I Fenici nel Mediterraneo centro-occidentale. Le aree dell'espansione coloniale
La trattazione che segue intende presentare un panorama della colonizzazione fenicia in riferimento al continente europeo. L’esame verterà in particolare sulle prime fasi di questo complesso fenomeno storico, allo scopo di comprendere le motivazioni che portarono alla fondazione dei più antichi insediamenti fenici d’Occidente. In quest’ottica si darà particolare risalto al rapporto dei centri coloniali con il territorio circostante e con le popolazioni indigene, al fine di chiarire la natura commerciale o di popolamento degli insediamenti dislocati fra l’arcipelago maltese e le coste atlantiche della Spagna e del Portogallo. Sebbene questa prospettiva di indagine sia dominante, nel corso dei seguenti paragrafi verranno esaminate le più importanti scoperte effettuate negli ultimi anni, sia in relazione alla componente fenicia di Occidente sia in riferimento alla politica espansionistica di Cartagine, rivolta, a partire dalla metà del VI sec. a.C., al controllo di vaste aree del Mediterraneo centro-occidentale. Con riferimento a quest’ultimo aspetto, saranno quindi evidenziati i diversi atteggiamenti tenuti dalla metropoli nordafricana nei confronti delle comunità fenicie della Sicilia nord-occidentale, della Sardegna, delle Baleari e della Spagna meridionale.
L’iniziale frequentazione fenicia dell’isola di Malta, collocabile fra la fine dell’VIII e gli inizi del VII sec. a.C., si lega alla funzione strategica che essa era in grado di svolgere nel controllo delle rotte verso il Canale di Sicilia. Come per Mozia in Sicilia, quindi, la presenza di elementi orientali in questo settore del Mediterraneo nasce dalla necessità di ovviare alla chiusura dello Stretto di Messina alla marineria fenicia attuata dalla componente euboica dopo la fondazione delle colonie di Reggio e Zankle. In principio lo stanziamento di Fenici a Malta deve essersi basato sulla pacifica convivenza con le popolazioni indigene insediate nei villaggi posti all’interno dell’isola. Fra questi particolare importanza assume il centro di Mdina-Rabat: la scelta di tale insediamento si deve alla sua posizione dominante sul territorio circostante e al fatto che il luogo si presenta ricco di sorgenti di acqua potabile, che scarseggiano invece nel resto dell’isola. La documentazione in nostro possesso si riferisce soprattutto a contesti tombali della prima metà del VII sec. a.C. dislocati in prossimità dell’abitato, di cui si ricordano in particolare quelli di Mtarfa e di Ghajn Qajjet per la ricchezza dei corredi e per la presenza di ceramica greca.
L’insediamento di Mdina-Rabat risulta comunque lontano dalla costa e a oltre 12 km dal più sicuro approdo dell’isola collocato nella baia di Marsaxlokk. Qui i Fenici stabilirono uno stanziamento stagionale in funzione solo nei mesi compresi fra maggio e ottobre, quando Malta diveniva la meta obbligata delle imbarcazioni che dovevano raggiungere Cartagine e l’estremo Occidente mediterraneo. In posizione dominante sulla Baia di Marsaxlokk si colloca il santuario extraurbano di Tas Silg, che attesta l’utilizzo da parte dei Fenici di un’area sacra frequentata in precedenza dalle genti locali. Questo santuario megalitico, infatti, ebbe una vita molto lunga: fondato nel periodo Tarxien (prima metà del III millennio a.C.), venne frequentato in modo discontinuo sino all’età bizantina. A tale proposito, è interessante notare la persistenza del culto che si riferisce sempre a una divinità femminile: alla Dea Madre preistorica si sostituiscono in progresso di tempo l’Astarte fenicia, la Giunone romana e, da ultimo, la Madonna delle Nevi. Con l’interruzione dei contatti fra mondo coloniale e madrepatria fenicia, causata dalla crisi del regno di Tiro inglobato all’interno dell’impero assiro, la funzione di Malta venne progressivamente meno. L’isola non sembra rientrare neppure nelle mire espansionistiche di Cartagine, rimanendo relegata in una posizione periferica, al di fuori dei principali circuiti commerciali e delle aree di maggiore interesse strategico. A seguito di tali cambiamenti la componente fenicia di Malta iniziò un’occupazione sistematica delle campagne, indirizzando le proprie attività piuttosto verso lo sfruttamento delle risorse agricole, con particolare attenzione alla coltivazione della vite e dell’olivo. Vennero quindi fondati insediamenti rurali come quelli presso San Paolo Milqi e Ras ir-Raheb.
La prima e la più importante fondazione fenicia è sicuramente quella di Mozia, sorta su una piccola isola di circa 45 ha collocata a poca distanza dalla città di Marsala.
