I Giulio-Claudii: il consolidamento dell'impero e le origini del cristianesimo
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Negli oltre cinquant’anni di regno dei principi della dinastia giulio-claudia (Tiberio, Caligola, Claudio, Nerone) il sistema imperiale si consolida in modo definitivo, e neppure i conflitti del 69 (l’anno dei quattro imperatori: Galba, Otone, Vitellio, Vespasiano) riescono a metterlo in discussione. Nello stesso periodo all’interno della cornice rappresentata dall’impero romano il cristianesimo, dopo la nascita di Gesù sotto Augusto e la sua morte sotto Tiberio, comincia a diffondersi soprattutto nel Mediterraneo orientale e a Roma.
Oggetto di grande curiosità già da parte degli antichi – come lasciano pensare soprattutto le biografie da Cesare a Domiziano composte da Svetonio e quelle da Adriano a Carino e Numeriano raccolte nella Storia Augusta –, le vite e le morti degli imperatori ancor oggi suscitano un interesse tanto forte tra il grande pubblico, e anche tra gli studiosi, che la storia dell’impero romano si riduce di frequente alla loro più o meno ampia trattazione. Questo concentrarsi dell’attenzione sui prìncipi porta inevitabilmente a considerare la vicenda dell’impero come l’esito delle volontà dei singoli sovrani, che sulla base delle loro idee o dei loro capricci, avrebbero determinato il corso degli eventi.
A una più attenta considerazione, però, lo svolgimento della storia dell’impero appare essere stato indirizzato non tanto dalle decisioni dei vertici, quanto piuttosto da un complesso di fattori che vanno dal progressivo ampliamento e consolidamento delle classi dirigenti provinciali, all’instaurarsi di nuove dinamiche commerciali, dalla nascita di movimenti religiosi che coinvolgevano le folle, a quella che è stata definita da Santo Mazzarino – brillante storico del secolo scorso – "la democratizzazione della cultura", e ad altro ancora. Le personalità dei prìncipi insomma non possono essere tout court chiamate in causa per spiegare le trasformazioni dell’età imperiale, pur avendo giocato un ruolo centrale nelle scelte contingenti. Dopo le riforme dello stato messe in atto da Augusto e l’impegno profuso nell’attività amministrativa da Tiberio e ancor più da Claudio si era del resto venuto a formare un sistema di potere dalle precise funzioni e gerarchie che gli interventi di un singolo, per quanto incisivi, non avrebbero avuto la capacità di intaccare significativamente senza il contributo di altre forze. Con tutto ciò, sul grande palcoscenico dell’impero romano a ricoprire l’incontrastato ruolo di protagonisti furono i suoi sovrani: di quelli appartenenti alle dinastie giulio-claudia, flavia e antonina, in questo e nei due capitoli seguenti, si tenterà di schizzare un profilo che renda conto delle loro rispettive imprese e realizzazioni lasciando anche emergere alcuni dei caratteri generali del periodo.
Succeduto ad Augusto all’età di cinquantaquattro anni, Tiberio dovette subito confrontarsi con vari movimenti di opposizione alla sua ascesa al trono. I più gravi furono quelli delle legioni di Pannonia e Germania: queste ultime addirittura acclamarono come imperatore Germanico, loro idolo, che però, non solo rimase leale allo zio e padre adottivo, ma anche contribuì a sedare la rivolta. All’inizio del suo regno Tiberio si mosse lungo il solco tracciato da Augusto non sottraendosi alla collaborazione con il senato, rivolgendo molte delle proprie forze all’amministrazione dello stato e intervenendo più volte a favore delle città provinciali come nel caso di quelle dell’Asia colpite da un disastroso terremoto nel 17.
Ma il carattere del principe chiuso e scontroso, facile al sospetto, indurito dalla contesa per la successione con Gaio e Lucio Cesare e dall’infelice matrimonio con Giulia, non era di quelli fatti per guadagnarsi la simpatia nella pratica del potere. Fu ad esempio ritenuta come dettata dall’invidia di Tiberio verso i successi di Germanico, e non da una saggia considerazione delle forze in campo, l’interruzione che il primo impose nel 17 al comando militare del secondo in Germania, e il suo invio in Oriente per una missione diplomatica. Similmente la morte per un morbo misterioso dello stesso Germanico ad Antiochia nel 19 fu da non pochi attribuita al legato di Siria Gneo Pisone, che l’avrebbe avvelenato istigato dall’alto. Comunque siano andate le cose, la popolarità di Tiberio a Roma conobbe un crollo dopo questo evento, e in città si stabilì un clima di paura. I processi di lesa maestà, istruiti dal senato, crebbero decisamente di numero e divennero una delle caratteristiche più salienti del regno del successore di Augusto. A farne le spese furono in particolare familiari di Germanico e personaggi a loro legati: nel 25 si tenne il processo contro lo storico Cremuzio Cordo che, accusato di aver esaltato nella propria opera Bruto e Cassio, si suicidò, mentre nel 29 Agrippina, la moglie di Germanico, venne esiliata – come la madre Giulia – a Pandataria e Nerone, figlio della coppia, a Ponza.
Nell’ottenere queste due ultime condanne magna pars fu il prefetto del pretorio Lucio Elio Seiano che, dall’entrata in carica nel 14, non aveva risparmiato fatiche per conquistarsi la fiducia di Tiberio. Al fine di mettere in atto i suoi progetti di conquista del potere, prima di accanirsi contro i familiari di Germanico, con molta probabilità egli aveva già eliminato nel 23 il figlio dell’imperatore Druso Cesare; a partire dal 27, d’altronde, quando Tiberio decise di ritirarsi a Capri, dove sempre più ombroso si dedicava soprattutto all’astrologia, Seiano era rimasto a Roma padrone del terreno, operando un rigoroso controllo sulle notizie da fare pervenire al principe sull’isola e condizionando tutte le sue scelte. Nel 31 sul punto di raggiungere i suoi scopi, il potente prefetto del pretorio cominciò a tessere le sue trame contro un altro figlio di Germanico, Gaio, più noto con il soprannome di Caligola, che dopo la partenza della madre per l’esilio era stato affidato alla nonna paterna Antonia Minore, una donna di polso ancora molto influente. Essa intervenne presso Tiberio, che prese a proteggere il fanciullo e di sorpresa fece condannare a morte Seiano dal senato con una sentenza che venne prontamente eseguita. Con tutto ciò l’imperatore non mutò il suo atteggiamento e, appoggiandosi al nuovo prefetto del pretorio Quinto Nevio Sutorio Macrone, non allentò il clima persecutorio, oscurando così l’impegno che sino all’ultimo, con provvedimenti lungimiranti anche nei campi economico e sociale, continuò a rivolgere all’amministrazione dell’impero.
Tiberio morì nel 37 nominando come propri eredi il nipote Tiberio Gemello, figlio del proprio figlio Druso Cesare, e Gaio, il figlio di Germanico. Oggetto fin dall’antichità di accuse spietate e di difese accanite, fondate le prime sulla sua ipocrisia e le seconde sulle sue competenze militari e amministrative, Tiberio deve principalmente la sua fama alle pagine degli Annali di Tacito, in cui lo storico, maestro del chiaroscuro, ne traccia un ritratto di personaggio introverso e crudele, freddo e pessimista: l’imperatore romano è così divenuto il prototipo dell’uomo di potere in cui a dominare è il lato oscuro, ed è stato accostato al tormentato monarca spagnolo Filippo II e – in un appassionato intervento politico del latinista Concetto Marchesi – persino a Stalin. Tutti e tre ebbero a misurarsi con l’eredità di un predecessore estremamente ingombrante: Tiberio con Augusto, Filippo II con Carlo V, Stalin con Lenin.
