I giornali nell’era di Internet
Il cittadino consapevole
Per capire come cambiano i giornali, in questo mondo dominato da Internet, dobbiamo innanzitutto domandarci qual è oggi il rapporto tra il cittadino e la società dell’informazione in cui viviamo immersi. Noi sappiamo che l’informazione è un diritto dei cittadini, e sappiamo anche che l’informazione è una funzione della democrazia; in realtà il cittadino è tale anche quando è disinformato, perché gode dei diritti fondamentali suoi propri, i diritti di cittadinanza, tra i quali il diritto supremo che è quello di scegliere la classe dirigente del Paese in Parlamento, decidendo quindi di punire o di premiare con il voto i nostri rappresentanti. Il cittadino, sia quello disinformato sia quello informato, è un soggetto che esercita la sua potestà di scelta nel momento supremo delle elezioni. E nella parte del mondo in cui noi viviamo, che si chiama Occidente, il cittadino sceglie liberamente. Ma cominciamo a chiederci: sceglie anche consapevolmente? E quanto consapevolmente?
Gli studi sulla qualità della democrazia che si fanno da decenni distinguono tra le democrazie che funzionano, le democrazie ‘difettose’, le democrazie ‘anomale’, le democrazie ‘a bassa intensità’, fino al termine che ha inventato Timothy Garton Ash per i Paesi dell’Est europeo, quando ha parlato di democrature, non potendosi più parlare di dittature e non ancora di democrazie. Secondo Robert Alan Dahl, per la buona democrazia non è sufficiente la cittadinanza, ma è necessaria una «cittadinanza illuminata». Che cos’è il «cittadino illuminato»? È un cittadino informato e dunque consapevole; consapevole perché informato. E perché questo cittadino illuminato dà vita collettivamente a quella che Dahl definisce «buona democrazia»? Perché un cittadino informato e consapevole può effettivamente diventare soggetto attivo di quello strumento delicatissimo delle nostre democrazie che si chiama pubblica opinione.
Naturalmente anche l’informazione non è qualcosa di invariato: se noi analizziamo soltanto gli ultimi venti o trent’anni, vediamo che la crescita dell’informazione è stata esplosiva in termini di quantità. La crescita dell’informazione è un valore in sé, anche perché la quantità dell’informazione si accompagna quasi necessariamente a una moltiplicazione delle fonti e a una maggiore facilità di accesso: quante più sono le fonti tanto più facile è accedere alle notizie, quante più sono le fonti tanto più facile è essere informati, quanto più cresce la quantità dell’informazione tanto più è facile avere la possibilità di formarsi delle opinioni diverse, attraverso la realizzazione concreta di un vero e proprio pluralismo.
Ma se facciamo un passo ulteriore, dopo aver detto che naturalmente l’esplosione della quantità dell’informazione è un valore in sé, dobbiamo ammettere che ciò che conta è un tipo particolare di qualità, che aiuta l’intelligenza degli avvenimenti, la comprensione dei fenomeni: vale a dire l’informazione organizzata. Cioè un’informazione collocata su una scala di riferimenti complessivi che sia in grado di rendere visibili non soltanto i protagonisti, ma anche gli interessi che li muovono, e metta in relazione questi interessi con l’interesse generale; che restituisca il contesto in cui la vicenda si svolge; che recuperi gli antecedenti di ogni singolo fatto che, se possibile, si proietti sulle con-seguenze probabili.
L’informazione organizzata fa ancora la diversità tra le notizie trattate da un giornale e quelle che arrivano ‘nude’ dai grandi mezzi veloci, quali Internet, la televisione intesa come notiziario, la radio: mezzi che per velocità e presenza continuativa battono il giornale quotidiano, che esce una volta sola al giorno e invecchia rapidamente. Anzi, per tutto il giorno il quotidiano crea sé stesso e si forma in preparazione e in vista di quell’unico momento che conta, ossia quando verrà stampato, distribuito, venduto, acquistato e finalmente letto dal suo vero destinatario, il cittadino. Ogni volta che arriva una notizia nuova, dal mattino in poi, il giornale non la può recepire semplicemente perché è già stato fatto, quindi invecchia rapidamente nel corso della giornata, così com’è lentamente cresciuto e ha preso forma nel corso della giornata precedente. È il destino del mestiere, la durata effimera di un lavoro complesso e collettivo, che obbliga ogni mattina l’intera redazione a ricominciare da capo, cancellando la lavagna, compreso lo scoop più accurato, più esclusivo e più riuscito.