Le attestazioni più antiche si localizzano nel settore settentrionale dell’isola e si riferiscono alla necropoli a incinerazione in uso a partire dal 720 a.C. circa, come testimoniato da alcune importazioni di ceramica corinzia. Allo stesso orizzonte cronologico riporta lo strato VII del tofet (fine VIII - prima metà VII sec. a.C.), mentre il successivo strato VI si data alla seconda metà del VII sec. a.C. Con il termine tofet si definisce un santuario documentato a livello archeologico solo nelle colonie fenicie del Mediterraneo centrale (Sicilia, Sardegna, Nord Africa), che secondo le più recenti ricerche deve essere interpretato come una necropoli infantile, separata e distinta dalle necropoli dei membri adulti della comunità. Nel tofet il rituale della sepoltura dei neonati e dei bambini morti in tenera età prevedeva da parte dei genitori la dedica alle divinità tutelari del santuario, Baal Hammon e dal V secolo Tinnit, del corpo del piccolo defunto e la richiesta di nuove nascite sostitutive. Il nucleo più antico dell’abitato di Mozia si colloca nel settore centro-meridionale dell’isola. Nella parte centrale recenti scavi hanno messo in evidenza quartieri abitativi e strutture adibite ad attività commerciali (zone A, B, E) in uso a partire dalla fine dell’VIII - inizi del VII sec. a.C. Nella parte meridionale, invece, si trovava molto verosimilmente il principale approdo cittadino.
Numerosi sono gli indizi a favore di tale ipotesi: innanzitutto la presenza in questo settore della città di un grande edificio in funzione a partire dal VII sec. a.C., adibito, secondo l’opinione prevalente, a magazzino, anche se in una recente rilettura del monumento da parte di M.E. Aubet (2000) si esprime perplessità nel considerare tale struttura come un edificio a carattere pubblico o amministrativo. Inoltre, nel corso di recenti esplorazioni subacquee nel settore meridionale della laguna, è stato individuato un grande elemento architettonico ornato di gola egizia, probabilmente un architrave, in prossimità del luogo dove negli anni Trenta del secolo scorso era stata recuperata la scultura egittizzante di personaggio maschile stante nota come Torso dello Stagnone. È possibile che la statua fosse originariamente collocata dentro una cappella a livello del mare e apparisse così agli occhi dei naviganti che solcavano le acque dello Stagnone. Nel corso del VII sec. a.C. si datano anche i più antichi rinvenimenti del cosiddetto “quartiere industriale” (area a sud della necropoli, aree K e K Est). Questo si estendeva su di una superficie molto vasta, in posizione periferica rispetto all’abitato, delimitata a nord dal sistema difensivo e a sud da una strada. L’area, in buona parte edificata e dotata di strutture quali pozzi e forni per ceramica, fu in uso sino al IV sec. a.C. ed era adibita ad attività diversificate quali la produzione della porpora e la fabbricazione di vasi e terrecotte.
Nel settore sud dell’area K è stata rinvenuta la famosa statua marmorea del cosiddetto Giovane di Mozia, pregevole opera di fattura greca, ma probabilmente commissionata in ambito moziese. Intorno alla metà del VI sec. a.C. si colloca la prima cinta muraria della città, che si sviluppa lungo tutto il perimetro dell’isola per una lunghezza di circa 2,5 km e per la quale A. Ciasca (2000) ha proposto una periodizzazione in quattro fasi, dalla metà del VI sec. a.C., appunto, alla fine del V - inizi del IV sec. a.C. Tale impianto sembra aver subito, nel volgere di poco tempo, distruzioni e successivi rimaneggiamenti in più punti. In recenti studi S.F. Bondì (1996; 2001) ha avanzato l’ipotesi che la distruzione delle mura di I fase sia stata motivata dall’intervento militare cartaginese sull’isola, tenendo conto fra l’altro che la successiva ristrutturazione del sistema difensivo si pone molto più tardi, fra la fine del VI e gli inizi del V sec. a.C. In precedenza, la tesi più diffusa fra gli studiosi riteneva che l’intervento cartaginese in Sicilia fosse motivato dalla richiesta di aiuto delle colonie fenicie dell’isola a seguito dell’aggressiva politica espansionistica di due città siceliote: Agrigento e Selinunte. Tale interpretazione si basava su un noto passo dello storico Giustino, nel quale si afferma che il generale Malco intorno al 550 a.C. compì una spedizione in Sicilia, riportando una serie di vittorie sui Greci e sottomettendone una parte.
In ogni caso, occorre osservare che la presenza cartaginese in Sicilia coincide con una fase di grande sviluppo urbanistico a Mozia. Inoltre, anche nella cultura materiale l’influenza della metropoli nordafricana risulta evidente, come documentato nelle produzioni ceramiche, nella coroplastica, con l’introduzione di alcune tipologie quali le protomi femminili di tipo egittizzante e le maschere virili, e nelle stele. Anche se rilevante l’influsso cartaginese non appare comunque unico, dal momento che si distinguono in campo artistico influenze dirette dall’Egitto e dal mondo greco. Nel primo caso i contatti sono attestati soprattutto nel repertorio delle stele del tofet e riguardano alcune iconografie: quella della figura femminile frontale con i capelli ricadenti sul petto, le braccia congiunte sotto di esso e la lunga veste liscia e svasata da cui escono i piedi; l’iconografia della figura maschile stante o incedente in posizione frontale con braccio sinistro piegato sul petto e destro disteso lungo i fianchi, con pugno chiuso a stringere un “rotolo”; l’iconografia della figura maschile di profilo, con alta tiara, braccia protese in avanti, lunga veste che ricade sulla gamba posteriore; infine, la stele doppia con figure affrontanti. In tutti questi casi due considerazioni si impongono: la dominante caratterizzazione egiziana e l’assenza di confronti nel pur amplissimo patrimonio delle stele di Cartagine.