“In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando Quirino era governatore della Siria. Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città. Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta. Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia […]”.
Queste sono le parole con cui Luca dà inizio al secondo capitolo del suo Vangelo, e in esse colpisce l’esigenza dell’autore di collocare cronologicamente la nascita di Gesù, di inserirla nella storia, prima di soffermarsi sull’annunzio salvifico dato ai pastori dell’avvento del Salvatore. Dei quattro evangelisti Luca è d’altronde quello che mostra di avere maggiore familiarità con la cultura greca e con le sue tradizioni letterarie e storiografiche; in possesso di una mente non chiusa dentro i confini della Palestina, per raggiungere il suo scopo, non ricorse come punto di riferimento al regno di Erode, come aveva fatto Matteo, ma a colui che in quel momento reggeva l’orbis terrarum: Augusto. Nonostante le incongruenze storiche riscontrabili a proposito del censimento ordinato da "Cesare Augusto", in concomitanza con il quale sarebbe nato Gesù, dal passo emerge comunque l’acutezza di prospettiva che, già poco dopo la metà del I secolo, consentì a Luca di percepire l’ingresso del cristianesimo sulla scena del mondo sulle orme dell’impero romano.
La vita di Gesù nella narrazione dei Vangeli appare, del resto, a pieno inserita nel contesto dell’impero di cui allora la Giudea era parte in quanto prefettura annessa alla provincia di Siria: nelle pagine di Matteo, Marco, Luca e Giovanni, ad esempio, non mancano riferimenti a militari e funzionari di Roma, ci s’infervora sulla legittimità o meno del versamento del tributo dovuto a quest’ultima oppure si punta l’obiettivo sul comportamento del prefetto Ponzio Pilato – in carica negli anni finali del regno di Tiberio – in rapporto alla condanna a morte e alla crocifissione di Gesù. Senza volere qui minimamente entrare in discussioni di ordine teologico a proposito dell’esistenza di disegni provvidenziali relativi alla data e al luogo della nascita del figlio di Giuseppe e di Maria, non si può non riconoscere che l’impero romano abbia svolto un ruolo non insignificante nelle origini del cristianesimo in quanto cornice all’interno della quale si è mossa l’azione del suo fondatore, cornice che ha poi consentito alla nuova dottrina di diffondersi in tutto il Mediterraneo.
Dopo la morte di Gesù i primi passi della comunità da lui formata – dagli ultimi anni del regno di Tiberio a quello di Nerone – sono narrati dagli Atti degli Apostoli, opera dello stesso Luca autore delVangelo più su citato: si tratta della più affascinante storia di un movimento rivoluzionario, che del cristianesimo illustra la nascita nell’ombra, l’iniziale proselitismo, l’ordinamento gerarchico, i conflitti interni, l’ostilità delle autorità, i martiri della causa. Il grande protagonista del testo è l’apostolo Paolo, del quale si narrano viaggi e predicazione in Grecia e in Asia Minore; ma Luca non trascura di raccontare episodi come quelli di Anania e Saffira e di Simon Mago che hanno luogo nell’ambito del mondo giudaico e che informano anche sulla diffusione della koinonia ("comunione") dei beni nelle prime comunità cristiane.
Paolo era nato a Tarso in Cilicia, una città in cui si parlava greco, su cui profondo era l’influsso delle religioni orientali e che era stata patria di famosi filosofi stoici. Egli apparteneva alla comunità ebraica che vi risiedeva, di mestiere fabbricava tende e godeva della cittadinanza romana e dei suoi privilegi, a quel tempo una rarità nelle province. Un episodio degli Atti in particolare merita di essere qui riferito perché mostra l’apostolo partecipe della vita di una città dell’impero: è quello relativo alla visita che egli compì ad Atene, allora una grande capitale di cultura. Per quanto Paolo, dentro di sé, non tollerasse la presenza di idoli un po’ dovunque, s’impegnò in numerose discussioni non solo nella sinagoga con Ebrei e convertiti ma anche nell’agorà (la piazza principale) con i passanti. Le sue parole ebbero un’accoglienza discorde, vennero criticate da alcuni filosofi stoici ed epicurei, mentre altri ritenendolo un propagatore di divinità straniere – secondo il costume ateniese di non perdere mai l’occasione di tenere un discorso oppure di ascoltarlo – lo invitarono a parlare all’Areòpago. Qui, al pari di un illustre retore, Paolo pronunziò la sua orazione annunziando il Dio "che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene", "che non è lontano da ciascuno di noi", da cui tutti discendiamo. Per rendere ancora più chiaro l’ultimo concetto ricordò addirittura un verso – "Poiché di lui stirpe noi siamo" – da un famoso poema del III secolo a.C., I Fenomeni del suo corregionale Arato di Soli, tradotto anche in latino da Cicerone. Con questa citazione di un antico poeta l’apostolo tentò di entrare in sintonia con il suo uditorio, ma quando subito dopo accennò a parlare della resurrezione di Gesù cominciò ad essere deriso. Alla fine pochissimi furono conquistati dalle sue parole.
Nonostante questo insuccesso in una grande città di cultura, il cristianesimo cominciò tuttavia a diffondersi con una certa rapidità soprattutto nelle province orientali dell’impero e a Roma dove, come si vedrà, i suoi seguaci furono accusati da Nerone dell’incendio che nel 64 devastò la città e dove, sotto lo stesso imperatore, furono condannati a morte Pietro e Paolo. Con l’accrescersi del numero dei loro membri e con le loro pratiche religiose in contrasto con quelle tradizionali del mondo greco e romano, le comunità cristiane vennero a costituire per prìncipi e governatori un problema non facile da affrontare che coinvolgeva aspetti così vari come l’ordine pubblico e l’esercizio del culto imperiale. A inquadrare per noi con chiarezza l’atteggiamento con cui nei primi secoli ci si misurò con i cristiani nell’impero romano è – insieme alla risposta di Traiano – una lettera che Plinio il Giovane, da governatore della provincia di Ponto e Bitinia, inviò al principe.
La domanda centrale che Plinio si pone è “se si debba punire il nome [di cristiano] in se stesso, anche quando sia immune da turpitudini, oppure le turpitudini connesse con il nome”: un dilemma questo che in seguito pare essersi risolto nel senso che il nomen christianum in quanto tale fosse da perseguire. Nell’incertezza, comunque, il governatore di Ponto e Bitinia dice di aver più volte richiesto a coloro che venivano denunciati se fossero cristiani, e di averli condannati a morte solo se avessero ripetutamente confessato. Nel caso invece di un documento anonimo che gli venne sottoposto, Plinio comunica di aver rimandato in libertà coloro che erano indicati come cristiani solo se avessero sacrificato con incenso e vino alla statua dell’imperatore, una prassi che sarebbe presto divenuta la norma in simili circostanze.