E tuttavia la capacità del giornale di restituire questo paesaggio complessivo di comprensione dei fenomeni è qualcosa di specifico e di particolare, qualcosa che vale infinitamente più del prezzo a cui è venduta ogni singola copia. Partendo da un fatto, il giornale lo organizza, lo mette su una scala di riferimenti articolata, offre al lettore la possibilità di farsi una sua mappa della vicenda, gli restituisce i collegamenti con vicende correlate o con tappe precedenti della stessa vicenda, costruisce un ‘sistema’ informativo e, infine, si assume anche la responsabilità di dire quali sono il suo giudizio e il suo punto di vista. Nella convinzione che, dopo aver messo insieme i fatti e le testimonianze dei protagonisti (che hanno diritto di essere riportate nella loro interezza, comunque la pensi il giornale), con il suo commento il quotidiano non eserciti un diritto ma risponda a un dovere, facendo conoscere la sua opinione. Un’opinione espressa non in nome di un interesse particolare, ma in nome della cultura stessa del giornale, che lo porta a dare di certi fatti una certa lettura perché la sua griglia interpretativa, il suo schema del mondo lo spinge a considerare la realtà in quel modo. I lettori ne sono consapevoli perché ciò che comprano ogni mattina, oltre alla quantità e alla qualità dell’informazione, è proprio quella certa idea dell’Italia, quel modo di guardare al Paese, quello sguardo sul mondo, che in alcuni casi felici fa di un giornale una comunità riuscita.
La democrazia tipografica
Abbiamo analizzato, fin qui, il salto tra l’informazione in quanto tale e l’informazione organizzata, che consente di avere davvero una comprensione di ciò che accade e determina il passaggio del cittadino a protagonista consapevole, attivo, volontario, della pubblica opinione. Abbiamo visto come tutto questo segni la differenza tra conoscere e capire, tra guardare e vedere, tra essere semplicemente informati ed essere consapevoli di ciò che si conosce, perché l’informazione è così approfondita e così ampia che consente al lettore di assumersi la responsabilità di un’opinione su quella vicenda. Non necessariamente l’opinione che il cittadino si forma, dopo che gli è stato fornito questo paesaggio informativo così ampio, coincide con quella del giornale: ma è un aspetto assai poco importante, perché non è questo lo scambio tra un giornale e il lettore. Lo scambio è nella qualità dell’informazione che il cittadino riceve e nelle opinioni informate che la completano, in modo da favorire un’autonoma e libera comprensione dei fatti. Un giornale non può e non vuole vincolare i lettori alla sua opinione, perché non è un partito. Il giornale è in realtà molto di meno e infinitamente di più di un partito, perché ha una funzione totalmente diversa, anche se il rapporto tra un quotidiano e i suoi lettori è particolarissimo, trasforma l’insieme in una comunità viva, in cui l’uno influenza l’altro. Ma un giornale non è un partito anche perché in una società democratica a capotavola deve sedere la politica e nient’altro, è lei che deve avere in mano il mazzo, è lei che deve dare le carte, perché solo la politica è in grado di disciplinare il gioco contrastante degli interessi legittimi che sono in campo su ogni singola vicenda in nome dell’interesse generale.
Naturalmente occorre, perché tutto sia in qualche modo credibile, che il giornale dichiari quali sono gli interessi proprietari che mette in campo. Ci sono giornali di cui non conosciamo bene la proprietà, mentre è giusto che un giornale dichiari, insieme al nome del direttore, anche qual è il nome dell’azionista di maggioranza, in modo che il lettore possa con un gesto automatico, semplicissimo, incrociare ogni informazione sensibile con l’interesse legittimo che si rapporta al mondo imprenditoriale e all’azionista di controllo, per poter capire in che modo il giornale affronta quell’argomento, e trarne un giudizio.
Tutto ciò porta a dire che è giusta la metafora di uno studioso come Neil Postman, quando sostiene che la democrazia è «tipografica», perché tipografica è la mente del cittadino-lettore che è alla base del sistema politico del mondo occidentale; se la democrazia potesse scegliere i suoi soggetti attivi, è stato detto, inventerebbe probabilmente un cittadino-lettore, protagonista di quella che con Jürgen Habermas potremmo definire la ‘sfera pubblica’. Anzi, il cittadino-lettore rappresenta con ogni probabilità l’Homo sapiens del 21° secolo.
Da qui si capisce come anche nel nostro Paese sia ora di abbandonare la vecchia domanda che si continua a rivolgere ai giornali, chiedendo «con chi stai», per passare finalmente alla vera domanda delle democrazie liberali: «chi sei». Perché solo se davvero posso sapere in cosa consistono la natura, l’anima, la composizione della cultura originaria di un giornale, quale sia stato lo sviluppo che questa cultura ha avuto nel corso delle generazioni che l’hanno rappresentata realizzando quotidianamente le sue pagine, allora posso capire perché quel giornale prende certe posizioni in certe circostanze, perché ‘sta’ con questi o contro quelli: non per un disegno ideologico astratto, ma semplicemente perché il suo modo di essere, la sua cultura lo portano a ritenere sbagliato quel provvedimento, ad appoggiare quella misura, a sostenere una determinata campagna, a condurre una battaglia culturale.