Altri motivi di ispirazione egiziana presenti a Mozia non trovano confronti né nella documentazione della metropoli nordafricana, né nel repertorio orientale, a conferma dell’autonomia e della priorità della colonia siciliana nei contatti con la regione nilotica. Si tratta della divinità mummiforme, legata molto verosimilmente alle rappresentazioni di Osiride, Ptah e Khonsu; della riproduzione della cosiddetta “cappella del nord” o più propriamente pr nw; della serie di rettangoli che richiama la parte inferiore del “nome di Horus” e della tavola-altare come motivo primario (Scandone Matthiae 1969; Moscati - Uberti 1981). Ulteriori influssi direttamente provenienti dalla regione del delta si riscontrano in un frammento di architrave a gola egizia baccellata, tipo corrente nell’Egitto contemporaneo, ma del tutto assente nell’architettura fenicia di madrepatria, attribuibile al VI sec. a.C., ma reimpiegato in un muro di contenimento del tofet con datazione posteriore alla distruzione del 397 a.C. Passando agli influssi del mondo greco essi sono largamente attestati nelle figurine a stampo di terracotta. Si tratta in prevalenza di divinità femminili attribuibili a produzioni rodie, come nel caso della dea in trono con velo e di Demetra con porcellino. Di ambientazione greca sono inoltre le figurine di dea in trono del tipo Medma, con abito a piegoline. Queste produzioni si collocano indicativamente nel VI sec. a.C., con possibili attardamenti al V e al IV sec. a.C. I contatti con il mondo greco sono inoltre ben documentati nel repertorio vascolare, dove abbondano le importazioni ma anche le imitazioni di produzioni ceramiche corinzie e rodie.
Ritornando agli aspetti urbanistici, verso la metà del VI sec. a.C. si colloca il primo impianto monumentale del santuario di Cappiddazzu (fase A), con l’erezione del temenos; la fase successiva (B) si data invece alla seconda metà del VI - inizi V sec. a.C. Di poco precedente è la comparsa delle prime stele nel tofet (strato V: prima metà del VI sec. a.C.), che si diffondono in modo capillare, comunque solo nella metà/seconda metà del VI sec. a.C. (strato IV). Alla seconda metà del VI sec. a.C. si data anche l’organizzazione nel settore meridionale dell’isola del quartiere di Porta Sud, con la creazione del porto artificiale (cothon); nel settore settentrionale, invece, si assiste alla realizzazione dei due sacelli fuori Porta Nord e alla costruzione della strada di collegamento con la terraferma, creata per accelerare gli scambi con l’antistante territorio di Birgi. In proposito, le recenti indagini condotte sulla terraferma hanno permesso di rivedere le valutazioni espresse ai primi del secolo scorso da B. Pace, che mettevano in stretta relazione la necropoli di Birgi con l’insediamento di Mozia: nel quadro dell’espansione della colonia nel settore nord-orientale dell’isola gli abitanti di Mozia avrebbero infatti abbandonato la necropoli a incinerazione per andare a seppellire i lori morti sulla terraferma. Questo momento, collocabile intorno alla metà del VI sec. a.C., sarebbe coinciso con il passaggio nel rituale funebre all’inumazione.
I rari casi di incinerazione rinvenuti a Birgi starebbero a indicare, secondo il Pace, attardamenti del rito praticato sull’isola. Le ricerche effettuate negli ultimi anni permettono invece di affermare che la necropoli di Birgi fu in attività almeno dalla prima metà del VII sino al IV sec. a.C. Riguardo al rituale, sebbene l’inumazione in tombe a fossa con sarcofago sia prevalente, è attestata anche l’incinerazione in olle, in anfore e in ciste di pietra. Questi dati permettono dunque di superare la precedente interpretazione del Pace e di considerare la necropoli come indipendente da Mozia e in relazione con un insediamento in terraferma che le moderne ricerche stanno recuperando all’evidenza storica. Il dato trova conferma nelle indagini condotte da Ciasca a Mozia, le quali permettono di sostenere che gli abitanti della colonia continuarono a seppellire i loro morti sull’isola, contrariamente a quanto si riteneva in precedenza. Si tratta di alcune tombe a inumazione, che vanno dalla seconda metà del VI al IV sec. a.C., collocate in posizione periferica rispetto all’abitato, non lontane dal tofet. Per quel che concerne il V secolo, si segnalano alcuni importanti interventi nella città quali la ristrutturazione delle mura e la realizzazione di nuove strutture abitative nel settore centro-meridionale dell’isola. Nel 397 a.C. la città dopo un lungo assedio venne conquistata dalle truppe di Dionisio di Siracusa, che operarono massicce devastazioni, a seguito delle quali gran parte della popolazione si trasferì nella vicina Lilibeo. Grazie alle recenti ricerche, è stato possibile appurare che Mozia non venne completamente abbandonata dopo il saccheggio siracusano, dal momento che sino agli inizi del III sec. a.C. sono attestate evidenze di frequentazione sia nell’abitato sia nel tofet.
Posto alle pendici del Monte Pellegrino, l’insediamento fenicio e punico è ubicato sotto la città moderna che deriva il suo nome dal greco Panormos. Non si conosce il nome fenicio del sito, infatti la leggenda sys che compare sulle monete di emissione punica indica tutto il territorio siciliano sotto la dominazione cartaginese.