Questo in nuce l’atteggiamento di un governatore romano degli inizi del II secolo nel fronteggiare la "questione" cristiana. Ispirata al principio della flessibilità è la risposta di Traiano a Plinio. L’imperatore soprattutto vi afferma che i cristiani non vanno ricercati, ma devono essere condotti in giudizio solo se denunciati. I successori di Traiano, uniformandosi a questo precetto, si barcamenarono fino alla metà del III secolo: certo ci furono dei momenti come il regno di Marco Aurelio e gli inizi di quello di Commodo durante i quali gli episodi di persecuzione s’intensificarono, ma nel complesso i cristiani continuarono a crescere e moltiplicarsi in tutto l’impero. Una frattura si determinò solo nella seconda metà del III secolo quando gli imperatori Decio, Valeriano e Diocleziano scatenarono persecuzioni generali e sistematiche contro i cristiani e la loro Chiesa. A tali eventi pose fine l’editto di Milano del 313 attraverso cui gli imperatori Costantino e Licinio consentivano ai loro sudditi di seguire la religione che preferivano, compreso dunque il cristianesimo. Da qui ebbe inizio il coinvolgimento sempre crescente della Chiesa negli affari dello stato. Ma questo è un tema che esula dal compito qui assegnato; ritorniamo dunque alla dinastia giulio-claudia e guardiamo al successore di Tiberio.
Il soprannome di Caligola (da caliga, "calzatura militare") fu dato a Gaio dai soldati del padre Germanico giacché educato tra di loro egli soleva, come scrive Svetonio, indossarne anche gli abiti. Un aneddoto questo che lascia ben intuire come, alla morte di Tiberio, possa essersi operata la convergenza tra la plebe urbana legata al ricordo di Germanico, da un lato, e le coorti pretorie con a capo il loro prefetto Sutorio Macrone, dall’altro, allo scopo di ottenere che il senato conferisse tutti i poteri a Caligola, non ancora venticinquenne. Nella seduta del senato del 18 marzo del 37 egli divenne così il principe unico, e poco dopo assunse i titoli di Augustus e pontifex maximus. I primi mesi di regno di Caligola furono caratterizzati da una chiara discontinuità con l’operato dell’ultimo Tiberio: il nuovo sovrano si mostrò rispettoso nei confronti del senato, generoso nei donativi ai pretoriani e al popolo, desideroso di onorare la propria famiglia di origine come a risarcirla delle angherie patite negli anni precedenti.
Ma presto i suoi atteggiamenti cambiarono e si fecero stravaganti e controversi, specie in campo sessuale, a causa – secondo l’opinione dell’autore ebreo Filone di Alessandria nell’Ambasceria a Gaio – di una grave malattia. Una spiegazione questa, di quella che è sovente chiamata la follia di Caligola, che non è da tutti accolta e, vista la sua genericità, risulta poco convincente. Per comprendere i comportamenti abnormi di imperatori quali Caligola, Nerone, Commodo ed Eliogabalo, oltre a non dimenticare che quasi mai si manifestarono all’improvviso, appaiono piuttosto da prendere in considerazione altri fattori – dalla giovane età in cui i personaggi ascesero al trono, alla volontà ad essa collegata di non tollerare restrizioni, all’influenza di maestri, tradizioni e modelli alternativi, all’abuso di cibi, bevande e sostanze eccitanti, e altro ancora – che anche in collaborazione possono averli determinati.
Nei suoi anni di potere Caligola affermò una visione di governo marcatamente monarchica, dalle forti connotazioni orientali, instillatagli dalla frequentazione in gioventù di principi dell’Anatolia e del Levante quali Antioco di Commagene e Giulio Agrippa, figlio di Erode, e forse ancor più dalla memoria dell’antenato Marco Antonio, suo bisnonno in quanto padre della nonna paterna Antonia Minore. Del triunviro sconfitto ad Azio insieme a Cleopatra, piuttosto che di Augusto, Caligola preferiva anzi essere ritenuto discendente. In questo quadro s’inseriscono a pieno suoi provvedimenti quali la divinizzazione della sorella Drusilla, morta nel 38, alla stregua delle regine dell’Egitto tolemaico; la ripresa dei culti egizi nel Campo Marzio; l’attribuzione di ampi territori ad alcuni dinasti orientali. Caligola, inoltre, nella sua pretesa di essere dio, volle che una statua di Zeus con le sue sembianze fosse collocata nel Tempio di Gerusalemme, sacro agli Ebrei, ma il progetto in ultimo non ebbe seguito. Dedito al lusso e cultore di imprese faraoniche fece costruire un ponte di barche lungo circa 5 chilometri tra Baia e Puteoli (Pozzuoli) per imitare quello realizzato da Serse sull’Ellesponto; e per sovvenzionare spettacoli e largizioni alla plebe non di rado fu costretto a ricorrere a confische che crearono grande malcontento nell’ordine senatorio.
Tali e tanti eccessi non potevano essere tollerati facilmente neppure dalle persone più vicine al principe e la reazione, favorita dagli ingloriosi risultati di due tentate spedizioni in Germania e in Britannia, non tardò a manifestarsi: dopo aver sventato nel 39 una congiura capeggiata da Cornelio Lentulo Getulico, comandante delle legioni della Germania Superiore, in cui furono anche coinvolti Emilio Lepido, il marito della sorella Drusilla da poco scomparsa, e le sorelle ancora in vita Agrippina Minore e Livilla, nel gennaio del 41 Caligola cadde vittima di un’altra congiura a cui pure non furono estranei rappresentanti del senato. A vibrare il colpo mortale fu Cassio Cherea, un ufficiale delle coorti pretorie, che lo trafisse in un sotterraneo del palazzo, nell’ultimo giorno dei ludi Palatini.
Nelle discussioni che si tennero in senato dopo l’uccisione di Caligola, si esitava tra il vagheggiamento della libertas repubblicana e, da parte dei più, la scelta di un candidato per il trono espressione dell’assemblea; furono, invece, ancora una volta i pretoriani, come qualche anno prima nel caso dello stesso Caligola, ad assicurare la continuità del principato sostenendo l’ascesa di colui che avevano subito acclamato: Claudio, fratello di Germanico e zio di Caligola.
Fino ad allora egli era vissuto nell’ombra dei familiari più illustri, incluso lo zio Tiberio, dedicandosi alle sue amate ricerche erudite: eppure, numerosi decenni di governo imperiale e la formazione di una mentalità dinastica nella plebe urbana e nell’esercito e nelle coorti pretorie, fecero sì che come nuovo principe fosse scelto lui, l’ultimo rappresentante maschio ancora in vita della domus di Augusto per quanto, a differenza di Germanico adottato da Tiberio, non fosse entrato a far parte della famiglia Giulia e fosse rimasto nella famiglia Claudia del padre Druso.
Cresciuto nelle biblioteche, Claudio rivelò nei suoi anni di carica inaspettate doti di uomo pratico e concreto: il suo impegno di studioso, autore di ponderosi trattati in latino e in greco, uno persino sugli antichi Etruschi, lo aveva fatto giudicare a dir poco noioso e inconcludente dai suoi familiari, ma in realtà gli consentì di sviluppare una personalità riflessiva e capace di andare a fondo nell’analisi dei differenti casi che gli venivano sottoposti e di individuare rapidamente i precedenti storici a cui fare riferimento.
