Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’età dell’umanesimo è definita dai musicologi “età della chanson”, per il rapido diffondersi di questo genere poetico-musicale presso i centri culturali più avanzati di tutta Europa. La chanson rinnova profondamente la tecnica compositiva polifonica, sia per quanto concerne il rapporto fra testo e musica, sia nel bilanciamento delle voci, sempre più polarizzate fra i due registri estremi del “soprano”, che tiene la linea melodica, e del “basso”, con funzione armonica. Sul finire del secolo nuove forme “nazionali”, come la frottola in Italia, si impongono nel gusto delle corti, contribuendo al declino definitivo delle “forme fisse” della polifonia tardo -medievale. Anche nell’ambito della musica liturgica il rinnovamento è evidente, sia nel genere del mottetto, sia nella messa, per la quale è ora definito il principio compositivo basato sul cantus firmus, affidato alla voce del tenor.
La musica profana: dalla chanson alla frottola
Il periodo che va, approssimativamente, dal 1430 al 1480 viene indicato dagli storici della musica come “età della chanson”, intendendo con questo termine un genere polifonico profano, fiorito tra Francia e Borgogna, che si diffonde in modo così capillare da essere coltivato, nell’élite dei litterati, a ogni latitudine continentale.
Il francese, assunto come “lingua franca” internazionale, veicola questa “canzone”, d’argomento per lo più amoroso, e la introduce nelle varie corti europee, facendola preferire agli altri generi poetico-musicali locali e nazionali, che sempre più arretrano e riducono la loro presenza nelle fonti musicali. Il nome stesso di queste antologie musicali – chansonniers – tradisce l’oggetto prevalentemente contenuto in esse; ed è rivelatore della circolazione internazionale delle chansons pure il fatto che tali manoscritti vengano confezionati, spesso con curato lusso ornamentale, in Francia ma anche in altre nazioni. Così avviene, ad esempio, in Italia, la culla per antonomasia della civiltà rinascimentale e del patronage artistico, nonché la meta agognata (e di agognati ingaggi) dalle prime generazioni di musicisti nordici (i cosiddetti “franco-fiamminghi”).
La novità del genere non va cercata, però, in sede letteraria o linguistica, né tantomeno formale, perché sotto questi aspetti la chanson si fonda sulla tradizionale retorica musicale dell’ ars nova, canonizzata da Guillaume de Machaut e dai suoi successori (i compositori nello stile “manieristico” dell’ ars subtilior). Formalmente, infatti, la chanson quattrocentesca è ancora incardinata alle cosiddette formes fixes francesi (ballade, virelai, rondeau), mentre nuova, semmai, è la tendenza a privilegiare l’intonazione di rondeaux (genere che a sua volta è divenuto ormai solo un parente lontano del duecentesco rondet de carole, cioè del ballo in tondo); ma in ogni caso questi sono da intendersi, ancor più che in passato, come meri contenitori formali pronti all’uso, da riempire di volta in volta di contenuti musicali. Parimenti tradizionale è la scrittura ritmica basata sul sistema mensurale, che verrà solo perfezionato e in qualche modo anche semplificato; così come la tendenza, nelle composizioni a tre voci (cantus, tenor e contratenor), a concentrare il movimento melodico alla voce superiore (cantus), che sta in stretto contrappunto con il tenor, mentre l’altra voce fa da accompagnamento e riempitivo armonico.
Veramente nuova, invece – e sintomo indubbio della sensibilità umanistica – è l’attenzione che, a partire dai capiscuola del genere, Guillaume Du Fay e Gilles Binchois, i musicisti dedicano all’espressività della parola e ai nessi retorico-musicali: ogni verso poetico è contrassegnato da una linea melodica altrettanto chiaramente definita, rilevata mediante una rigorosa “punteggiatura” musicale (pause, cadenze sui toni principali, introduzioni e codette strumentali, tessiture differenziate e alternanza di moto ascendente e discendente). Inoltre, al fine di aumentare l’interazione e l’intreccio delle parti vocali, un ruolo sempre maggiore sarà giocato dalla tecnica “imitativa”, per cui un motivo, o uno spunto motivico, appena esposto da una voce, viene ripreso a breve distanza da altre voci. Questa risorsa, così essenziale alla logica strutturale della polifonia, sortisce potenti effetti espressivi quando viene applicata a frasi e a porzioni di testo, le quali, ripetendosi tra le varie voci, creano una sorta di rimbalzante effetto d’eco verbale. Paradigmatica in tal senso, tra gli esempi del primo Quattrocento, è l’intonazione che il giovane Du Fay fa – probabilmente durante il suo soggiorno alla corte malatestiana di Pesaro e Rimini – della petrarchesca Vergene bella che di sol vestita: un omaggio a una grande lirica italiana mai messa in polifonia prima d’allora, che sembra anticipare straordinariamente l’estetica madrigalistica cinquecentesca.
È però alle chansons francesi che Du Fay deve la sua fama, avendo composto almeno 60 rondeaux, una decina di ballades e quattro virelais. In esse sperimenta sempre nuove soluzioni, aprendosi alla contaminazione con altri generi (anche sacri o paraliturgici, come la lauda o l’inno polifonico): sovverte la gerarchia tradizionale delle parti vocali, optando spesso per il duetto tra tenor e cantus, adotta ritmi più incisivi e accattivanti, distribuisce il testo tra tutte le voci, enfatizzandolo con i procedimenti espressivi sopra accennati per Vergene bella. Inoltre, tipico della tecnica musicale del tempo è il largo impiego di materiali melodici non originali (temi e canzoncine popolari o folcloriche ecc.), che ora vengono immessi nella “fabbrica” polifonica della composizione e abilmente variati nel ritmo: questa tecnica della “parafrasi” conoscerà esiti macroscopici soprattutto nella polifonia sacra quattro-cinquecentesca.