Sulla base dei più antichi corredi provenienti dalla necropoli, si ritiene che la colonia sia stata fondata agli inizi del VI sec. a.C., data la sua favorevole posizione topografica su un promontorio collocato al centro di un’ampia baia portuosa delimitata sui fianchi dal corso di due fiumi, il Papireto e il Kemonia. Secondo la tesi tradizionale, che si rifà alla ricostruzione avanzata agli inizi del Novecento da G.M. Columba, l’abitato antico, la palaeapolis delle fonti storiche, doveva occupare solo la parte più interna del promontorio. Successivamente, nel corso del VI sec. a.C. la città nuova si sarebbe sviluppata in direzione del mare raggiungendo il porto collocato nel tratto terminale del Kemonia. Questa tesi è stata recentemente messa in discussione sulla base di una nuova lettura delle fonti storiche e dei dati topografici attualmente disponibili. Secondo la nuova ricostruzione, la città antica sarebbe sorta in prossimità della costa e delle strutture portuali, mentre la città nuova avrebbe occupato in progresso di tempo il settore più interno del promontorio, cioè l’area che in epoca araba prese il nome di Cassaro (al-Qaṣr). Solo con il V sec. a.C. sarebbe avvenuta una pianificazione regolare dell’intero insediamento, dal momento che originariamente la città vecchia e la città nuova avevano ognuna una propria cinta muraria. Occorre comunque ricordare che i materiali sino a oggi recuperati nell’abitato antico non sono anteriori al V sec. a.C; a tale epoca si data anche la fase più antica delle mura che hanno subito numerosi rimaneggiamenti fino al pieno Medioevo.
La necropoli si estendeva alle spalle della città, in una zona ben distinta da questa; le tombe, a camera sotterranea e dromos con scalini o a pozzo, non risalgono oltre gli inizi del VI sec. a.C. L’esame dei corredi risulta alquanto interessante, dal momento che nel repertorio ceramico le forme di fabbrica locale ma ispirate alla tradizione greca e le importazioni prima corinzie e poi attiche prevalgono sulle forme di tradizione fenicia. Infatti, a eccezione dei piatti, sono estremamente rare le lucerne a conchiglia, le brocche con orlo espanso e quelle a orlo bilobato, generalmente considerate come gli indicatori archeologici più significativi della presenza fenicia nel Mediterraneo. Si ricollegano invece alla tradizione fenicia gli oggetti di ornamento personale e quelli legati alla sfera magico-religiosa. Fra i primi, prevalentemente realizzati in argento, si ricordano: gli orecchini del tipo “a cestello” e “a croce ansata”; i pendenti a goccia allungata o a bulla con il motivo del disco solare e della falce lunare; gli anelli digitali con corpo a verga e castone mobile ovale in cui è inserito uno scarabeo; i bracciali a testa di serpente; le collane con vaghi policromi di faïence o di argento, cilindrici o sferici, lisci o decorati a reticolo. Fra i secondi si ricordano le uova di struzzo, gli amuleti e gli arredi funebri, quali cippi e altarini.
Sino a non molti anni fa la collocazione della Solunto arcaica, ricordata da Tucidide insieme a Mozia e a Palermo come una delle più antiche colonie fenicie di Sicilia, era un mistero. Si conosceva infatti la fondazione ellenistico-romana localizzata sull’erto pendio del Monte Catalfano, ma i sondaggi in profondità effettuati sul sito avevano dimostrato l’inesistenza di resti archeologici antecedenti alla metà del IV sec. a.C. La città dislocata nei pressi del moderno centro di Santa Flavia doveva riferirsi, quindi, alla fondazione voluta dagli abitanti della Solunto arcaica dopo la distruzione della colonia operata dagli eserciti di Dionisio di Siracusa nel 397 a.C.
Riguardo all’ubicazione dell’antica colonia sono state avanzate in passato varie ipotesi, ma solo recentemente, grazie a prospezioni e scavi mirati, si è avuta la certezza che in origine l’insediamento doveva adagiarsi sul promontorio di Solanto: uno sperone roccioso di forma triangolare alto 30 m s.l.m. da cui era possibile controllare l’accesso orientale alla Conca d’Oro, cioè alla baia di Palermo. Il promontorio si situa in prossimità dello sbocco a mare dei corsi d’acqua Casteldaccia e Cefalà, che rappresentano una via di penetrazione naturale verso l’interno, ricollegandosi all’Eleuterio all’altezza del Monte Porcara. L’abitato doveva estendersi sul vasto pianoro in contrada San Cristoforo, a contatto con la fertile piana di Bagheria; la necropoli invece era collocata a nord-ovest, separata dal nucleo abitativo da una profonda depressione. Tale situazione topografica ha permesso di accostare l’insediamento di Solunto alle fondazioni fenicie dell’Andalusia mediterranea, in particolare all’abitato di Morro de Mezquitilla e alla necropoli di Trayamar.