Quest’ultimo aspetto è nuovo e particolarmente significativo. In tutto l’Occidente, negli ultimi anni, il giornale quotidiano è all’improvviso diventato un nuovo, inedito e sorprendente strumento per la divulgazione delle idee, la riflessione pubblica sui grandi temi dell’epoca, la battaglia culturale nel senso più ampio – e anche più alto – del termine. Con ogni probabilità, questa novità nella nostra parte del mondo nasce a ridosso della guerra in ῾Irāq, quando la discussione che divide e appassiona l’opinione pubblica divide comunità di lavoro, gruppi solidali, maestri e allievi (come avvenne tra Norberto Bobbio e i suoi giovani professori). Una discussione che non riguardava soltanto le categorie ideologiche, e nemmeno il calcolo di opportunità e di convenienza, ma che mise in campo subito domande di natura etica (sempre Bobbio si interrogò per primo sul concetto di ‘guerra giusta’). I giornali, dimostrando immediatamente di essere un organismo vitale e reattivo, collegato con il sentimento e anche con le inquietudini collettive e con la domanda di significato che ne deriva, capirono che bisognava fuoriuscire dai moduli tradizionali se si voleva intercettare questo nuovissimo bisogno di orientamento più che di informazione, un aiuto a conoscere, per poter capire, una richiesta di risalire alle grandi categorie morali che un evento cruciale e in gran parte nuovo come la guerra metteva in campo. Tecnicamente, non bastavano più gli editoriali classici, gli articoli degli esperti, i reportage degli inviati, le interviste ai protagonisti e ai responsabili delle decisioni, ai soggetti coinvolti. Così la dimensione culturale di lettura, rappresentazione e interpretazione della realtà è uscita dai settori deputati del quotidiano, ed è approdata alla prima pagina, dando spazio alle ‘Idee’. Termine neutro, universale, extra-vagante, nel senso che esce dai confini della costituente di opinioni propria del giornale, perché il quotidiano va a cercare le ‘idee’ ovunque si formino, comunque nascano, in qualunque direzione portino, purché forniscano elementi nuovi di riflessione e mettano in movimento la visione critica degli avvenimenti.
Su «la Repubblica», l’incursione positiva delle idee ha addirittura prodotto una pubblicazione settimanale specifica, chiamata «Diario», che in due-tre pagine affronta ogni volta una parola tipica della fase che si sta vivendo, la inclina sul suo significato topico del momento, e la declina attraverso l’intervento di tre esperti scelti sul mercato internazionale delle idee, con il corredo bibliografico del caso.
In questo modo, e in questo senso, il giornale quotidiano risponde anche ai timori di chi, come Richard Langton Gregory nel saggio di Luciano Gallino su Tecnologia e democrazia (2007), sospetta il rischio che tutto diventi parte dell’intelligenza artificiale. Un’intelligenza che «alla fine del processo di produzione della conoscenza che interamente controlla» ha bisogno di un risolutore esterno, il quale però sceglie liberamente – per così dire – un’opzione già definita. Bene: la tesi è inquietante, la complessità artigianale del modo di produzione del giornale è al contrario rassicurante. Il prodotto giornale, soprattutto nella sua fase di elaborazione culturale a partire dai fatti, nelle ‘idee’, nei commenti, nelle opzioni civili di fondo, non può essere definito, deciso e composto dal ‘risolutore tecnologico’. Il quotidiano vive la sua giornata tutto immerso dentro il divenire elettronico delle news: ma il suo farsi, il suo compiersi, il suo decidersi è completamente esterno e sottoposto a controlli incrociati, a dubbi, a verifiche costanti, al controllo collettivo, attraverso un meccanismo autocratico corretto da un continuo controllo democratico. Il decisore tecnologico non abita ancora nelle redazioni, non fa ancora il giornale. Grazie al cielo, la normale ed estrema complessità del quotidiano, la sua specifica cifra culturale e civile, la sua passione per la battaglia delle idee lo rende semplicemente impossibile.