Una speciale attenzione Claudio rivolse ai problemi relativi all’amministrazione dello stato, mostrando nelle soluzioni proposte di aver fatto propria una delle lezioni più importanti, se non la più importante, insegnate dalla vicenda di Roma dalle origini ai suoi giorni: perché un governo sia di successo non deve mai discostarsi dai principi dell’adattabilità e della flessibilità. Ciò appare molto chiaramente nel discorso che Claudio tenne in senato nel 48 – pervenutoci sia nella versione originale tramandata da una tavola bronzea rinvenuta a Lugdunum (Lione), sia nel rifacimento di Tacito negli Annali – a favore della richiesta dei notabili della Gallia Comata, provvisti della cittadinanza romana, di poter accedere alla carriera senatoria. L’oratore rievocando a partire da Romolo la storia dell’Urbe, mette in luce come essa sia stata sempre caratterizzata dalla disponibilità ai mutamenti e dall’apertura verso gli stranieri e le forze nuove in grado di darle nuova linfa, e su questa base conclude che le porte del senato vanno aperte ai Galli, anche se nel lontano passato avevano conquistato Roma.
Tacito
Il discorso di un principe: Claudio in favore dell’entrata dei Galli in senato
Annales, Libro XI, 23-24
Nella versione degli Annali di Tacito (XI, 23-24), ecco il discorso che nel 48 Claudio tenne in senato a favore della richiesta dei notabili della Gallia Comata di accedere alla carriera senatoria.
I miei antenati, il più antico dei quali Clauso, originario della Sabina, fu nello stesso giorno fatto cittadino di Roma e assunto fra le famiglie patrizie, mi invitano a seguire la stessa politica nell’amministrazione dello stato, attirando qui tra noi tutto ciò che c’è di buono in qualunque luogo. In effetti non ignoro che i Giulii ci vengono da Alba, i Coruncanii da Camerio, i Porcii da Tuscolo e, per non guardare troppo al passato, dall’Etruria, dalla Lucania e da tutta l’Italia ci sono venuti, dietro nostro invito, i senatori; infine l’Italia stessa è stata allargata fino alle Alpi, perché non solo ad uno ad uno gli individui, ma i territori e i popoli interi si fondessero nel nostro nome. All’interno la nostra pace fu consolidata e di fronte agli stranieri fummo al massimo della potenza nel momento in cui fu accordata la cittadinanza ai Transpadani, quando, in vista del fatto che le nostre legioni venivano condotte a militare in tutto il mondo, ci aggregammo i più forti dei provinciali e si diede così nuova linfa all’impero esausto. Abbiamo forse da pentirci che i Balbi siano venuti a noi dalla Spagna e uomini non meno illustri dalla Gallia Narbonese? Sono ancora tra noi i loro discendenti, i quali per l’amore verso questa nostra patria non sono certo da meno di noi. Quale altro motivo recò la rovina agli Spartani e agli Ateniesi, nonostante la loro potenza in armi, se non che respingevano da sé i vinti, come fossero stranieri? Invece Romolo, il nostro fondatore, ebbe tanto accorta saggezza, da trattare moltissimi popoli nello stesso giorno come nemici e poi come cittadini. Dei forestieri esercitarono il potere di re su di noi e quella di affidare pubbliche cariche ai figli di liberti non fu decisione arrischiata e recente, come molti a torto ritengono, ma abituale al precedente regime. Ma si dirà che con i Senoni siamo stati in guerra: forse i Volsci e gli Equi non schierarono mai l’esercito contro di noi? Dai Galli, dicono, fummo conquistati: ma anche agli Etruschi noi dovemmo consegnare ostaggi e dai Sanniti subimmo l’onta del giogo. E pur tuttavia, se si passano in rassegna tutte le guerre, nessuna si risolse in minor lasso di tempo di quella contro i Galli: da quel momento ci fu pace senza interruzioni e sicura.
Ora che ormai per costumi, per tendenze e vincoli di sangue non si distinguono più da noi, portino a noi il loro oro e le loro ricchezze anziché godersele da soli! O senatori, tutto ciò che ora è giudicato antichissimo un tempo fu nuovo: ai magistrati patrizi tennero dietro quelli plebei, ai plebei quelli Latini, ai Latini quelli di tutti gli altri popoli d’Italia. Anche questa nostra deliberazione diventerà antica e quella che oggi noi cerchiamo di suffragare con esempi, costituirà un esempio essa stessa.
Tacito, Annali, trad. it. L. Annibaletto, Milano, Garzanti, 1974
Più specificamente in merito al funzionamento dell’apparato statale, alcuni decenni dopo la morte di Augusto, si deve a Claudio l’istituzione di uffici speciali a palazzo affidati alla guida di liberti – nei quali ebbe sempre la massima fiducia – con il compito di assistere il principe nella sua azione di governo. L’ab epistulis, ad esempio, era addetto alla corrispondenza, attraverso cui il centro dell’impero comunicava con la periferia; l’a libellis si curava degli affari giudiziari; l’a rationibus si occupava dell’amministrazione finanziaria. Sicuro poi della fedeltà dell’esercito, anche se del tutto privo di esperienza diretta, Claudio fu l’imperatore che, dopo Augusto, nella dinastia Giulio-Claudia, ebbe più a cuore l’espansione dell’impero. In Africa, dopo due anni di campagne, nel 43 vennero istituite due province in Mauretania, l’antico regno di Iuba II; e sempre nello stesso 43 le legioni al comando di Aulo Plauzio conquistarono la parte meridionale della Britannia, nonostante le resistenze incontrate. Questo successo giovò molto all’immagine di Claudio, e fu rafforzato dalla riduzione in provincia della Licia, in Asia Minore, ancora nel 43, in seguito alle discordie che regnavano nella regione, e della Tracia, nel 46, dopo la morte di Remetalce III. Nel Medio Oriente Claudio assegnò a Giulio Agrippa la Giudea e altre terre, ricostituendo il regno di suo nonno Erode il Grande, ma alla morte del dinasta nel 44 la Giudea fu affidata al governo di un procuratore.
In parallelo all’espansione dell’impero Claudio si dedicò anche a sollevare la condizione delle province, sia in Oriente sia in Occidente, tramite interventi – testimoniati soprattutto dalle iscrizioni – quali la costruzione e la riparazione di strade, l’edificazione di acquedotti, il restauro di edifici, l’assegnazione di benefici, e altro ancora. In Italia e a Roma, invece, l’imperatore provvide alla bonifica del lago Fucino (in Abruzzo) con l’intento di mettere a disposizione terre per l’agricoltura; regolamentò il basso corso del Tevere e iniziò i lavori per un nuovo porto a Ostia; rinnovò il sistema degli acquedotti a Roma.