Gli scavi si sono concentrati soprattutto nella necropoli, dove le sepolture più antiche si datano fra gli inizi e l’ultimo venticinquennio del VI sec. a.C. Si tratta di inumazioni monosome in tombe a cassa, con cuscino risparmiato nella roccia e con copertura a lastre rettangolari adagiate su un apposito incasso. Il tipo di tomba a camera con dromos a gradini di esplicita derivazione cartaginese sembra documentato solo a partire dagli ultimi decenni del VI sec. a.C., predominando poi nel V e per tutta l’età classica. Le indagini nell’abitato hanno portato all’individuazione di un quartiere industriale con forni da vasaio a pianta bilobata, sul tipo di quelli di Mozia, che trovano i loro prototipi in ambito vicino-orientale, e con numerosissimi scarti di fornace di anfore. Questi ultimi attestano una produzione locale di contenitori destinati al trasporto di garum, vino e olio, ben documentati, soprattutto nel IV sec. a.C, sia nei villaggi indigeni dell’interno sia nelle colonie greche della costa tirrenica, da Imera a Lipari. Dagli scavi nell’abitato provengono alcune interessanti importazioni che confermano le datazioni agli inizi del VI sec. a.C. provenienti dalla necropoli: si tratta di una coppa ionica del tipo B1 e di un kantharos di bucchero del tipo Rasmussen 3.
Attualmente le più antiche testimonianze della colonizzazione fenicia sull’isola si concentrano nel Sulcis. In questa regione della Sardegna sud-occidentale, infatti, in anni recenti sono state effettuate scoperte di grande interesse. Procedendo dalle attestazioni più antiche, si segnala innanzitutto l’individuazione di un fondaco fenicio a San Giorgio di Portoscuso, di fronte all’isola di San Pietro. In verità le indagini hanno portato alla scoperta di una necropoli a incinerazione, mentre dell’insediamento antico possiamo solo postulare l’esistenza nel tratto costiero compreso fra Portovesme e Porto Sa Linna, dove è stata individuata una struttura che per materiali e tecnica edilizia risulta molto vicina alle abitazioni messe in luce nella colonia di Sulcis, sulla vicina isola di Sant’Antioco. Il recupero delle tombe si deve a un intervento di urgenza, per cui non è stato possibile stabilire né l’ampiezza dell’area funeraria né l’esatta entità numerica delle sepolture.
Queste ultime erano collocate sulle dune sabbiose che si ergevano lungo la linea di costa, secondo una pratica ben documentata nel mondo fenicio, sia di Oriente, come nel caso della necropoli di al-Bass a Tiro, sia di ambito coloniale (per la Sardegna un interessante confronto proviene dalla vicina colonia di Bitia). I sepolcri salvati dall’azione distruttiva delle ruspe sono solo sei, di cui quattro in condizioni pessime. Le tombe si datano in base al materiale ceramico in esse rinvenuto, in un arco di tempo compreso all’incirca fra il 770 e il 750 a.C. Si tratta di deposizioni in ciste litiche all’interno delle quali erano collocati l’anfora-cinerario, il corredo di accompagno, quello personale e, in un caso, armi di ferro. Riguardo al corredo di accompagno, esso era composto dalle due forme canoniche del mondo funerario fenicio, la brocca con orlo espanso e la brocca bilobata, in associazione con la coppa carenata o con l’olla monoansata. Il corredo personale era composto da monili che il defunto doveva indossare al momento dell’incinerazione: sono stati recuperati un pendente di argento con protome di genio o di essere demoniaco, orecchini a semiluna di argento su anima di bronzo e fascette di bronzo a più avvolgimenti.
La presenza di armi collega la necropoli di Portoscuso con le necropoli di insediamenti fenici arcaici, quali Bitia, Othoca e Tharros e con l’interessante ma complessa problematica di élites guerriere nei più antichi stanziamenti coloniali fenici. L’associazione dell’anfora con forme tipiche del banchetto orientale, quali la coppa carenata e la brocca con orlo bilobato, introduce inoltre un altro avvincente problema legato al consumo rituale di vino presso le classi dominanti delle prime comunità fenicie dell’isola. La collocazione topografica del fondaco fenicio di San Giorgio di Portoscuso consentiva un rapido collegamento verso l’interno e la colonia di Monte Sirai, la quale dista dalla costa circa 7 km. Allo stesso tempo forte era la proiezione sul mare in direzione di San Pietro, dove recenti prospezioni hanno portato al recupero presso Carloforte di ceramiche fenicie inquadrabili intorno alla metà dell’VIII sec. a.C., e verso l’isola di Sant’Antioco, sulla quale sorse sempre in questo periodo la colonia di Sulcis, collocata dove oggi si sviluppa la cittadina moderna.
Gli scavi condotti presso il Cronicario hanno portato al recupero di un lembo dell’abitato antico disposto sul versante orientale della collina che degrada dolcemente verso il mare. Sotto gli strati riferibili al periodo romano sono state messe in luce abitazioni composte da una corte centrale, attrezzata con silos e cisterne per l’acqua, sulla quale si affacciavano più ambienti con funzioni differenziate. I muri, costruiti con uno zoccolo di pietra e un alzato di mattoni crudi, delimitavano ambienti coperti con pavimenti ottenuti con argilla pressata insieme a tufo tritato. Gli edifici, separati da strade ortogonali, presentano varie fasi di vita che vanno dalla metà dell’VIII alla metà del VII sec. a.C.
