I guerrieri venuti dal mare: i Bronzi di Riace
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Da quasi quarant’anni, le due statue universalmente note come Bronzi di Riace concentrano su di sé l’ammirazione del grande pubblico e l’attenzione degli specialisti. Il grande pubblico ha tratto un rinnovato interesse nei confronti dell’arte antica in generale dal loro rinvenimento, che ha aperto nuove prospettive di ricerca e fornito una messe di nuovi dati straordinariamente importanti per gli studiosi della storia dell’arte classica.
In una ideale fotostoria degli edonisti, “facili” anni Ottanta in Italia, un posto d’onore avrebbero certo le sorprendenti immagini che ritraggono le lunghe code di entusiasti spettatori in attesa di accedere al Museo Archeologico di Firenze e al Quirinale a Roma per vedere due antiche statue in bronzo, reduci da un avventuroso recupero nelle acque calabresi e da un lungo restauro, ed esposte successivamente nelle due città tra il dicembre del 1980 e il luglio del 1981.
È l’agosto del 1972 quando un subacqueo dilettante in vacanza in Calabria segnala la presenza in mare delle statue, a otto metri di profondità e a circa 200 metri dalla spiaggia di Riace Marina, un paesino in provincia di Reggio Calabria. Alla segnalazione segue il recupero condotto dal Nucleo Subacqueo dei Carabinieri e, a questo l’inizio del restauro, realizzato fino al 1975 presso il Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria per essere poi affidato al Centro di restauro della Soprintendenza Archeologica di Firenze. Qui, accuratissime indagini rivelano l’eccezionale qualità tecnica delle due statue e consentono l’acquisizione di dati di straordinaria importanza ai fini della conoscenza della tecnica bronzistica antica; nuove informazioni sono derivate da un secondo restauro conclusosi nel luglio 1995. I bronzi sono attualmente sottoposti ad un nuovo intervento conservativo in un laboratorio allestito all’interno di Palazzo Campanella a Reggio Calabria, sede del consiglio regionale calabrese, aperto ai visitatori.
Le statue raffigurano due uomini stanti, in nudità eroica e di dimensioni leggermente superiori al naturale (1,98 e 1,97 m). Quella che viene convenzionalmente definita “statua A” presenta una abbondante capigliatura a lunghi e corposi boccoli terminanti ad uncino, parzialmente lavorati a parte e poi applicati, trattenuti da un’alta benda che circonda la testa sopra la fronte; la calotta cranica al di sopra della benda è solcata da sottili ciocche ondulate; altrettanto raffinata la lavorazione della barba a folti riccioli. Sotto i baffi abbondanti e spioventi, le labbra carnose in lamina di rame sono dischiuse con fare aggressivo, a svelare cinque denti rivestiti in lamina d’argento; gli occhi grandi, dalla palpebra pesante, hanno le ciglia in lamina di bronzo e le cornee in avorio, mentre le iridi, perdute, dovevano probabilmente essere realizzate in pasta vitrea.