Rispetto alla linearità dell’operato di Claudio come imperatore – senza però che se ne arrivi a parlare, anacronisticamente, in termini di visione politica tout court accentratrice –, la vita della sua corte appare caratterizzata dagli intrighi e dai cambiamenti di scena. A dominarla furono principalmente due figure femminili, le mogli del principe Valeria Messalina e Agrippina Minore, ma anche i liberti Narcisso, Callisto e Pallante, rispettivamente ab epistulis, a libellis, a rationibus, vi giocarono un ruolo significativo. Appartenente alla nobile famiglia dei Valeri, Messalina fu la terza moglie di Claudio: sposata prima dell’ascesa al trono, gli diede due figli, Ottavia e Tiberio Claudio, chiamato Britannico in seguito al trionfo del padre per la conquista appunto della Britannia. Dalle fonti la donna è presentata a tinte fosche: da Tacito e Svetonio risulta gelosa e vendicativa al punto da fare uccidere senza precisi motivi ipotetiche rivali e oppositori; il poeta Giovenale, invece, nella sua sesta satira ne sottolinea la dissolutezza che ha fatto divenire il suo nome sinonimo di donna di facili costumi. A perdere Messalina fu, comunque, una vicenda arcana, in cui il sesso s’intreccia alla politica, che nel 48 la vide prima divenire amante di un giovane console designato, Gaio Silio, e poi legarsi a lui in matrimonio "secondo i riti tradizionali" (Tacito), pensando addirittura alla successione di Claudio. Quest’ultimo ignaro di tutto e assente da Roma, fu informato dell’accaduto per l’intervento di Narcisso, il potente liberto che al fine di chiudere rapidamente lo scandalo si premurò anche di fare uccidere la donna ottenendo per ciò il riconoscimento del senato.
Per sostituire Messalina come moglie, Claudio nel 49, consigliato da Pallante, scelse la nipote Agrippina Minore, figlia di Germanico e sorella di Caligola. Ben a conoscenza, non foss’altro che per questi legami, del funzionamento della corte, Agrippina fu molto più astuta e lungimirante di Messalina nel perseguire i suoi scopi, e divenne rapidamente padrona del campo. In particolare nel 50, ancora con l’aiuto di Pallante, riuscì a fare adottare da Claudio – pensando per lui al trono – il figlio Domizio, che era nato dal suo primo matrimonio con un rappresentante di primo piano della nobiltà, Gneo Domizio Enobarbo, e che entrò così nella famiglia Claudia con il nome di Nerone Claudio Druso Germanico Cesare.
Lo stesso Nerone in seguito, nel 53, sposò Ottavia la figlia di Claudio, mentre la madre Agrippina si addentrava nei meandri del potere presenziando sempre alle pubbliche udienze tenute dal marito e ottenendo nel 51 che fosse nominato prefetto del pretorio un suo uomo fidato, Afranio Burro. Né Agrippina si perse d’animo quando, agli inizi del 54, Claudio raccomandò al senato in egual misura sia il figlio adottivo Nerone sia quello suo e di Messalina, Britannico. La donna temendo che i suoi piani andassero in fumo prese direttamente l’iniziativa e, secondo quanto ci tramandano le fonti, nell’ottobre dello stesso 54, si sbarazzò di Claudio, somministrandogli un piatto avvelenato di funghi, e riuscì poi con l’aiuto di Afranio Burro a fare acclamare imperatore il figlio dalle coorti pretorie e a farlo riconoscere dal senato. Britannico, neppure tenuto in considerazione, morì anche lui avvelenato, per mano di Nerone, nel 55, e la sua triste storia è conosciuta dai moderni grazie soprattutto a una delle più belle tragedie di Racine a lui intitolata. Di Claudio invece – divinizzato per delibera del senato e ridicolizzato dal filosofo Seneca, precettore di Nerone, nel componimento satirico Divi Claudii apokolokyntosis ("Inzuccamento del divo Claudio") – la pratica di governo venne giustamente apprezzata e in parte ripresa dagli imperatori Vespasiano e Traiano a pochi decenni di distanza dalla sua morte.
Insieme ad Augusto, e forse anche più di lui, Nerone è l’imperatore romano oggi più noto: la teatralità della sua vita, guidata dalla ricerca dell’eccesso che giunse fino al matricidio, ed eventi colossali, quali l’incendio di Roma del 64, che ebbero luogo durante il suo regno, continuano ancor oggi a suggestionare le fantasie.
Giunto al potere poco più che adolescente, il giovane principe nei suoi primi anni governò sotto il controllo della madre da un lato e di Seneca e del prefetto del pretorio Afranio Burro dall’altro. Agrippina cercò di tenere a freno il figlio nei suoi comportamenti più esagitati e per questo entrò rapidamente in contrasto con lui; Seneca e Afranio Burro, più accondiscendenti nei confronti di Nerone e disposti a chiudere un occhio sui bagordi e sulle bravate notturne sue e dei suoi compagni, cercarono di indirizzarlo verso la collaborazione con il senato, e il risultato fu un’attività legislativa di tutto rispetto da parte dell’alto consesso.
Tacito
La sfrenatezza del giovane Nerone
Annales, Libro XIII, 25
Da poco divenuto imperatore il giovane Nerone si pone a capo di una banda di agguerriti teppisti che, nella presentazione degli Annali (XIII, 25) di Tacito, terrorizza le notti di Roma.
Sotto il consolato di Q. Volusio e P. Scipione (56 d.C.), all’esterno c’era tranquillità, ma in Roma c’erano disordini vergognosi, perché Nerone percorreva le strade della città, i lupanari e le bettole, vestito da schiavo, per non farsi riconoscere, e accompagnato da gentaglia che faceva man bassa delle cose esposte in vendita e distribuiva randellate a quelli che incontrava e che nemmeno lo riconoscevano, tanto che anch’egli riceveva dei colpi e ne portava il segno in volto. Poi, quando si venne a sapere che era Cesare quello che imperversava e si facevano più frequenti le offese a personaggi illustri, uomini e donne, e alcuni individui, aperta ormai la via alla sfrenatezza, con l’impunità che dava il nome di Nerone, commettevano gli stessi soprusi con squadre organizzate per proprio conto, durante la notte Roma era come una città presa d’assalto. Giulio Montano, giovane destinato al senato, ma che non aveva ancora assunto la carica, scontrandosi per caso in mezzo alle tenebre con l’imperatore, ne aveva respinto animosamente l’attacco violento; poi, riconosciuto, s’era umilmente scusato, ma fu costretto a darsi la morte, come se le scuse suonassero un rimprovero. Nerone però si fece in seguito più guardingo e si circondò di soldati e di moltissimi gladiatori, i quali, se vedevano che le risse cominciavano senza importanza e come fra privati cittadini, lasciavano correre; ma se gli aggrediti reagivano piuttosto energicamente, facevano intervenire le armi. Anche la sfrenata libertà del teatro e le risse fra i sostenitori dei vari commedianti, Nerone, concedendo impunità e magari ricompense, le fece degenerare in vere e proprie battaglie, cui assisteva egli stesso di nascosto e ancor più spesso godendosi, alla vista di tutti, lo spettacolo: finché, divisosi il popolo in fazioni, sotto la paura di più gravi disordini, non fu trovato altro rimedio che quello di bandire dall’Italia gli istrioni e ripristinare la presenza in teatro dei soldati.