Il mediatore culturale
Sorprendentemente, per tutto ciò che abbiamo detto il giornale si riscopre dunque mediatore culturale d’eccellenza, nella fase onnipotente di Internet, nella surroga onnivora della televisione, nella supplenza debole dello star system. Ciò accade per la sua aderenza al quotidiano, per la sua flessibilità nel seguire i fatti, per la connessione tecnica che sa creare tra avvenimenti e idee, per le energie intellettuali che riesce a mobilitare con l’immediatezza dei suoi bisogni e dunque dei suoi tempi, per la ‘traduzione’ necessaria e utilissima che sa fare dal linguaggio specifico o scientifico degli esperti al consumo culturale per il grande pubblico. Come abbiamo detto, questa novità spontanea nasce ovunque, in Occidente. Ma nel nostro Paese, tutto ciò avviene nel momento in cui altre grandi agenzie culturali declinano, o si rivelano inadatte allo scopo. Pensiamo soltanto ai partiti politici – in passato a modo loro dei grandi pedagoghi culturali –, che sono tutti o quasi di nascita o rinascita recentissima, e dunque non hanno quel portato culturale di tradizione che in altri Paesi può funzionare come punto di riferimento per i cittadini; i quali possono magari discostarsene legittimamente, com’è chiaro, ma hanno comunque a disposizione sulle grandi questioni dell’epoca un’elaborazione di pensiero, intrecciata ai loro valori di riferimento e anche ai loro legittimi interessi. In Italia tutto questo manca, per evidenti ragioni. E il giornale, mentre molti cantano la sua vecchiaia, si è trovato a svolgere proprio questo compito di mediazione culturale, di elaborazione dei fatti complessi e di ricerca della loro connessione con le idee, di reinterpretazione in chiave etica di controverse vicende quotidiane di grande evidenza. In questo senso, e nel piccolo della loro dimensione, i giornali hanno lavorato sui fondamenti culturali di una ‘comunità’, cercando di fornire al lettore-cittadino spaesato dalla mancanza di riferimenti sicuri e permanenti (perché, come dice Zygmunt Bauman, «nulla dura abbastanza a lungo da essere pienamente acquisito», 2000; trad. it. 2007, p. 46) quegli elementi di esperienza e di coesione intellettuale che consentano una visione non puramente episodica ed emozionale degli avvenimenti.
La moderna agorà
I giornali in Italia si vendono poco e, rispetto agli altri Paesi, costano troppo. Per usare una formula riassuntiva di questo squilibrio, possiamo dire che i quotidiani italiani costano più del «New York Times», ma non valgono più del «New York Times». Nel rapporto tra copie vendute e popolazione, da anni non si riesce a salire oltre il muro del 10%, una percentuale che è stata definita mediterranea per le corrispondenze che trova in Grecia e Spagna, ma che ci penalizza duramente se ci confrontiamo con Paesi a noi più vicini nella produzione del reddito (basti pensare che in Germania si vendono 28,9 copie ogni cento abitanti, in Austria 30,3, in Olanda 26,8, in Francia 13,4, in Svezia 41,2, secondo i dati del 2004 della Federazione italiana editori di giornali, FIEG). Tuttavia, dietro questa realtà esistono alcune condizioni strutturali del tutto specifiche, sulle quali vale la pena riflettere. L’Italia è un Paese dove la televisione divora una quota della torta pubblicitaria complessiva che non ha uguali in nessun’altra democrazia occidentale. Negli Stati Uniti, secondo il World Press Trend 2003, la quota destinata alla televisione non supera il 36%, in Germania arriva appena al 23%. Questo perché si ritiene che garantire ai giornali una possibilità di accesso al mercato pubblicitario significhi salvaguardare un’articolazione dei messaggi formativi della pubblica opinione e dunque, alla fine, proprio quegli elementi di buona cittadinanza che fanno parte di una democrazia occidentale: teniamo conto che sono sempre più, come avverte Ilvo Diamanti (2003), i cittadini che dichiarano di ricevere informazioni politiche «prevalentemente» dalla televisione, e in Italia questa quota è più alta che in qualsiasi Paese europeo, mentre è in forte crescita il numero di coloro che dichiarano di essere informati «esclusivamente» dalla televisione.
La TV, dunque, è la moderna agorà, lo spazio nel quale i soggetti politici si accreditano presso l’opinione pubblica e in cui prende corpo lo scambio che, da una parte, promuove valori, idee, promesse di rappresentanza e di tutela di interessi legittimi e, dall’altra, mette in campo il voto e la delega consapevole dei cittadini. Tutto questo non per particolari meriti specifici della televisione, nel processo di discussione pubblica e di comprensione dei fenomeni. Ma semplicemente perché, come rivela la ricerca del Censis su Piazze e popoli virtuali presentata a giugno 2004, nella specialissima dieta mediatica degli italiani il 9,1% della popolazione (pari a 4,5 milioni di persone) vede solo la televisione, e il 37,5% (circa 18,4 milioni) non legge mai un libro e non sa nemmeno che cosa sia Internet. È quella che il Censis definisce la condizione di «solitudine televisiva», una solitudine che si allarga al 46,6% della popolazione, particolarmente esposto a un unico strumento mediatico cui è debitore in toto degli elementi di conoscenza e di valutazione riguardanti la vicenda pubblica.