Lo studio dei materiali provenienti dallo scavo dell’abitato fenicio ha chiarito come Sulcis sin dalla sua fondazione fosse un centro marittimo di primaria importanza con contatti commerciali a vasto raggio, da Cartagine alle principali colonie fenicie dell’Andalusia. Inoltre, la presenza di ceramiche di produzione euboica e corinzia attesta l’apertura verso il mondo greco, in particolare verso il comptoir di Pithecusa, a Ischia, vero centro irradiatore dei commerci euboici nel Tirreno. Intensi, infine, dovevano essere i contatti con le élites delle comunità agricole della bassa Val Tiberina e delle città etrusche della costa interessate all’acquisizione di beni suntuari orientali e al consumo di vino sardo. In concomitanza con la costruzione del primo impianto urbano venne messo in funzione anche il tofet, situato a nord dell’abitato, a oltre 400 m di distanza da esso. L’area sacra, a cielo aperto, fu delimitata e frazionata con una serie di bassi recinti nei quali vennero sistemate le urne contenenti le ossa calcinate dei neonati e di piccoli animali (agnelli, uccelli) sacrificati durante la cerimonia funebre.
Le urne cinerarie più antiche sono importanti per comprendere la composizione della comunità che viveva nella colonia: accanto a olle di tradizione fenicia, sono presenti infatti anche i caratteristici vasi della tradizione nuragica detti “bolli-latte”. Il dato è di estremo interesse perché indica la presenza di elementi indigeni inurbati e integrati nel tessuto sociale cittadino. Di particolare importanza è inoltre il rinvenimento di un’olla di tradizione euboica prodotta a Pithecusa, che oltre a confermare l’intensità degli scambi con il comptoir del Golfo di Napoli pone il problema della possibile presenza di elementi greci nell’insediamento sulcitano. A partire dalla fine del VI sec. a.C., in concomitanza con la presenza cartaginese a Sulcis, nel tofet cominciano a comparire le prime stele. Gli scavi hanno portato al recupero di circa 1500 esemplari che si scaglionano sino al II sec. a.C. Si tratta di una delle categorie artigianali più importanti di Sulcis, la cui produzione si caratterizza per la prevalenza dell’iconismo sull’aniconismo e per l’influsso greco, che diviene predominante nelle fasi più tarde. Passata sotto il controllo di Cartagine, la città di Sulcis, dopo un periodo di crisi dovuto alla perdita di autonomia e al conflitto contro gli eserciti della metropoli nordafricana, riacquistò ben presto una posizione di primo piano nella regione sulcitana, ma non più quella dimensione internazionale che l’aveva contraddistinta nella fase fenicia.
Sotto Cartagine l’importanza della colonia è percepibile soprattutto dalle indagini condotte nella necropoli a inumazione. Anche a Sulcis, infatti, l’avvento cartaginese provocò un repentino cambiamento di rituale. Poco sappiamo purtroppo della necropoli fenicia a incinerazione, collocata molto verosimilmente in prossimità della linea di costa e nota solo per alcuni rinvenimenti occasionali. La necropoli punica invece è ben documentata. Essa si sviluppa su una superficie di oltre 6 ha, a mezza costa fra il Monte de Cresia e l’altura su cui sorge il Fortino Sabaudo. È composta in prevalenza da tombe sotterranee, disposte talvolta su due livelli e a profondità differenti al fine di utilizzare al meglio lo spazio disponibile. Gli ipogei presentano un corridoio di accesso (dromos), da cui si accede alla camera funeraria. Riguardo a quest’ultima, le indagini hanno chiarito che esistono due tipologie: una più antica, che copre la fine del VI e il V sec. a.C., con pianta quadrata o appena rettangolare, indifferentemente in asse o trasversale rispetto all’entrata; una più recente, che interessa il IV e la prima metà del III sec. a.C., con ampia pianta quadrangolare dotata di un tramezzo di tufo per sostenere il soffitto collocato di fronte al portello di accesso. In due eccezionali rinvenimenti il tramezzo era lavorato ad altorilievo con l’immagine di una divinità maschile incedente in costume egittizzante.
La cinta muraria fu apprestata nella prima metà del IV sec. a.C. La realizzazione del sistema difensivo punico si inquadra in un’articolata politica di Cartagine intesa a consolidare le proprie posizioni, sia in Sardegna sia in Nord Africa, a seguito di un diffuso movimento anticartaginese, che sulla base delle affermazioni dello storico Diodoro possiamo collocare nel 379 a.C. Il nucleo più antico delle fortificazioni puniche si trova sull’altura del Fortino Sabaudo, la cui mole domina il moderno abitato di Sant’Antioco. L’edificio militare insiste infatti su una struttura fortificata di epoca punica, a sua volta costruita sopra un precedente nuraghe complesso. La torre punica appare perfettamente integrata nel sistema difensivo della città. Infatti il corpo di fabbrica settentrionale dell’edificio risulta collegato alla cortina muraria che dalla sommità della collina scende verso nord con andamento quasi rettilineo. Essa è realizzata con la tecnica “a sacco” che prevede due paramenti, quello esterno in grosse pietre, spesso appena sbozzate, e quello interno in pietre più piccole; lo spazio tra i due paramenti era riempito con terra e scaglie di lavorazione. Superato il vecchio Museo Archeologico, la cinta muraria raggiunge un grosso nodulo trachitico, su cui era eretta una piccola torre della quale sono ancora oggi visibili i piani di posa dei blocchi che la componevano.