Tacito, Annali, trad. it. L. Annibaletto, Milano, Garzanti, 1974
Seneca inoltre, tra il 55 e il 56, compose il trattato De clementia, indirizzato al principe, che offre un modello di governo, improntato a quello dei monarchi ellenistici, in cui la clemenza non è più tanto il perdono del nemico, ma una virtù tipica del sovrano che attiene alla sua disponibilità ad ascoltare le richieste dei sudditi e a venire incontro alle loro esigenze. Un insegnamento questo, consono alla mentalità grandiosa di Nerone, che lo avrebbe portato sino a sentirsi signore e salvatore del mondo.
Dopo il primo grave conflitto con Agrippina insorto già nel 55, quando si mostrò deciso a lasciare la moglie Ottavia per sposare la liberta Atte, Nerone entrò definitivamente in urto con la madre qualche anno dopo a causa della relazione – da lei fortemente osteggiata – che intrecciò con Poppea Sabina, moglie di Marco Salvio Otone, il futuro imperatore, allontanato da Roma e inviato come legato in Lusitania. Il principe, tollerando con sempre maggiore difficoltà gli interventi esterni sulla propria vita e sulle proprie scelte, e spinto dalla stessa Poppea, per liberarsi di Agrippina nel 59 architettò un piano rocambolesco che prevedeva l’affondamento dell’imbarcazione su cui essa viaggiava, ma non essendo le cose andate nel verso sperato fu costretto a farla trafiggere da un sicario. La medesima insofferenza mostrata verso la madre, Nerone prese a nutrirla anche nei confronti di Burro e Seneca che non smettevano di esercitare una sorta di tutela sui suoi comportamenti pubblici e sulle sue scelte politiche. Anche il senato del resto nel 58 bocciò l’idea visionaria e tutta politica del principe – suscitatagli dalle rimostranze della popolazione dell’impero – di abolire la tassazione indiretta, facendogli notare che essa avrebbe portato alla dissoluzione dello stato. Quanto ai due consiglieri, Burro morì nel 62, e subito dopo Seneca cominciò a prendere le distanze dal suo pupillo, lasciando libero il campo per uno dei due nuovi prefetti del pretorio, Ofonio Tigellino, considerato da Tacito l’anima nera della seconda metà del regno di Nerone.
L’emancipazione conquistata in forme sempre più ampie a partire dall’anno dell’uccisione di Agrippina, nel 62 portò Nerone a ripudiare Ottavia – poi ingiustamente accusata di adulterio, relegata a Pandataria e infine uccisa – per potere sposare Poppea Sabina che assecondava, se non favoriva, tutte le sue inclinazioni. E ancora nel 62 furono eliminati due possibili pretendenti al trono collegati alla lontana alla domus imperiale, Fausto Cornelio Silla e Rubellio Plauto. Ma l’uccisione della madre in particolare consentì a Nerone di dedicarsi, senza più ostacoli, alle sue passioni più profonde: l’arte e la poesia, le corse dei carri, l’atletica, il teatro. Con una visione della cultura che non ha riscontro tra i suoi predecessori e i suoi successori il principe si proponeva di rieducare i Romani, e in primis gli appartenenti all’élite, instillando loro un gusto "alla greca" che, allontanandoli dagli spettacoli gladiatori, li avvicinasse a forme di intrattenimento più raffinate. Nel 59 organizzò dei giochi chiamati Iuvenalia in cui egli stesso si esibì privatamente nel canto e a cui fece partecipare anziani ex consoli e matrone; nel 60, invece, introdusse per la prima volta a Roma un concorso quinquennale di giochi greci, i Neronia. Nella seconda edizione dei giochi, nel 65, il principe stesso calcò la scena con un gesto che riscosse il consenso della plebe urbana, ma non quello di gran parte del senato.
Già nel 64, del resto, Nerone era stato oggetto di critiche per l’incendio che devastò numerosi quartieri di Roma e che, era voce diffusa, fosse stato da lui appiccato. Levatosi il 19 luglio, il fuoco non fu domato se non dopo nove giorni: la descrizione del suo infido serpeggiare per le strade dell’Urbe e dei tentativi di bloccarlo ci è offerta dagli Annali di Tacito in un brano di alta drammaticità che tocca l’apice quando presenta Nerone che salito sul palcoscenico del palazzo vi canta la distruzione di Troia, "paragonando il disastro presente a quella antica sciagura". Sempre Tacito ci informa, inoltre, del grandioso programma di ricostruzione – in cui era inclusa anche la sua residenza, la Domus aurea – che l’imperatore avviò e della mossa che, per allontanare da sé la voce di averlo provocato, gli fece accusare dell’incendio la comunità cristiana, che dopo la crocifissione di Gesù negli ultimi anni del regno di Tiberio aveva preso a formarsi a Roma ed era fortemente invisa alla plebe.
Nello stesso 64, Nerone, con un provvedimento molto discusso dagli studiosi moderni, attuò una riforma monetaria che, lasciando immutato il rapporto di valore (di 1 a 25) tra la moneta aurea e la moneta argentea, consistette nella diminuzione di peso di entrambe, e nella riduzione del contenuto di fino della seconda, cioè del denarius. Espedienti questi – piuttosto che misure dettate da rigorosi ragionamenti economici – che consentirono innanzitutto di avere subito a disposizione metallo fresco per le coniazioni necessarie a sostenere le imprese promosse dall’imperatore, e favorirono anche quei gruppi sociali che si servivano principalmente della moneta d’argento (apprezzata rispetto a quella d’oro), cioè a dire – in primo luogo – piccoli e medi proprietari.
Gli atteggiamenti trasgressivi ed esibizionistici di Nerone, come si è accennato, suscitarono il dissenso di non pochi senatori, in specie di quelli che erano più rispettosi delle tradizioni romane o seguaci della filosofia stoica, mentre le confische e le esazioni effettuate nelle province per sovvenzionare i lavori della ricostruzione dell’Urbe dopo l’incendio crearono notevole malcontento in Gallia, Spagna, Africa, Giudea ed Egitto. Un esito di questo clima fu la congiura che nel 65 vide coinvolti senatori, cavalieri ed elementi delle coorti pretorie, con lo scopo di scalzare dal trono Nerone e di sostituirlo con Gaio Calpurnio Pisone, un personaggio di grande popolarità, che era stato console sotto Claudio. Il progetto fu però scoperto e Nerone, divenuto sempre più sospettoso, prese a individuare oppositori ovunque. In breve tempo furono così uccisi o costretti a uccidersi Pisone e vari senatori di alto profilo intellettuale – dagli stoici Trasea Peto, Barea Sorano e Seneca, al poeta Lucano, all’autore del Satyricon Petronio – oltre a Fenio Rufo, prefetto del pretorio insieme a Tigellino.
Il 66 fu un anno denso di eventi, che vide l’accentuarsi della visione monarchica di Nerone in senso orientale e l’affermarsi di un filellenismo in forme che Roma non avrebbe più conosciute. Un grande spettacolo, nella definizione di Svetonio, fu la visita compiuta nell’Urbe dal re d’Armenia Tiridate, appartenente alla famiglia regnante partica, per essere incoronato da un successore di Augusto: un atto che concluse, almeno temporaneamente, un conflitto dalle antiche radici, e che, insieme alla repressione della rivolta di Budicca in Britannia nel 60, era stato fino ad allora il maggior impegno militare del regno di Nerone.