Il mercato del consenso
Ecco perché quel mercato del consenso in altri Paesi è considerato ‘sensibile’ e delicato, e va tutelato sotto l’aspetto del libero concorso di flussi d’opinione diverse, perché lì è il punto d’incontro tra il cittadino consapevole e i soggetti politici organizzati che ne raccolgono l’impulso e la delega per trasformarla in politica attiva. Ma vediamo l’Italia. Nel nostro Paese la quota di pubblicità riservata alle televisioni è arrivata nel 2007 al 54%, ed è naturale che i giornali debbano alzare il prezzo per sopravvivere, allontanando per forza di cose dall’acquisto le fasce più deboli di pubblico, quelle più esposte alla crisi economica, riducendo così strutturalmente (al di là della qualità e dei contenuti) il loro ruolo e il loro spazio nella moderna agorà; e lasciando campo libero alla cavalcata egemone della televisione – per altro soggetta a un conclamato conflitto d’interessi – nel discorso pubblico italiano.
E tuttavia la FIEG calcola un moltiplicatore di 2,5 lettori per ogni copia di quotidiano venduto, un moltiplicatore che in qualche caso – per le testate più importanti – sale a quota 4 o anche 4,5. Mancano gli acquirenti, dunque, mentre in qualche modo i lettori ci sono. Ricordiamo ancora che in un Paese come il Giappone il 73% delle copie viene comprato in abbonamento, in Corea il 74%; dunque l’intenzione e la motivazione d’acquisto si manifestano una volta all’anno e da quel momento il giornale arriva tutte le mattine a casa del cliente, qualunque cosa il quotidiano scriva e qualunque sia l’impatto dei fatti del momento, che non influenzano se non marginalmente l’andamento delle vendite. Al contrario, in Italia per il 73% (la stessa percentuale, ma a rovescio) le copie vengono comprate direttamente in edicola: il che significa cercare e scegliere il giornale ogni mattina, rinnovando quel contratto ogni giorno volontariamente, fermandosi per strada a cercare un punto vendita con il bel tempo e con la pioggia, con la fretta e con altri impegni pressanti. Facendosi largo in quella moderna torre di Babele che è diventata oggi l’edicola, scegliendo dentro l’arco di un pluralismo politico e informativo finalmente amplissimo e completo (ora che è nata e si è sviluppata anche una stampa di destra), indicando proprio quel quotidiano, e pagando un euro per averlo. Un’operazione volontaria, complessa, interamente rinnovabile ogni mattino, soggetta all’inevitabile influenza degli eventi. Tenendo conto, come dice Walter Lippmann, che il lettore «è l’unico e quotidiano giudice della propria fedeltà, e non gli si può far causa per rottura di promessa di matrimonio o per mancata corresponsione di alimenti», perché «la fedeltà del pubblico a un giornale non viene sanzionata da alcun contratto» (1922; trad. it. 2004, p. 237). E tuttavia, quell’importante operazione di scelta, di acquisto e di fedeltà viene ripetuta da migliaia di persone ogni giorno, per 365 giorni all’anno, anno dopo anno e spesso dura addirittura per tutta la vita.
Questa analisi del mercato anomalo della stampa quotidiana in Italia si può concludere con un giudizio controcorrente. Perché il filo che unisce e tiene insieme il giornale e i suoi lettori, quel filo esile del valore di un euro, fatto di carta e d’inchiostro, tecnologicamente antico, deve essere in realtà molto robusto per stabilire e reggere un legame di questo tipo. Un legame continuativo, identitario, che dura nel tempo e giorno dopo giorno forma un gomitolo di appartenenza, qualcosa che va molto al di là della missione informativa dei quotidiani e li trasforma in vere e proprie agenzie culturali nel senso più ampio del termine. E nello stesso tempo, per la forza simmetrica delle cose, trasforma il lettore quotidiano in qualcosa di molto diverso da un ‘cliente’: una sorta di azionista dell’identità e della piattaforma culturale del giornale, un soggetto individuale e collettivo che mentre ne è influenzato lo influenza.
La terza gamba
Il fenomeno modernissimo degli allegati ai giornali dimostra proprio questo. Nel corso di tutti gli anni Novanta, i quotidiani italiani (come avveniva anche in altri Paesi) hanno sviluppato una politica di marketing che consisteva in una grande e praticamente costante offerta gratuita ai lettori di prodotti cartacei in forma di fascicoli da raccogliere per ottenere – a fine promozione – un volume. I temi passavano dall’arte ai computer. Nel 2002 c’è stata una svolta radicale e decisiva, sia per i bilanci delle società editrici sia per i lettori. I giornali hanno infatti lanciato nelle edicole, a pagamento, vere e proprie collane di libri tratte dal mercato editoriale corrente e d’eccellenza, articolate sia per la narrativa sia per la saggistica. Collane ri-costruite appositamente per i quotidiani, che le selezionavano sul mercato e le costruivano tagliandole sul loro pubblico specifico, con la ricerca esplicita dei titoli migliori, degli autori più famosi, di una veste editoriale di assoluta qualità. Il successo è stato immediato, travolgente e soprattutto duraturo. Il quotidiano che ha aperto questa nuova strada è stato «la Repubblica». L’anno precedente all’avvio di questa nuova politica di vendita, con la proposta in edicola di libri di narrativa allegati ai giornali, in tutte le librerie italiane si erano venduti 21 milioni di copie di romanzi; l’anno dopo, «la Repubblica» da sola ne ha venduti 25 milioni. Grande successo anche per le proposte di altri quotidiani.
