di massa ha avvicinato le divinità e le ha rese umane moltiplicandone le relazioni con il pubblico. Imitabili e inimitabili al tempo stesso, esse sono eroi-divinità dotati di una duplice natura che genera mito, dunque proiezione, e assieme possibilità di identificazione. Ma da dove nasce il divismo? I divi sportivi sono eroi moderni che compiono imprese atletiche e agonistiche. Nel cinema l’immaginario viene proiettato sul reale, dai ruoli impersonati dagli attori.
Le rockstar possiedono uno statuto differente rispetto agli attori del cinema perché non sono caratterizzate dalla compresenza tra rappresentazione finzionale e mimesi realistica di cui gode un attore, il quale può essere assieme sé e altro. Essere un divo musicale, una rockstar, vuol dire accedere a uno stile di vita privilegiato, spesso assieme al proprio gruppo, o rock band, facendo musica, divertendosi, girando il mondo con migliaia di fan ovunque, ma soprattutto vivendo una vita diversa dallo schema tradizionale. “Viviamo tutti in un sottomarino giallo, facciamo una vita comoda, ognuno di noi ha quello che gli serve” cantano i Beatles in Yellow Submarine. D’altra parte la rockstar non sempre recita una parte ma, trovandosi su di un palco a realizzare una performance, di certo ricopre un ruolo nel mettere in atto quella convenzione artistica chiamata canzone. La rockstar enuncia un discorso che, nell’aprire le virgolette dicendo “How does it feel?” o anche “Voglio stringerti la mano” mette in atto una scissione. Proferendo una frase il cantante enuncia se stesso: è Bob Dylan (1941-) che parla, ma nello stesso tempo è una voce altra, un personaggio senza nome contenuto nelle virgolette che non può essere un vero sé. La rockstar incarna un’ambiguità che rimane irrisolta anche se proferisce frasi come: “Mi chiamo Jovanotti faccio il deejay, non vado mai a dormire prima delle sei” (Jovanotti, Gente di notte). Si tratta in ogni caso di un’operazione finzionale di reintegro di una soggettività precedentemente scissa. Se questo carattere finzionale è comune a ogni forma di canzone, nel caso della rockstar diventa il luogo della celebrazione di un rituale di comunicazione a due vie tra il divo e il fan, in cui avvengono continui spostamenti di livello tra realtà e finzione. In questo modo la rockstar costruisce un piano di discorso vero-finzionale in cui non c’è differenza tra ruolo impersonato e vita quotidiana. Marilyn Manson, intervistato nel backstage o a casa propria, continua a essere Marilyn Manson e non più Brian Warner, perché il suo non è più solo un “nome d’arte”. Ciò vale per uno pseudonimo che funziona come un apparato scenico, ma ugualmente per gli U2 o per Bruce Springsteen che pure celebrano il mito della loro autenticità. La separazione tra arte e vita, da un certo punto di vista, viene a cadere. Forme parossistiche di adorazione e di proiezione sull’idolo hanno condotto a casi in cui la frustrazione del fan, dovuta al non poter entrare nella vita dell’idolo, è sfociata in una distruzione firmata. È il caso di Mark Chapman che, nel 1980, dopo aver coltivato anni di idolatria, ucciderà John Lennon per poter porre a imperitura memoria il proprio nome accanto al suo idolo.
Vita e morte da rockstar
In quanto modello o stile di vita, la rockstar indica un individuo o un gruppo di persone dotati di una celebrità che consente loro di apparire in tv, sulle copertine dei settimanali, sulle magliette. Essa intrattiene una relazione stretta con il mondo della stampa, strumento di promozione e di verifica allo stesso tempo. Riceve guadagni impensabili per un giovane individuo, può permettersi comportamenti eccentrici contro le regole borghesi e spesso contro il buon senso. La rockstar sfida le regole del costume e vive una vita ai limiti della salute psico-fisica. Riesce a generare nel proprio pubblico meccanismi di identificazione e personalizzazione (voler essere una rockstar), e assieme di adorazione (voler entrare in contatto con la rockstar). Poter essere visti dovunque, su riviste, quotidiani, programmi televisivi o poster, ma insieme non voler essere toccati.