L’insediamento sul trono d’Armenia di Tiridate da parte del fratello Vologese, re dei Parti, nel 54, aveva suscitato l’immediata reazione ostile dei consiglieri del giovanissimo Nerone, Burro e Seneca, preoccupati dall’espansione della sfera d’influenza partica. Ma si dovette attendere fino al 59 perché il generale Domizio Corbulone, uno dei più valorosi di tutta l’epoca imperiale, completasse la conquista della regione; e l’anno successivo Nerone l’assegnò al dinasta Tigrane – una sua conoscenza – che la governò per breve tempo come re cliente. L’invio nel 62 come governatore di Cappadocia di Cesennio Peto, console nell’anno precedente, che dichiarò che l’Armenia sarebbe stata presto ridotta in provincia, mutò ancora una volta la situazione. La risposta di Vologese infatti non si fece attendere: Peto venne sconfitto sonoramente dalle truppe partiche, l’Armenia fu riaffidata a Tiridate e solo l’abilità strategica e diplomatica di Corbulone, mossosi dalla Siria dove si trovava, ottenne che quegli ricevesse il diadema, segno del potere, da Nerone. L’onore di Roma era salvo, ma era stata la Partia ad assicurarsi il controllo della regione. Nerone, comunque, con un’abile regia, in una Roma decorata con bandiere, fiaccole, ghirlande e fiori, incoronando Tiridate inginocchiato dinanzi a lui in una cerimonia dal forte colorito mitraico (Mitra era una divinità persiana il cui culto aveva preso a diffondersi a Roma nel I secolo a.C.), riuscì a darle la connotazione di un trionfo.
Subito dopo il principe diede avvio ai preparativi per una spedizione in Oriente che avrebbe dovuto tra l’altro portare alla conquista delle regioni caucasiche e dell’Etiopia nel continente africano. La scoperta di una congiura a Benevento guidata da Annio Viciniano, il genero di Corbulone, non bloccò l’iniziativa; a causa invece della rivolta dei Giudei contro il procuratore Gessio Floro – che li vessava in vario modo ed era giunto a requisire parte del tesoro del Tempio – e del cospicuo impiego di forze necessarie per domarla, poste al comando del generale Tito Flavio Vespasiano, il piano di conquiste orientali venne accantonato da Nerone. La spedizione così si limitò soltanto alla Grecia e assunse quel carattere culturale e politico, ed eminentemente "teatrale", più consono alla personalità dell’imperatore, uomo di palcoscenico piuttosto che di guerra. Compiuta la traversata dell’Adriatico alla fine di settembre del 66 Nerone si produsse in un’esibizione canora a Corcira e partecipò ai giochi di Azio, e successivamente a numerosi altri conquistando – smaccatamente favorito dal pubblico e dai giudici – ben 1808 corone.
In particolare, nel 67, fece celebrare i quattro grandi giochi dell’Ellade, duplicandoli o spostandoli di data, per potervi prendere parte; e nel corso di quelli istmici, a Corinto, il 27 novembre con un discorso bombastico, verosimilmente composto da lui stesso, proclamò la libertà della Grecia – che consisteva nella fine della sua condizione provinciale e nell’esenzione dal pagamento del tributo – nello stesso luogo dove l’aveva proclamata Tito Quinzio Flaminino nel 197 a.C. In questo gesto, che fu accolto entusiasticamente dai Greci, si manifestò nel modo più significativo il filellenismo passionale e politico di Nerone, così diverso da quello più compassato e classicistico che sarebbe stato proprio di Adriano.
Alla fine del 67 il liberto Elio, in balia del quale era stata lasciata la città di Roma, dopo ripetuti tentativi convinse Nerone ad abbandonare la Grecia e rientrare nella penisola perché la situazione ai suoi occhi appariva sempre più deteriorarsi. Non solo la plebe tumultuava per il ritardo negli arrivi del grano, ma l’ordine di uccidersi rivolto dall’imperatore ad alcuni valenti generali, tra cui Corbulone, aveva destato l’allarme tra i comandanti delle legioni di stanza nelle province che cominciavano a temere anche per sé. Le truppe d’altronde, essendosi affievolita – a causa della scarsa cura che Nerone rivolgeva loro – la lealtà alla dinastia che le aveva per l’innanzi caratterizzate, si mostrarono soprattutto fedeli ai loro comandanti, divenendo una nuova e importante variabile nei giochi della successione imperiale.
Nei primi mesi del 68 così Gaio Giulio Vindice, discendente di una nobile famiglia dell’Aquitania, e legato della Gallia Lugdunense, si ribellò all’imperatore anche dietro la spinta del malcontento della popolazione locale per l’eccessiva pressione del fisco; dopo di lui, nell’aprile, fu la volta di Servio Sulpicio Galba, legato della Tarraconense in Spagna, sostenuto dai suoi uomini oltre che da Marco Salvio Otone legato della Lusitania e da Aulo Cecina Alieno questore della Betica. Giulio Vindice tuttavia fu presto sconfitto dall’esercito della Germania Superiore, comandato da Verginio Rufo, rimasto leale a Nerone, mentre Galba fu dichiarato hostis publicus dal senato. Per fronteggiare la situazione l’imperatore chiamò in soccorso il legato della legione d’Africa Clodio Macro; anch’egli però si ribellò bloccando per di più i rifornimenti di grano dalla provincia all’Urbe. La situazione precipitò quando a Roma il prefetto del pretorio Nimfidio Sabino, che aveva sostituito Fenio Rufo, si avvicinò alle posizioni del senato, e insieme diedero avvio a trattative con gli inviati di Galba.
A Nerone non restava altra scelta che la fuga in Grecia o in Oriente, dove godeva ancora di un certo favore, ma venutogli meno l’appoggio dei pretoriani e dichiarato hostis publicus dal senato, braccato da una squadra di cavalieri, subito dopo aver pronunziato il verso omerico "il galoppo dei cavalli dai piedi rapidi ferisce i miei orecchi", il 9 di giugno del 68 si tolse la vita in una villa poco fuori Roma. La passione per la messinscena e la cultura greca non lo abbandonò neppure in punto di morte.
“Se al primo impatto la morte di Nerone aveva recato gioia, aveva poi suscitato reazioni contrastanti non solo a Roma, nei senatori, nel popolo, nei soldati di guarnigione, ma anche lontano, nei legionari e nei comandanti, perché era stato di colpo svelato un segreto (arcanum imperii), che cioè si poteva divenire imperatore anche non a Roma”. Con queste parole contenute in uno dei primi capitoli delle Storie, Tacito fa luce sull’assetto e sul conflitto dei poteri che caratterizzò gli ultimi mesi del regno di Nerone, e quelli immediatamente successivi alla sua morte, attirando l’attenzione sul cambiamento nelle procedure della successione imperiale verificatosi tra il 68 e il 69, e rappresentato dal fatto che l’imperatore poteva ormai essere scelto anche fuori Roma, e non solo dalle coorti pretorie e dal senato (con o senza il consenso della plebe urbana). A costituire la nuova forza entrata in campo nel ruolo di king-maker furono le legioni di stanza nelle province composte generalmente da Italiani.