Tutti i giornali italiani coltivano oggi questo mercato parallelo e coerente (con romanzi, saggi, collane di storia del fascismo, storia delle religioni e storia della letteratura italiana, con proposte di gialli d’autore e fumetti per ragazzi, con enciclopedie e raccolte di filosofia, manuali di giardinaggio, di cucina e di management). Dal punto di vista economico, il successo dimostra che il vecchio settore della stampa quotidiana, dopo i due canali storici di proventi per vendita e per pubblicità, è stato managerialmente capace di calare una terza gamba nel mercato, ossia le entrate per libri, CD musicali, DVD con film famosi, provocando una trasformazione irreversibile delle aziende dei giornali in aziende editoriali nel senso più ampio del termine. Ma il successo dimostra qualcosa di più, e di più importante, dal punto di vista politico e culturale. Il risultato così felice di queste iniziative testimonia infatti che il lettore si fida del mondo di riferimento di un quotidiano, del suo perimetro culturale, delle sue scelte e della sua garanzia. Anzi, considera il ‘suo’ giornale titolato a compiere queste scelte di preselezione in nome e per conto dei lettori, come se il quotidiano avesse la capacità riconoscibile e riconosciuta di ritagliare dal mercato un mondo di riferimento appositamente ricomposto e riordinato per i suoi lettori, una grande, infinita collana ideale che si allarga attorno al giornale proprio perché è coerente con il suo mondo e la sua identità. Questo significa, in sostanza, riconoscere nei fatti che nel giornale c’è molto più del valore d’uso informativo. C’è la funzione di una agenzia culturale, che ogni giorno forma sé stessa e il suo mondo ideale sotto gli occhi del lettore, per suo conto e insieme con lui.
Il flusso e il senso
Tre volte nel corso dell’ultimo secolo è stata decretata la morte del giornale, perché le tecnologie più moderne lo avrebbero, secondo i profeti di sventura, sconfitto e ucciso: quando è nato il telefono, quando è nata la radio e quando è nata la televisione. I giornali hanno proseguito invece nella loro vita, come ricordava il direttore di «Newsweek» qualche anno fa, all’epoca del boom di Internet. E tuttavia non c’è dubbio che la rivoluzione questa volta è totale perché riguarda tutti gli aspetti della nostra vita, e la sfida è suprema. Internet ha cambiato la storia (tutto è contemporaneo nel web), Internet ha cambiato la geografia (tutto è ubiquo, ogni punto della rete risulta accessibile da un altro punto), Internet ha cambiato l’economia, creando nuove enormi fortune dal nulla, Internet ha determinato un’inversione di conoscenza tra le generazioni (con i figli che sono più esperti di navigazione dei padri), come solo altre due volte era avvenuto nella modernità: quando i ragazzi soldati tornavano dalla guerra nelle campagne e sulle montagne e raccontavano un mondo che i loro genitori non avevano visto e non avrebbero visto mai; e quando la scolarizzazione di massa promosse intere leve di figli oltre il sapere delle loro famiglie d’origine. Internet insomma è senza alcun dubbio rivoluzionario, come se la vecchia formula di Lenin – «Soviet + elettricità» – trovasse una declinazione nuovissima e attuale: «informazione + elettronica». Ma allora, ecco la domanda capitale che a questo punto dobbiamo porci: come possono i giornali convivere con Internet?
C’è una ragione specifica, e c’è una risposta semplice. Internet è imbattibile come flusso d’informazione, nel quale tutto è in tempo reale ma tutto è raggiungibile, la gerarchia di valore è meno importante dello scorrimento del nastro, ogni cosa ingrossa il fiume in piena, non importa da dove viene e cosa veicola. Su questo piano, la partita è impossibile. Il giornale non scorre, esce. Si fa per tutto il giorno, ma si stampa a un’ora prefissata e non può essere rifatto. Internet è una continua ri-edizione di sé stesso, il quotidiano per tutta la giornata tende al momento supremo della sua edizione, il momento verso cui tutto il lavoro è finalizzato e si compie. Ma la partita non è questa, per la semplice e decisiva ragione che i giornali non sono flusso. I giornali stanno dentro il flusso, naturalmente, e stanno nel mare di informazione che passa attraverso di loro, allargano le loro mani e cercano di trattenere qualcosa tra quei pezzi di informazione che scorrono incessanti. Molto più di ciò che trattengono lo lasciano scorrere. E con ciò che trattengono, con quelle notizie, con quegli avvenimenti costruiscono ogni giorno una vera e propria cattedrale ambiziosissima, che pretende e tende ad assomigliare alla giornata che abbiamo attraversato, alla fase che stiamo vivendo e la vuole rappresentare. In modo che il giorno dopo chi la guarda, la legge e non ha vissuto quegli avvenimenti li capisca, li riconosca, li possa penetrare e li possa dominare attraverso la ricostruzione che i giornali hanno realizzato. La differenza è fondamentale. Il quotidiano non veicola un fascio di notizie, badando alla sua ampiezza, ma le singole notizie con la percezione, la cognizione di quanto è accaduto in un giorno, attraverso la continua ricostruzione del contesto cognitivo. Come distinguono i giornali ciò che devono trattenere e ciò che possono lasciar scorrere? Trattengono ciò che è portatore di senso, trattengono quelle notizie che hanno un deposito di significato: e in questa ricerca di senso, in questa attenzione al significato delle cose sta la motivazione più alta del lavoro giornalistico, sta la sua ragione civile.