Al generale meccanismo della celebrità mediatica testé descritto, nel caso della rockstar va aggiunto il cliché dello stile di vita dissoluto. Cliché, va sottolineato, che spesso ha funzionato come profezia autoavverante. La rockstar per definizione vive oltre i limiti, proiettata verso il piacere con ampia disponibilità di denaro, sesso e droga. Per ricevere così tanto deve dare in cambio altra visibilità: la propria immagine, la propria vita privata, il proprio rituale performativo. Deve cioè esibirsi in performance altamente ritualizzate. È il prototipo di un vero e proprio mito della celebrità impostosi nella contemporaneità e da Andy Warhol fissato nella frase “Tutti possono avere 15 minuti di successo” e trasfigurato poi nei suoi ritratti seriali di Marilyn Monroe (1926-1962) e, appunto, Elvis Presley.
A detenere il diritto di primogenitura nella definizione dello stile di vita da rockstar sono forse i Rolling Stones: sesso come piacere, morte come autodistruzione, droga come loro sintesi. Il leader Mick Jagger, ma anche gli altri componenti, sono sempre stati al centro del gossip per impetuose e simultanee relazioni con avvenenti modelle, nonché per plurimi matrimoni, e tutti loro hanno ripetutamente ammesso di fare uso di droghe. Un componente del gruppo, Brian Jones, muore annegato nel 1969 in circostanze oscure. Un loro concerto ad Altamont sempre dello stesso anno, vede l’uccisione di un ragazzo del pubblico, ripresa tra l’altro nel film Gimme Shelter.
C’è poi il caso dei supergruppi, tra cui Cream e Led Zeppelin, band formatesi assemblando individualità già precedentemente note, spesso per un loro virtuosismo sui generis. Nel supergruppo si ritrovano frequentemente i comportamenti più tipici della rockstar, quasi ne fossero un distillato. Celebri ad esempio le devastazioni degli alberghi da parte di John Bonham, batterista dei Led Zeppelin, così come, purtroppo, la sua fine anticipata. La morte prematura dovuta ad abusi di sostanze diviene un vero e proprio topos della storia del rock che vedrà coinvolti due fondamentali idoli quali Jim Morrison e Jimi Hendrix (1942-1970).
Fandom
Perché esista una rockstar deve esistere però un contratto stipulato con i fan (termine inglese difficilmente traducibile con sostenitori, appassionati) in cui è previsto che caratteri privati o pubblici, scenici o dietro le quinte, tutti compongano un unico patrimonio simbolico. I meccanismi di identificazione si proiettano su un insieme di significati che vanno dalle foto ai videoclip, dall’abbigliamento alle pettinature, dai versi delle canzoni alle loro musiche. È di quest’identità unificata e composita che è fatto il meccanismo comunicativo della rockstar. Si potrebbe pensare che il dislivello di ruolo tra rockstar e fan comporti una sorta di passività da parte del pubblico ma in realtà i fan compiono pratiche attive di appropriazione e rielaborazione dei materiali dei loro idoli. Il sociologo John Fiske parla al riguardo di “produttività semiotica” intendendo l’attitudine della cultura popolare a generare “significati, identità sociali ed esperienze sociali” a partire da prodotti culturali. Casi analoghi al riguardo si presentano in fenomeni audiovisivi quali il Rocky Horror Picture Show oppure Guerre Stellari o Star Trek, i quali si costituiscono una sorta di mondi di origine dai quali le comunità di fan producono testi di ogni sorta.
Sul rapporto con i fan rimane memorabile il livello di delirio generato soprattutto dalle fan dei Beatles, visibile in ogni loro filmato dell’epoca, che va dal 1964 al 1966. Dalle urla ai pianti, agli svenimenti, fino alle pozzanghere di urina lasciate sugli spalti, la beatlemania ha assunto connotati ben superiori all’isteria da star generata precedentemente da Frank Sinatra o Elvis. Per adolescenti che sono considerate la quintessenza della purezza, simili atti rappresentano quella che è stata definita la prima forma di rivoluzione sessuale femminile.
Riguardo ai Beatles una caratteristica significativa, perché eccentrica dal punto di vista dell’estetica borghese pre-controculturale dominante all’epoca, è la lunghezza dei capelli. D’altro canto essi sono al contempo educati, con accento inglese e ben vestiti. Ne deriva una capacità di seduzione basata su un misto di estrosità e accettabilità erotica quasi effeminata. Anche le cosiddette boy-band, dai Take That ai Blue, rappresentano significativamente una seduzione del tutto non-perturbante.