Galba, il vecchio senatore dell’antica e nobile gens Sulpicia, proclamato imperatore dal senato l’8 giugno del 68 due mesi dopo il suo pronuciamento, dalla provincia di Tarraconense giunse nell’Urbe a prendere possesso del trono alla fine di settembre. Nonostante il contributo fondamentale alla sua ascesa offerto dal prefetto del pretorio Nimfidio Sabino, egli non fu generoso con lui inducendolo a un tentativo di usurpazione presto represso. Né Galba, restio alle largizioni di premi e donativi, riuscì a conquistarsi il favore dei pretoriani e della plebe urbana: egli fu l’imperatore della libertas senatoria che volle esaltare anche con l’abbandono del principio dinastico nella successione. Adottò infatti Lucio Calpurnio Pisone, non un membro della propria famiglia, ma colui che riteneva il migliore. Solo cinque giorni dopo aver effettuato tale scelta, il 15 gennaio del 69 Galba fu ucciso insieme a Pisone in seguito a una congiura ordita da Salvio Otone, che nell’aprile del 68, quand’era legato di Lusitania, di Galba aveva per primo preso le parti, ma non aveva ricevuto gli attesi riconoscimenti. Fu acclamato imperatore dai pretoriani, schieratisi al suo fianco, e fu presto confermato dal senato che gli attribuì la tribunicia potestas.
Otone, discendente da un’antica e nobile famiglia etrusca da tempo presente in senato, era stato – come si ricorderà – il marito di Poppea Sabina prima che essa si legasse a Nerone, e della corte di quest’ultimo era pure stato una delle figure più depravate e imprevedibili; in Lusitania, però, sulle sponde dell’Atlantico, dove rimase come legato per ben dieci anni, si rivelò uomo energico e intraprendente. E come imperatore mostrò saggezza ed equilibrio, ad esempio nei confronti del senato e dei provinciali, nel corso di un regno brevissimo di soli tre mesi.
Agli inizi di gennaio del 69, una quindicina di giorni prima di Otone, dalle legioni renane era stato acclamato imperatore Aulo Vitellio, il loro comandante, figlio di un senatore di successo al tempo di Claudio. Accanto a lui presero posizione gran parte delle province occidentali, e le sue truppe iniziarono la marcia verso l’Italia nonostante la stagione invernale. Otone per contrastarle lasciò Roma dirigendosi verso nord e si scontrò con loro a Bedriaco, presso Cremona, il 14 aprile: sconfitto pesantemente, l’ex legato di Lusitania, dopo aver esortato i suoi a salvarsi e a chiedere la clemenza del vincitore e dopo aver distrutto documenti compromettenti per altri, si tolse la vita dando un’alta prova di sé che nessuno di quelli che l’avevano visto scorrazzare da giovane per le strade di Roma con l’ultimo dei Giulio-Claudii avrebbe mai potuto immaginare. Quanto a Vitellio – al quale la notizia della vittoria di Bedriaco arrivò mentre si trovava a Lugdunum (Lione) – raggiunse Roma nel mese di luglio, suscitando non poche perplessità per le sue largizioni e la sua accondiscendenza nei confronti di pretoriani e legionari, per le sue spese senza freni, per le sue indiscriminate promozioni di amici e sostenitori, e non ultimo per la simpatia manifestata verso il defunto Nerone.
Nello stesso mese di luglio del 69 in cui Vitellio entrò a Roma, in Oriente Tito Flavio Vespasiano, che nel febbraio del 67 era stato inviato da Nerone a porre fine alla rivolta della Giudea, fu acclamato imperatore dalle truppe, raccogliendo il consenso di Licinio Muciano, legato di Siria, e di Tiberio Giulio Alessandro, prefetto d’Egitto, oltre che di dinasti quali Antioco di Commagene e Giulio Agrippa II insieme alla sorella Berenice. L’incarico di condurre le operazioni per la conquista del potere non fu però assunto dal capostipite dei Flavi, che rimase in attesa dell’esito in Egitto, da dove poteva controllare il rifornimento granario di Roma, e neppure da suo figlio Tito, impegnato nella prosecuzione della guerra in Giudea: la scelta cadde su Muciano. A giungere prima di lui in Italia fu comunque il legato di una legione danubiana originario di Tolosa, nelle Gallie, divenuto sostenitore di Vespasiano, Antonio Primo. Egli sconfisse l’esercito di Vitellio sul campo di battaglia di Bedriaco (ancora una volta!) alla fine di ottobre, e subito dopo mosse alla volta di Roma. Qui il fratello di Vespasiano Flavio Sabino, che ricopriva la carica di prefetto della città, e l’altro figlio dello stesso Vespasiano, Domiziano, erano impegnati in violenti scontri con i Vitelliani: essendosi rinchiusisi entrambi sul Campidoglio dato a fuoco dagli oppositori, il primo fu ucciso mentre il secondo si salvò a stento. Poco dopo l’incendio i reparti di Antonio Primo entrarono a Roma ed ebbero rapidamente ragione dei seguaci di Vitellio, che il 20 dicembre fu scoperto in un nascondiglio, torturato e ucciso. Dall’Oriente intanto giunse nell’Urbe il plenipotenziario Muciano che allontanò Antonio Primo, della cui lealtà non si era del tutto certi, e cercò di assicurare le magistrature più importanti a uomini fidati.
Vespasiano invece fece il suo ingresso a Roma solo nell’ottobre del 70 e cercò di avviare una politica di pacificazione dopo l’annus horribilis che, a più di un secolo di distanza, aveva riportato la guerra civile nella penisola con Italiani che si opponevano a Italiani negli eserciti di Otone, Vitellio e Vespasiano.
In conclusione, se Galba era stato espressione del senato e del suo ideale di libertas, se Otone era stato sostenuto dalle coorti pretorie, Vitellio diede voce alle truppe legionarie renane, e Vespasiano a quelle dell’Oriente, oltre che a re clienti e dinasti locali. Ma pur rappresentando centri di potere diversi che, nell’ultimo periodo di Nerone e dopo la sua morte, entrarono in conflitto in forme più gravi di altri momenti del passato determinando così la fine della prima fase del principato, durante la quale quest’ultimo era stato appannaggio di una dinastia nobiliare romana, i primi tre imperatori del 69 appaiono tuttavia accomunati dall’appartenenza alla vecchia classe dirigente dell’epoca giulio-claudia e da un forte radicamento nella sua visione politica. La novità fu invece costituita da Vespasiano, figlio di un appaltatore d’imposte e originario di Rieti nella Sabina, che riuscì a entrare in senato sotto Caligola. Prima dell’ascesa al trono egli aveva dato il meglio di sé in operazioni di guerra, nella conquista della Britannia del 43 e in Giudea a partire dal 67, ma dall’attività del padre aveva tratto un interesse non passeggero alla soluzione di problemi amministrativi e finanziari. Un profilo questo che differenzia Vespasiano dagli altri imperatori che lo avevano preceduto, e che ne fa un simbolo della trasformazione che l’impero aveva conosciuto nei cento anni trascorsi dagli inizi di Augusto, una trasformazione che portò all’eclissi della vecchia classe senatoria, progressivamente sostituita da nuovi elementi dall’Italia e dalle province, e significò l’assunzione da parte delle stesse province di un ruolo sempre più da protagoniste sul palcoscenico dell’impero.