In fondo, anche su questo, aveva già detto tutto W. Lippmann, allorché invitava a riflettere sul fatto che «il giornalismo, fuorché in casi eccezionali, non è un’esposizione di prima mano del materiale grezzo. È un’esposizione di questo materiale già resa stilizzata» (1922; trad. it. 2004, p. 251). È attraverso questa operazione – squisitamente giornalistica – che avviene la ‘comunicazione’ di tutto: «La situazione di fatto in tutta la sua dilagante complessità, l’atto manifesto che la segnala, il comunicato stereotipato che rende noto il segnale, e il senso che il lettore gli attribuisce, dopo averlo tratto dall’esperienza che direttamente lo tocca». Fino ad arrivare alla conclusione di Lippmann: «Penetrare con l’immaginazione nel nocciolo della questione è per il lettore come uscire da sé stesso ed entrare in vite molto diverse» (p. 253).
L’esercizio della responsabilità
Infine, bisogna tener presente che l’informazione non è un diritto cieco, è un diritto in qualche modo assoluto, ma non certamente cieco. Chiunque abbia fatto giornali, notiziari televisivi, in radio, su Internet, sa che il diritto all’informazione rischia di entrare in conflitto se non altro con i diritti delle persone che vengono coinvolte da quel tipo di informazioni (persone terze, soggetti deboli che hanno titolo a essere tutelate); oppure con l’interesse supremo dello Stato democratico. Se un giornale, per es., viene a conoscenza di un’operazione antiterrorismo che si svolgerà nella notte, ma capisce che diffondendo la notizia si assume la responsabilità di far scappare i terroristi, ecco che il diritto dei cittadini a essere informati deve tener conto di quest’altro diritto della collettività a essere tutelata. È l’esercizio della responsabilità, che fa parte del giornalismo. Ecco perché il giornale non è soltanto flusso, non è un rubinetto che si apre per far passare di tutto. Il giornale è un sistema organizzato di lettura della giornata, organizzato in modo responsabile, e deve guardare nella maniera più ampia e complessiva possibile ai diritti del cittadino. Che cominciano con il diritto di essere informato, di conoscere e capire, ma non si fermano e non si esauriscono qui.
What happened e what it means
Ecco qual è lo specifico del giornale, la sua ragione di sopravvivenza, la possibilità per il quotidiano di convivere accanto a Internet, in un sistema integrato. Quel sistema è il ciclo continuo, un ciclo 24×7 che scorre di notte su Internet con il nastro delle news, propone al mattino il giornale di carta, con tutto il mondo riorganizzato che il quotidiano evoca e restituisce, e continua nel corso della giornata con il flusso elettronico (web, radio e televisione su Internet), per tornare il mattino dopo a riprendere tutte queste informazioni, insieme con altre originali, riordinate e rielaborate dentro quel paesaggio civile complessivo che soltanto il giornale ha la capacità di creare. Insieme con un’altra sua esclusiva, che non è certo secondaria e non può essere dimenticata: il piacere per la bella scrittura e la buona lettura.
Il giornale dovrà sempre più spostarsi, in questa sfida-collaborazione con Internet, verso un territorio nuovo, obbligatorio, se vuole continuare a essere un organismo vivo e vitale. Deve sapere che il suo lettore del mattino le notizie le sa già, e tuttavia le vuole ritrovare sul giornale, perché sono il cardine della giornata. Vanno quindi presentate in forma, modulo e linguaggio originali, con gli approfondimenti necessari, cercando i retroscena, facendo parlare i protagonisti, soprattutto spiegando il significato delle cose.