Si diventa dunque divi della musica rock anche grazie ad attributi e a caratteristiche efficaci, che mutano di volta in volta, ma che prevedono delle costanti, visto che fan di differenti rockstar manifestano comportamenti similari. La rockstar ad esempio tende di norma a porsi su un livello divino, che è necessariamente superiore e separato rispetto al proprio pubblico. L’eccezione che conferma la regola è quella dei Grateful Dead che, ponendosi alla pari con il proprio pubblico, hanno vissuto un’esperienza condivisa assieme alle Deadheads, comunità anarchica viaggiante, tuttora viva, che ha seguito i loro spostamenti nel corso di tutti i trentennali tour.
Performance e rappresentazione
Dopo lo svanire di alcuni miti fondamentali negli anni Sessanta, gli anni Settanta si presentano poveri di promesse. C’è una richiesta di nuove narrazioni e forse per questo il comportamento da rockstar in quanto mito viene tanto più valorizzato e idolatrato dai fan quanto più si arricchisce di connotati teatrali e finzionali, come nel caso dei Queen o di David Bowie. Quest’ultimo coglie nel trasformismo una possibilità che si adatta perfettamente alle convenzioni del rock. Andare a fondo significa svelare il trucco e allo stesso tempo ricostruire nuovi miti abbattendo quelli vecchi. La rockstar può essere un’identità vicina, ma allo stesso tempo lontanissima dal suo pubblico, anzi talvolta può arrivare da un mondo Altro, come un alieno che proviene dallo spazio cosmico. Elementi di colore, transgender e paillettes sostituiscono in Bowie il mito dell’autenticità con la teatralità e il gioco della finzione. Egli importa nel rock una babele discorsiva: music-hall, mimo, arti visive. Inventa una rockstar fittizia venuta da Marte di nome Ziggy Stardust che è assieme stereotipo, caricatura e riflessione sul ruolo tra fan e rockstar. La soglia tra finzione e realtà viene abbattuta quando, al termine di uno show all’Hammersmith Odeon di Londra nel 1973, Bowie-Ziggy annuncia il proprio ritiro dalle scene tra le disperate lacrime del pubblico. Un atto di straniamento e di meta-narrazione rock si trasforma in realtà in una macchina mitopoietica. Ziggy si è incarnato in Bowie e questi non potrà più liberarsene.
I concerti delle rockstar anni Settanta diventano musical cinematografici con effetti visivi e teatrali tesi all’impressione spettacolare sul pubblico. Bowie importa scene tratte dal film Metropolis, i Rolling Stones adoperano enormi specchi, Pink Floyd, Yes, Who si servono di laser, luci, effetti totalizzanti. Costoro saranno poi investiti dalla rivoluzione punk che in loro individuerà la degenerazione della ribellione rock verso un apparato economico e simbolico di tutt’altra natura. Nella rockstar sarà individuata una figura più affine a un capriccioso divo dello star-system hollywoodiano che all’eroe di una generazione. Un’immagine vagamente autoironica si può ritrovare nella performance di Bruce Springsteen nel concerto antinucleare del 1979, No Nukes in cui “il Boss” finge di non riuscire più a reggersi in piedi, perché la vita della rockstar lo sta consumando. La forma decadente e conclusiva del mito della rockstar si può invece cogliere con l’ingresso di alcuni personaggi nella reality tv, genere supremo per attitudine allo svuotamento di senso. John Lydon, meglio conosciuto come Johnny Rotten, ex membro dei Sex Pistols, coerente con l’aspetto anarco-spettacolare del punk, nel 2004 fa l’ingresso e subito viene allontanato da un reality chiamato per ironia della sorte I’m A Celebrity, e caratterizzandosi per lo stesso turpiloquio esibito alla BBC nel 1976. La rappresentazione tragica della fine della rockstar si può invece cogliere dal 2002 su MTV nella serie Gli Osbourne (dagli ottimi risultati di ascolto), dove l’ex leader dei Black Sabbath si fa riprendere assieme alla propria “famiglia rock” in una quotidianità di post-rockstar ormai decaduta.