Un foro sulla sommità della calotta cranica, alcune tracce curvilinee leggibili sulla benda e una profonda tacca su una ciocca all’altezza della tempia destra conducono a restituire alla statua A un elmo di tipo corinzio, parzialmente sollevato a lasciare il viso scoperto, come nei ritratti di Pericle e come doveva essere anche nel secondo bronzo, la cosiddetta “statua B”; ma non è certo se la statua A recasse originariamente l’elmo corinzio, o se questo fosse stato aggiunto in un secondo momento: quest’ultima ipotesi, che riconosce nel foro sulla testa l’originario alloggiamento per un meniskos (una sorta di dissuasore per uccelli), successivamente ampliato per sostenere un elemento più pesante, giustificherebbe l’accuratezza della resa della capigliatura sulla calotta. Un elmo di tipo corinzio doveva invece indossare fin dall’origine la statua B, che presenta infatti una vistosa deformazione della sommità della testa, dalla superficie non rifinita, atta a prestare un congruo appoggio per questo elemento; una placchetta triangolare sopra la fronte e un’altra posta più in alto, caratterizzate da una superficie picchettata, lasciavano forse indovinare la presenza di una korinthie kyne, una cuffia in lana o in cuoio che veniva indossata sotto l’elmo fissandola alla gola tramite lacci, dei quali restano i solchi sulla barba. La capigliatura corta, a sottili ciocche mosse, e la barba ondulata risultano assai più semplici e naturali, meno decorative, rispetto a quelle della statua A. Il volto, di tipo ideale, ha un’espressione seria, quasi dolente; come per la statua A, le labbra sono in lamina di rame, le ciglia in lamina bronzea; l’unico occhio superstite ha la sclera in marmo bianco e l’iride formata da due anelli concentrici, uno biancastro ed uno rosato, mentre la pupilla, perduta, doveva essere in pasta vitrea. La ponderazione delle due statue è molto simile: entrambe scaricano il peso del corpo sulla gamba destra tesa, mentre la sinistra, leggermente flessa, è avanzata, con il piede girato verso l’esterno; la posizione delle gambe comporta l’inflessione del bacino, più decisa nella statua B, la cui linea alba è nettamente incurvata, mentre le spalle di entrambe le figure restano sostanzialmente orizzontali. Alla posizione delle gambe corrisponde chiasticamente quella delle braccia scartate dal torso: il braccio sinistro, che imbracciava lo scudo (del quale resta in entrambe le statue l’imbracciatura), è flesso, mentre il destro, che doveva sostenere un’arma (con ogni probabilità una lancia, di cui sono leggibili gli alloggiamenti sul braccio di entrambe le statue) è steso lungo il corpo, ma non abbandonato. La muscolatura è più tesa e rigida nella statua A, in armonia con lo scatto deciso della testa, le spalle contratte, quasi stia trattenendo il respiro; nella statua B, la postura è più morbida e rilassata, le spalle in posizione di riposo mettono in evidenza la voluminosità dei trapezi. Eccezionalmente curata, in entrambe le figure, la resa delle vene superficiali e dei tendini.
La scoperta dei bronzi di Riace accende immediatamente un vivace dibattito teso a delinearne l’ambito artistico di pertinenza, la cronologia, l’identificazione dei personaggi rappresentati e il monumento di cui erano originariamente parte; la presenza di tenoni in piombo sotto i piedi di entrambe le figure testimonia infatti che, prima di inabissarsi nel Mar Ionio, erano già state fissate su basi e dunque esposte al pubblico. Purtroppo, le indagini condotte sul sito di rinvenimento non hanno rivelato nulla sulla nave che le trasportava, sul porto di partenza e sulla data del naufragio; si ritiene che una violenta tempesta abbia distrutto la nave, gettando lo scafo sulla riva, mentre i bronzi andavano a picco; ma non è escluso che un vero e proprio naufragio non sia, in realtà, mai avvenuto e che, in un momento di pericolo, si sia deciso di alleggerire il carico gettando in mare le due statue. Ad ogni modo, il braccio di mare di fronte a Riace si trova sulla rotta che dalla Grecia conduceva alla costa tirrenica dell’Italia, e dunque a Roma. Per quanto riguarda la cronologia, con l’isolata eccezione di Brunilde Sismondo Ridgway, che considera le due statue opere classicistiche databili tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., in generale i due bronzi vengono ricondotti all’arte classica di V secolo a.C.; per la statua A, stilisticamente meglio inquadrabile nell’ambito della plastica di età severa, si è proposta una datazione intorno al 460 a.C., mentre per la B, che sembra risentire della tradizione policletea, appare convincente una cronologia da fissare intorno al 430 a.C. Naturalmente, il trentennio ipoteticamente intercorso tra la realizzazione delle due statue rende assai problematico attribuire entrambe ad uno stesso gruppo statuario, a meno che non si voglia supporre l’inserimento della statua B all’interno di un monumento già esistente, in un momento successivo alla sua realizzazione.
Gli studiosi convinti della pertinenza dei due bronzi al medesimo monumento tendono piuttosto a spiegarne le difformità stilistiche attribuendole a due diversi maestri, di origine e di tradizioni artistiche differenti; una simile circostanza potrebbe forse giustificare anche la diversa composizione della lega bronzea con cui le due statue sono realizzate (quella della statua A è una lega con una certa percentuale d’argento), nonché la diversa provenienza delle terre di fusione recuperate al loro interno: sicuramente Argo per il bronzo A, assai probabilmente Atene per il bronzo B.