Gli sviluppi principali della chanson tardo-quattrocentesca si possono quindi sintetizzare come segue: la tipologia a tre voci cede il posto a una con le quattro voci stabilmente inserite e funzionalmente distinte; la distanza tra le voci è maggiore che non in passato, con il contratenor, posto ormai sotto il tenor, che svolge funzioni di vero basso armonico; il movimento tra le parti prevede molti più spunti imitativi, e inoltre le singole frasi musicali sono mediamente più lunghe che in passato, eccedendo spesso la misura fissata dalla lunghezza del verso, e dunque sovvertendo le vecchie simmetrie; infine, nel repertorio aumenta l’utilizzo di melodie folcloriche, nonché la presenza di pezzi in lingua italiana, olandese e tedesca.
Al fatale declino delle formes fixes corrisponderà dunque l’emergenza, dal 1480 in poi, di nuovi stili “nazionali”, come quello della frottola italiana, che segna la rinascita nazionale della tradizione musicale scritta, operata soprattutto nelle corti padane: brani strofici a quattro voci, su semplici testi nei metri della ballata in ottonari e dello strambotto, declamati sillabicamante e nello stile accordale.
La musica liturgica: mottetto e messa
Il ruolo svolto dal francese per i generi musicali profani era stato e continua a essere assunto dal latino per quelli sacri. Anche e a maggior ragione in questo repertorio, che comprende (ma non si limita a) i generi del mottetto e della messa, si verifica quindi quel fenomeno prima discusso dell’internazionalizzazione dell’idioma musicale, che in altre parole significa adozione delle tecniche ereditate dal Trecento francese, e loro perfezionamento.
Il mottetto quattrocentesco abbandona i caratteri della politestualità, dell’eminente connotazione politica e del ruolo celebrativo assunti in precedenza, per assumere una funzione più flessibile (sempre comunque in un contesto liturgico) e una fisionomia molto più variabile, talora confondendo i propri tratti con quelli della chanson o con quelli della messa. Il principio generatore continua a essere, per lungo tempo, quello del mottetto trecentesco, e cioè la cosiddetta tecnica “isoritmica”.
Tra i mottetti isoritmici di Du Fay è doveroso citare Nuper rosarum flores, brano di particolare importanza perché composto per la consacrazione della cattedrale fiorentina di Santa Reparata (marzo 1436), ribattezzata Santa Maria del Fiore dopo il completamento della cupola di Brunelleschi. La fastosa celebrazione avviene alla presenza di Eugenio IV, mentre Du Fay è al suo servizio. Secondo alcuni studiosi, la struttura isoritmica di questo mottetto è governata dalle stesse proporzioni – 6:4:2:3 – che regolano i rapporti architettonici della chiesa: sarebbe questo un esempio di flagrante simbolismo musicale.
Comunque, il genere di composizione polifonica più impegnativo del tempo rimane la messa: normalmente viene cantata in gregoriano (cantus planus), e solo eccezionalmente in polifonia, fermo restando che anche in quest’ultimo caso non è detto che venga eseguita la complessa polifonia scritta piuttosto che una delle varie forme di contrappunto improvvisato (“a vista”, “alla mente”, super librum), o di polifonia semplice (discanto inglese, fauxbourdon francese, ecc.) normalmente praticate.
Dovendo invece affrontare opere composte per iscritto (res facta secondo il gergo teorico), i polifonisti concentrano la loro attenzione sull’ Ordinarium missae (le cinque sezioni che rimangono costanti lungo l’anno liturgico), pur non disdegnando, talvolta, di intonare anche il Proprium (Introito, Graduale, Alleluia, Sequenza ecc., cioè le sezioni che variano secondo il calendario). Il problema principale è come unificare i vari movimenti e creare un’opera stilisticamente omogenea, e ciò diventa quindi il terreno di svariati esperimenti, tra i quali vanno incluse anche le messe giovanili di Du Fay. Solo intorno al 1440 si addiviene alla soluzione che rimarrà valida per diverse decadi, che è quella di basare tutti i movimenti su un unico cantus firmus disposto al tenor, variandone progressivamente e in modo razionale (proporzionale) i valori ritmici costitutivi. Ciò può essere considerato l’applicazione del principio del mottetto isoritmico su tenor al ciclo della messa. Una quarta voce grave sotto il tenor, il bassus, trova una collocazione vieppiù stabile in queste messe, con la funzione di dirigere il movimento armonico.
Tra le messe di Du Fay di questo tipo ricordiamo Se la face ay pale, basata sulla melodia di una sua propria ballade, e la messa L’homme armé, considerata la prima di una lunga teoria di messe scritte da svariati polifonisti sulla stessa celeberrima melodia, anonima benché molto popolare nel Quattrocento, per via della ricchezza dei significati simbolici assunti dal “cavaliere armato” del titolo: la lotta del Bene sul Male, di Cristo sul Diavolo, dei Cristiani sui Turchi ecc.