Tale punto rappresenta l’angolo estremo settentrionale del sistema fortificato; da qui, infatti, le mura piegano verso est, cioè verso il mare. In quest’area, all’interno della cortina muraria era collocata una grande porta, forse del tipo a vestibolo, da considerarsi con tutta verosimiglianza quella settentrionale della città. La tipologia della porta, le cui origini sono da ricercare nell’area vicino-orientale, consiste in un insieme di cortine murarie disposte in modo da delimitare uno spazio quadrangolare al quale si accedeva tramite due porte urbiche allineate tra di loro. Secondo P. Bartoloni, la porta esterna doveva essere affiancata dalle due monumentali statue di leoni realizzate in tufo vulcanico recentemente rinvenute nell’adiacente area della necropoli, dove furono reimpiegate in una struttura di epoca repubblicana. Di parere diverso è P. Bernardini (1988), che inserisce “i leoni di Sulcis” all’interno di una tradizione tardo-orientalizzante filtrata nella colonia fenicia attraverso l’Etruria intorno alla metà del VI sec. a.C. Secondo tale teoria i leoni facevano parte di un monumento collocato sull’acropoli cittadina, la cui iconografia riprende quella della divinità in trono (Astarte?) fiancheggiata da animali guardiani. Il sistema difensivo nel settore orientale era ulteriormente rafforzato da un fossato con i lati verticali e il fondo a imbuto, scavato nella coltre tufacea, che in alcuni punti poteva raggiungere un’ampiezza di 6 m e una profondità di 4-5 m.
Raggiunto il mare con andamento quasi rettilineo, la cinta muraria piegava vero sud seguendo l’antica linea costiera, come testimoniato dai rinvenimenti, in seguito obliterati, sia della cortina muraria sia di più complesse strutture militari integrate nel sistema difensivo. Mentre allo stato attuale delle conoscenze non si hanno dati relativi al settore occidentale della cinta muraria, questa doveva culminare sull’altro punto forte dell’abitato: il Monte de Cresia; qui, infatti, è stato individuato il paramento esterno della cortina muraria composto da grandi blocchi bugnati di trachite rossa. Al di fuori della cinta muraria si hanno altre tracce di fortificazioni puniche, realizzate con ogni probabilità nello stesso arco di tempo. Innanzitutto si tratta dei resti di un edificio fortificato di forma quadrangolare con grandi blocchi squadrati e bugnati di trachite rossa, destinato alla difesa dell’area sacra del tofet. Inoltre, nello specchio di mare antistante il santuario, sono state individuate tracce di una struttura quadrilatera realizzata con grandi blocchi di trachite rossa, attualmente sommersa. Tale edificio doveva far parte di un sistema di fortificazioni disposto sul canale navigabile a difesa del porto settentrionale. Dopo il passaggio della Sardegna sotto il dominio romano, nel 238 a.C., le strutture militari puniche vennero rimaneggiate e in parte smantellate. Tale situazione è chiaramente documentata nell’area della porta urbica nord soggetta a un grande processo di ristrutturazione in periodo repubblicano.
Le indagini più recenti hanno permesso di far risalire la fondazione della colonia a un periodo compreso fra il terzo e l’ultimo quarto dell’VIII sec. a.C. In precedenza, infatti, si riteneva Monte Sirai una fondazione più tarda rispetto a Sulcis, considerata la sua città-madre, non anteriore agli inizi del VII sec. a.C. Il progredire delle ricerche in questo settore della Sardegna induce a rivedere le precedenti posizioni e a collocare Monte Sirai fra le fondazioni più antiche dell’isola.
Nella seconda metà dell’VIII sec. a.C., quindi, il pianoro che costituisce la sommità del monte venne occupato nella sua propaggine sud-occidentale da genti provenienti da Sulcis o dal fondaco fenicio recentemente individuato a San Giorgio di Portoscuso, del quale non si conosce il nome antico. In questo periodo i Fenici costruirono a Monte Sirai, in un breve arco di tempo, un quartiere abitativo di notevoli dimensioni, grosso modo della stessa estensione di quello attualmente visibile, che fu realizzato, invece, verosimilmente intorno alla metà del III sec. a.C. L’abitato fu organizzato attorno a una vecchia torre nuragica, che al momento dell’insediamento dei Fenici doveva trovarsi ancora in buono stato di conservazione, tanto da essere utilizzata, dopo i necessari adattamenti, dai nuovi venuti. In un primo momento si era pensato che l’edificio ristrutturato dai Fenici avesse soprattutto carattere militare, per questo motivo nella letteratura scientifica esso viene comunemente chiamato “mastio”. Recentemente però è stata avanzata l’ipotesi che tale struttura sin dagli inizi fosse utilizzata come luogo di culto, allo stesso modo di quanto verosimilmente dovette accadere per il nuraghe nelle sue ultime fasi di vita. È probabile che il tempio fenicio fosse dedicato alla dea Astarte, come testimoniato dalla statua che rappresentava tale divinità rinvenuta in una delle celle centrali dell’edificio, relativa all’ultima ristrutturazione del III sec. a.C.