Tra i monumenti noti grazie alle fonti letterarie che sono stati evocati per le due statue, occorre ricordare il donario eretto da Atene in Delfi all’indomani della battaglia di Maratona (490 a.C.), e comprendente le statue di Milziade, Apollo e Atena con i dieci eroi eponimi delle tribù attiche, realizzate da Fidia intorno al 460 a.C. (questa è l’ipotesi proposta dall’archeologo tedesco Werner Fuchs, e seguita da Antonio Giuliano e Maurizio Harari); e quello degli Achei a Olimpia, opera del bronzista Onata di Egina secondo la testimonianza di Pausania (Periegesi della Grecia V, 25, 8-10), raffigurante Nestore, circondato da nove eroi greci, mentre sorteggia il nome di colui che dovrà affrontare Ettore (ipotesi sostenuta da E. B. Harrison, P.C. Bol, O. Deubner). Paolo Moreno, alla fine degli anni Novanta, ha proposto (suffragando la propria ipotesi con una serie di confronti iconografici e stilistici di indubbia suggestione) di riconoscere nelle due statue il sanguinario, antropofago Tideo e lo sfortunato Anfiarao, coinvolti nella disastrosa spedizione dei Sette contro Tebe, e di ricondurle a un monumento, databile agli anni immediatamente successivi al 456 a.C., che Pausania descrive sull’agorà di Argo (Periegesi della Grecia II, 20, 5), raffigurante i Sette e gli Epigoni, cioè i loro figli che avrebbero ritentato l’impresa della conquista di Tebe conducendola a buon fine. La statua A (Tideo) sarebbe da attribuire allo scultore argivo Agelada il Giovane, maestro di Mirone, di Policleto e forse di Fidia, e la B (Anfiarao) ad Alcamene il Vecchio, originario di Lemno (ma formatosi professionalmente ad Atene), autore del celebre Hermes Propylaios che accoglieva di fronte ai Propilei i visitatori dell’acropoli di Atene. Secondo lo studioso, a questi due maestri sarebbe altresì da attribuire l’intero programma scultoreo (i due frontoni e il ciclo metopale) del tempio di Zeus ad Olimpia, completato nel 457 a.C. L’ipotesi di Moreno, per quanto suggestiva, conduce a datare il naufragio della nave che trasportava i bronzi ad un periodo successivo all’epoca in cui Pausania scrive la propria opera, l’età adrianea: un momento in cui il flusso delle antiche opere d’arte dalla Grecia verso l’Italia sembra essersi interrotto già da un po’.
Altra ipotesi recente è quella di Daniele Castrizio, che ha proposto di riconoscere nelle due statue un gruppo scultoreo raffigurante Eteocle e Polinice (i due fratelli nemici nati dal matrimonio incestuoso tra Edipo e Giocasta), gruppo riprodotto in sarcofagi marmorei di età imperiale e che una frase di Taziano (Contro i Greci, 34) permetterebbe di attribuire al grande ed enigmatico bronzista Pitagora di Reggio, attivo in età severa. Nessun’altra fonte cita quest’opera, e Taziano non fa parola circa la sua collocazione; inoltre, la proposta di Castrizio lascia aperti troppi interrogativi: dove si trovava il gruppo in origine? quando è stato imbarcato, e verso dove? Taziano fa riferimento a qualcosa che aveva visto, oppure utilizzava nel proprio discorso una sorta di luogo comune? L’attribuzione a un unico artista come si accorda con la diversa origine delle terre di fusione, con la diversa composizione della lega bronzea e con le peculiarità stilistiche del bronzo A e del bronzo B?
