Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’istituzione del laboratorio di ricerca, come luogo di lavoro, è strettamente legata al processo che riconosce autonomia alla figura dello scienziato e del tecnologo. Tale processo si compie definitivamente in tutta Europa sul finire del XVIII secolo e porta con sé l’aumento degli investimenti, la specializzazione dei ruoli e quindi il moltiplicarsi dei laboratori. Nel corso dell’Ottocento, poi, lo spazio del laboratorio acquista una valenza quasi mitica con l’idealizzazione del genio creatore che in esso vi opera e l’esaltazione della “macchina” capace di produrre invenzioni. Il Novecento porta la novità della privatizzazione della ricerca e quindi degli ambienti a essa dedicati: ne consegue la riflessione sui condizionamenti politici ed economici che l’attività di laboratorio inevitabilmente subisce.
Un breve excursus
Il laboratorio come luogo nel quale si svolge la ricerca fa la sua comparsa nella storia della scienza e della tecnica nel momento in cui queste discipline si professionalizzano: lo scienziato e il tecnologo diventano figure che hanno un loro posto, ben preciso, all’interno delle istituzioni accademiche e nella società. Questo processo ha luogo a partire dalla fine del Settecento per l’Inghilterra e la Francia, e diviene un dato acquisito anche per gli altri Paesi nel corso dell’Ottocento. Mentre quella del ricercatore si trasforma in una figura professionale, il laboratorio di ricerca diventa una struttura sempre più ricorrente nello scenario scientifico. Il lavoro che un tempo poteva essere svolto da un singolo con l’ausilio di un domestico o un assistente nel suo laboratorio privato ha bisogno, con lo sviluppo delle conoscenze e la crescente specializzazione, di luoghi e strumenti adeguati e di un personale specifico. L’ampliamento delle dimensioni e la frammentazione dei ruoli implica investimenti assai più consistenti rispetto al passato. I risultati conseguiti in laboratorio divengono fondamentali per l’innovazione tecnologica. La produzione industriale utilizza in modo sistematico le acquisizioni che provengono ad esempio dal settore chimico. Nascono anche scuole speciali nelle quali si formano gli esperti nelle varie tecnologie.
Con l’Illuminismo cambia la sensibilità relativa alla bottega artigiana e al lavoro dei tecnici. Ne troviamo il segno più evidente nelle quasi 3000 illustrazioni dell’Encyclopédie dedicate alle arti meccaniche, ovvero alle tecniche del tempo. Convinti che i saperi degli artigiani fossero non solo almeno altrettanto utili ma anche altrettanto scientificamente rilevanti rispetto ai saperi degli hommes de lettres, i padri dell’opera decisero di andare personalmente, o di inviare propri rappresentanti, a visitare le botteghe.
Le tavole dell’Encyclopédie sono per i lettori del tempo (ben pochi dei quali appartengono alla categoria degli artigiani) come le carte geografiche di un continente inesplorato, appena scoperto. Gli atelier parigini divengono una realtà pubblicamente rilevante, parte del progresso complessivo del sapere quanto i libri o le opere musicali.
Nel corso della seconda rivoluzione industriale, negli ultimi trent’anni del XIX secolo, laboratori di alcuni celebri inventori, dal Menlo Park di Thomas Edison alla nave Elettra di Guglielmo Marconi, suscitano grande attenzione anche da parte dell’informazione giornalistica. La rappresentazione narrativa e fotografica della loro attività, quale viene veicolata dai periodici del tempo, converge su alcuni elementi: da un lato, l’idealizzazione del genio creatore, presentato sempre come individuo incomparabile e insieme come motore infaticabile di un gruppo spesso assai numeroso di collaboratori (numerosissime le descrizioni di Edison che, attorniato dai suoi tecnici, passa decine di ore consecutive di lavoro a Menlo Park, interrotte solo da brevi sonni sotto i tavoli); dall’altro l’esaltazione dell’efficienza della macchina, capace di sfornare decine di invenzioni nell’arco di pochi mesi grazie alla ferrea organizzazione e alla pianificazione dei progetti. La celebre frase di Edison “l’invenzione è frutto per il 10 percento di ispirazione e per il 90 percento di traspirazione” indica del resto quanto il ricorso al genio individuale fosse una base inadeguata per un’impresa intenzionata a durare nel tempo.
Rappresentazioni del genere erano, naturalmente, fortemente condizionate da aspetti ideologici: l’emergere di forme di divismo in tutti i campi, il nazionalismo che portava la stampa di ogni Paese a mitizzare il laboratorio dei suoi inventori, il puro e semplice fascino di invenzioni come la radio e la lampadina. I laboratori degli inventori-imprenditori di quest’epoca di passaggio sono, essi stessi, una realtà di transizione: estranei al mondo della ricerca universitaria, anche se i loro promotori cercano di tenersi al corrente sullo stato delle ricerche attraverso le riviste e i contatti informali con alcuni scienziati; capaci di produrre invenzioni in modo sistematico, restando però legati a un nucleo costituito dalla “idea” principale. Così, Edison deposita 256 domande di brevetto, quasi tutte in materia di elettricità, nei tre anni successivi all’invenzione della lampadina.