Per usare una formula, il giornale di domani sarà sempre meno what happened e sempre più what it means. Qui sta la sua nuova missione: ecco il fatto del giorno, lo conoscete già, e tuttavia da qui deve partire la nostra osservazione e la nostra riflessione comune sull’attualità. Anche perché di quel fatto non sapete tutto: proviamo a capire che cosa vuol dire, dove può portare, che interessi muove, chi avvantaggia e chi penalizza, quali idee e quali forze mette in campo? In una formula, proviamo a capire davvero ‘che cosa significa’? Questa è la domanda cui il giornale oggi deve rispondere principalmente, sapendo che all’esigenza di conoscere le notizie hanno già risposto Internet, la radio o la televisione. Ma all’esigenza di capire il what it means probabilmente può rispondere meglio il buon vecchio, eterno giornale di carta. In fondo, il giornale italiano è oggi adatto proprio a quest’ultima trasformazione. La mancanza storica di una distinzione nel nostro Paese tra i quotidiani cosiddetti d’élite e i tabloid o popolari, ha fatto nascere – in particolare a partire dai primi anni Novanta – la formula italianissima del giornale omnibus, che mescola elementi popolari con un giornalismo di qualità: cultura, editoriali, reportage e inchieste convivono felicemente con calcio, cronaca nera e pagine leggere dell’area life. Questa mescolanza ha consentito di importare nuovi linguaggi, moduli trasversali e codici multipli, abbattendo le pareti che per decenni hanno distinto il giornalismo del quotidiano da quello del settimanale. Questo vale per la scrittura, ma vale ancor più per la tecnica di costruzione delle pagine, dei servizi, per il montaggio e l’infografica che caratterizzano ormai quasi tutti i quotidiani. È nato, si potrebbe dire, il ‘giornale totale’, che mescola stili e moduli del quotidiano con quelli del settimanale, si prolunga fino al mensile con approfondimenti presi da quella scuola, importa sulla stampa tecniche d’immagine tipiche della televisione, usa pagine-schermate nate su Internet.
I falsi idoli
Oggi, l’ultima sfida è l’integrazione con Internet, abbattendo anche i muri fisici tra le redazioni cartacee ed elettroniche, in modo da ragionare 24 ore su 24 su un giornale a ciclo continuo, capace di dare le notizie quando arrivano, di competere con le agenzie e una volta al giorno di sistemare tutto nell’edizione di carta, che fa il punto, lo allarga, lo sistema, lo disciplina e lo approfondisce nella sua capacità di organizzare fatti e notizie, si assume la responsabilità di orientare il lettore anche con i commenti. Questo mezzo di ri-lettura della giornata, che raccoglie le notizie già note al lettore, allarga il loro spettro di significato, le penetra negli interessi che veicolano, disegna un contesto, è particolarmente utile – come strumento di partecipazione civile alla vicenda pubblica – in questa fase di evoluzione-involuzione della politica dove, come spiega Z. Bauman (Society under siege, 2002; trad. it. 2005), il cittadino non crede più nell’efficacia di azioni pubbliche durature ed è il momento della moderna ‘idolatria’. Gli idoli nascono quando «la notorietà sostituisce la fama», la celebrità prende il posto della stima, la politica si muta in eventi, che – dice François Brune – trasformano il cittadino in pubblico (cit. in Bauman 2002; trad. it. 2005, p. 189). E il pubblico-folla «attraverso il puro e semplice potere dei numeri attribuisce carisma agli idoli – ancora Bauman – e il carisma degli idoli trasforma gli spettatori in seguaci» (p. 186).
Il giornale è una contromisura, un antidoto. In questo, svolge una funzione di fortissima modernità, aiutando il lettore a decrittare i nuovi fenomeni della moderna idolatria mediatica, televisiva, politica. Sapendo, molto semplicemente, che il cittadino informato svilupperà infine quella capacità critica autonoma che lo rende davvero soggetto ideale della democrazia. Svilupperà quella immunity to eloquence di cui parlava Bertrand Russell (Power: a new social analysis, 1938, ed. 2004, p. 247), la capacità cioè di resistere alla magia delle parole. E potrà farlo attraverso la lettura laica del giornale, che si pone contro ogni falsa magia nella sua ricerca ostinata e selettiva, attraverso i fatti, del senso delle cose: ciò che vale la pena sapere, ciò che merita di essere ricordato, ciò che resta da capire per poter prendere effettivamente parte al discorso pubblico del proprio Paese.
Bibliografia
W. Lippmann, Public opinion, New York 1922 (trad. it. Roma 2004).
J. Habermas, Strukturwandel der Öffentlichkeit, Neuwied 1962 (trad. it. Storia e critica dell’opinione pubblica, Roma-Bari 2005).
N. Postman, Amusing ourselves to death: public discourse in the age of show business, New York 1985 (trad. it. Venezia 2002).
R.A. Dahl, On democracy, New Haven-London 1998 (trad. it. Roma 2002).
Z. Bauman, Community, Cambridge 2000 (trad. it. Voglia di comunità, Roma-Bari 2007).
I. Diamanti, Bianco, rosso, verde... e azzurro. Mappe e colori dell’Italia politica, Bologna 2003.
T. Garton Ash, First know your donkey, «The Guardian», 27 gennaio 2005.
L. Gallino, Tecnologia e democrazia, Torino 2007.