Se immaginare che le due statue facessero parte di uno stesso monumento, un grande donario pubblico eseguito da uno o più maestri di fama, è suggestivo, risulta forse più convincente l’ipotesi che le due statue fossero originariamente separate: ipotesi che risulta del tutto compatibile con le differenze stilistiche e tecniche tra i due bronzi già ricordate, nonché con l’osservazione che le statue, nella ponderazione e negli attributi, sembrano fin troppo simili per far parte dello stesso monumento. Per quanto lacunosa, la documentazione conosciuta circa i gruppi statuari di età classica testimonia infatti la volontà di differenziare tra loro le statue che li componevano, come risulta evidente nel donario di Daoco II a Delfi, attribuito a Lisippo di Sicione e composto da almeno otto figure. Le indagini sui bronzi hanno rivelato che il braccio destro e l’avambraccio sinistro della statua B sono di una lega bronzea di diversa composizione, con un elevato tenore di piombo, come quella comunemente usata nella statuaria di età romana: è possibile che si tratti semplicemente della restituzione “filologica” di parti danneggiate, ma è probabile altresì che sia, piuttosto, l’indizio di un restauro finalizzato a modificare la posizione delle braccia della statua B per farla assomigliare di più alla statua A; e a quest’ultima, come già accennato, si è forse imposto un elmo corinzio che originariamente non portava, per renderla più simile alla statua B. È dunque possibile che si tratti di due statue originariamente distinte, modificate ad un certo momento così da “fare gruppo” funzionalmente ad una nuova collocazione, di quel tipo simmetrico tanto caro al gusto romano.
Questioni da affrontare (di nuovo) Anche questa possibilità lascia aperti numerosi interrogativi, relativi all’identificazione dei personaggi che le statue raffigurano e degli artisti che le hanno realizzate. I Greci non facevano statue anonime; gli attributi da restituire alle due statue fanno pensare a guerrieri, forse eroizzati dato il modulo dimensionale leggermente superiore al naturale.
Anche la caratterizzazione dei volti delle due figure costituisce un elemento chiave, in particolare per il bronzo A, con quel modo aggressivo di voltarsi e di mostrare i denti, elemento quest’ultimo rarissimo nella scultura greca, ed evidentemente identificativo di una qualche caratteristica psicologica del personaggio: nella tradizione letteraria è il grande pittore Polignoto di Taso, l’ethographos (“pittore di caratteri”), attivo nel secondo quarto e fin oltre la metà del V secolo a.C., il primo in ambito pittorico a dischiudere le labbra delle proprie figure in modo da mostrarne i denti (Plinio il Vecchio, Nat. Hist. XXXV, 58). Per questo motivo è intrigante l’ipotesi di Moreno di riconoscere nel bronzo A un’immagine di Tideo, figura caratterizzata da una bestiale ferocia, che, divorando durante l’assedio di Tebe il cervello del nemico Melanippo (come è rappresentato, con efficace immediatezza, sul frontone ovest del tempio A di Pyrgi, oggi al Museo di Villa Giulia a Roma), si aliena la protezione della dea Atena. Per quanto riguarda, infine, l’attribuzione delle due statue, sono stati fatti ripetutamente i nomi dei principali bronzisti greci, da Pitagora a Mirone, da Policleto a Fidia; ma non va dimenticato che le fonti letterarie ricordano un numero limitato di opere d’arte e di artisti, entrati a far parte di una sorta di canone di eccellenze formatosi già a partire dal III secolo a.C., ma che il panorama artistico della statuaria severa e classica deve essere stato assai più vivace ed eterogeneo, animato da artisti di cui talvolta conosciamo, e incidentalmente, soltanto il nome.
Certamente, gli autori delle statue di Riace dovevano essere due bronzisti di vaglia, professionisti d’esperienza, sicuri di sé e del proprio mestiere; lo dimostra, oltre la stessa perfezione estetica e formale dei due bronzi, la probabile tecnica di fusione, ricostruibile in base alle tracce che ha lasciato all’interno delle statue: la fusione a cera persa con metodo diretto, che non consente errori perché non permette la conservazione dell’archetipo. Sono dunque ancora molte le questioni da risolvere: i due guerrieri venuti dal mare hanno sparigliato le carte, offrendo una straordinaria messe di dati da analizzare e insieme evidenziando quante e quanto profonde siano le lacune ancora da colmare nella ricostruzione della storia dell’arte classica; ed infine, sono entrati con forza nell’immaginario collettivo, dimostrando con quale freschezza e profondità l’arte greca riesca a parlare all’uomo, anche a quella complicata creatura che è l’uomo contemporaneo.