La novità novecentesca: il laboratorio di ricerca privato
Nel corso del Novecento il laboratorio conosce una nuova evoluzione: si sposta dal settore pubblico a quello privato, e diventa spesso una branca all’interno dell’industria (il settore ricerca e sviluppo, R&D). Qui si elaborano ricerche pure in stretta relazione con i fini produttivi, in un interscambio che non è a senso unico, anche se i condizionamenti aziendali non mancano di farsi sentire. Mentre nel primo decennio del secolo le ricerche più avanzate si spostano dall’Europa agli Stati Uniti, si trasforma di pari passo il ruolo dello scienziato e del tecnologo: il ricercatore si forma attraverso un dottorato di ricerca (Ph.D) e, nel momento in cui viene assunto da un ente privato, gli vengono fornite le risorse necessarie, insieme a un certo margine di libertà. Chi fa ricerca all’interno delle istituzioni accademiche deve di fatto occuparsi anche del funzionamento delle stesse istituzioni. Chi invece pratica la ricerca all’interno di organizzazioni il cui fine non è scientifico può subire condizionamenti che derivano dalla struttura nella quale opera. La necessità di non divulgare segreti militari o industriali può ad esempio restringere fortemente o eliminare del tutto una caratteristica classica della scienza moderna che è la pubblicità dei risultati e la comunicazione di essi all’interno della comunità scientifica. Amministrazione pubblica e industria sovvenzionano la ricerca grazie a grant (“assegni”) di ricerca e addestramento, contratti e donazioni. La scienza e la tecnologia hanno acquisito un grande valore economico e strategico.
I laboratori hanno dato luogo negli ultimi decenni a interpretazioni nelle quali si esprimomo diverse e opposte tradizioni di ricerca. Vi è da un lato un’interpretazione internalista che li vede come momento della ricerca pura che si svolge in modo tutto sommato autonomo rispetto alle esigenze politiche o industriali; dall’altro un’interpretazione sociologica, nella quale si fa sentire un esternalismo di tipo diverso rispetto al passato. Un esempio del primo tipo è offerto da Joseph Ben-David, in uno studio comparato sul ruolo sociale dello scienziato del 1971 (The scientist’s role in society: A comparative study), nel quale viene descritta la trasformazione dello scienziato solitario nel gruppo potente di ricercatori di professione che godono di sovvenzioni, e interpretata in un modo che non tocca affatto i progetti di ricerca o l’utilizzazione dei risultati. L’autore scrive: “Persino oggi non esiste alcun modo di determinare esattamente quale rapporto vi sia tra la quantità e il tipo di ricerche effettuate [...] e il conseguimento di vari obiettivi sociali, quali il progresso della tecnologia, il progresso economico e la potenza militare, che si pensa siano il risultato della scienza. D’altro lato, non vi è neppure modo di determinare il rapporto esistente tra il tipo di strutture sociali (in termini di carriere, di definizione dei ruoli, di organizzazione del tipo dei laboratori, dei dipartimenti, delle università e delle unità di ricerca, di sistemi nazionali di addestramento e ricerca) adottato per l’attività scientifica e la diversa quantità e il tipo di ricerca in pratica svolto”.
Un esempio del secondo tipo di interpretazione è offerto dalla sociologia della scienza più recente. In un testo dal titolo La vie des laboratoires (1979) Bruno Latour e Steve Woolgar si sono proposti di osservare il laboratorio con uno sguardo che prescinde dai contenuti dell’attività scientifica. Da questo punto di vista l’attività che vi si svolge è presa in esame solo dal punto di vista retorico: chi fa ricerca deve persuadere colleghi, committenti, autorità e pubblico della validità dei risultati raggiunti. La verità scientifica si dissolve in questa prospettiva e lascia al suo posto la concezione, tipica del costruttivismo, secondo la quale i fatti scientifici sono una costruzione del ricercatore stesso. Egli deve proporre e difendere con una attenta strategia le soluzioni che ha trovato, i problemi che ha definito, il campo di ricerca che è riuscito a isolare. La stessa genialità attribuita, in una visione internalista, allo scienziato si trasforma qui in una serie di coincidenze, incontri, discussioni non programmate, nella quale il caso svolge un ruolo di primo piano. Quando poi lo scienziato deve ricostruire la genesi della scoperta ricorre a un’idea che lo avrebbe guidato fin dall’inizio, ma si tratta di una sua ricostruzione a posteriori nella quale l’osservatore esterno non dovrebbe credere se non vuol correre il rischio di cadere in una storiografia ingenua. Una volta che i risultati della ricerca abbiano superato un certo numero di prove, entrano a far parte della scienza dell’epoca.