La necropoli di epoca fenicia è situata nella valle a nord dell’abitato. Attualmente sono state scavate oltre 200 tombe, ma a giudicare dall’estensione dell’area funeraria le sepolture superano largamente le 1000 unità. Il rituale praticato in prevalenza è quello dell’incinerazione in fossa, ma sono documentate anche sepolture di inumati. Al momento non è possibile dare una risposta definitiva su questa differenziazione nel rito, che potrebbe dipendere da fattori sociali, ma anche dall’appartenenza a gruppi di provenienza diversa. Tutte le tombe indagate si collocano fra la fine del VII e la fine del VI sec. a.C.; le ricerche future dovranno quindi essere indirizzate all’individuazione dei settori più antichi della necropoli da ricercarsi verosimilmente nelle aree più vicine all’abitato. A seguito della conquista cartaginese della Sardegna, attorno al 520 a.C., anche Monte Sirai subì una violenta distruzione, testimoniata da tracce di bruciato individuate nell’area dell’abitato, in particolare nel mastio. La presenza nordafricana nel sito è ben documentata dal repentino cambiamento nel rituale funebre. Infatti, a seguito dell’arrivo di un primo nucleo di libifenici, vennero costruite a Monte Sirai 13 tombe a camera ipogeica con dromos di accesso, da considerare come delle vere e proprie tombe di famiglia. I sepolcri, che rimasero in funzione sino alla conquista romana della Sardegna, erano destinati ai soli individui adulti della comunità, dal momento che le sepolture dei bambini sono state individuate nell’area interessata dalla necropoli fenicia. Si tratta di deposizioni in anfora (enchytrismòi), che talvolta tagliano le precedenti tombe fenicie in fossa terragna, ma che spesso sono disposte in prossimità delle sepolture più importanti, all’epoca forse ancora riconoscibili, in un rapporto di continuità con le prime generazioni che vissero nella colonia. La vera ripresa dell’insediamento si ebbe solo nel IV sec. a.C., quando Cartagine decise di ampliare e fortificare alcune tra le più importanti città della Sardegna, verosimilmente a seguito di alcuni movimenti insurrezionali che si erano svolti nei suoi territori e che possiamo datare, sulla base delle affermazioni di Diodoro, al 379 a.C. Di conseguenza, nel secondo quarto del secolo, anche a Monte Sirai vennero erette imponenti fortificazioni a difesa del quartiere abitativo, che subì una rapida espansione e raggiunse nelle dimensioni il precedente insediamento fenicio.
Purtroppo, a causa di una successiva ristrutturazione ben poco sappiamo sia dell’impianto urbano sia del tracciato murario di IV sec. a.C. È probabile che venisse fortificato con particolare attenzione il settore nord-orientale dell’abitato, a cui si poteva accedere direttamente dal pianoro, dove sono ancora oggi visibili i resti di una torre attribuibile a questa fase. In analogia con i sistemi fortificati di altre città puniche di Sardegna, come ad esempio Cagliari, Nora, Tharros e Sulcis, le mura dovevano essere composte da due paramenti, di cui quello esterno in grossi blocchi di trachite rossa squadrati e bugnati. In questo periodo si deve anche collocare la messa in funzione del tofet a conferma dell’importanza raggiunta dall’insediamento e dell’arrivo di una nuova ondata di coloni. Quest’ultimo avvenimento è comprensibile dal mutamento del rituale funebre legato al seppellimento dei bambini; infatti, contemporaneamente all’introduzione del tofet cessano le deposizioni a enchytrismòs documentate nel V sec. a.C. Il santuario-tofet di Monte Sirai si situa su una terrazza di ignimbrite che si affaccia sul versante settentrionale della valle delle necropoli. Gli scavi hanno permesso il recupero di oltre 300 urne, che coprono un arco di tempo che va dal 370-360 alla fine del II sec. a.C.
Intorno alla metà del III sec. a.C., per cause ancora sconosciute, Monte Sirai fu interessato da una nuova ristrutturazione. Il precedente apparato difensivo di IV sec. a.C. venne smantellato e i materiali furono riutilizzati per la ricostruzione del nuovo centro abitato. A questa fase si collegano anche la maggior parte delle strutture relative all’impianto noto come opera avanzata. In questa zona sono ubicati alcuni edifici, in precedenza ritenuti parte di un sistema difensivo “avanzato” rispetto alla cinta muraria vera e propria, recentemente identificati come abitazioni private. Evidentemente la crescita dell’insediamento fu di tali proporzioni da indurre gli abitanti di Monte Sirai a costruire frettolosamente anche al di fuori del perimetro dell’agglomerato urbano principale. L’ingresso all’abitato doveva avvenire attraverso un corridoio fortificato che percorreva in leggera salita lo spessore delle abitazioni che si affacciavano verso l’esterno. Infatti in questa fase i muri perimetrali degli edifici fungevano anche da mura urbane. Ai lati dell’ingresso si possono ancora oggi notare due lunghi muri che restringono notevolmente lo spazio tra l’abitato e l’opera avanzata, formando in questo modo un fossato artificiale.
Monte Sirai non sembra abbia particolarmente sofferto della nuova situazione venutasi a determinare nel 238 a.C., quando la Sardegna fu assoggettata da Roma. Tuttavia, per cause non ancora completamente chiarite, ma che verosimilmente andranno collegate alla “repressione del brigantaggio” attuata dal governo di Roma, l’insediamento fu abbandonato frettolosamente sul finire del II sec. a.C. Altre due fondazioni fenicie del Sulcis da considerare sono Bitia e Pani Loriga. La prima, fondata probabilmente sul finire dell’VIII sec. a.C., custodiva l’accesso meridionale della regione; la seconda, nata sul finire del VII sec. a.C., era posta alla base dei passi della Campanasissa e di San Pantaleo a controllo dei collegamenti con la fertile piana del Campidano.
La frequentazione del luogo sin dalle fasi iniziali della colonizzazione fenicia dell’isola è testimoniata da alcuni rinvenimenti ceramici di superficie.
L’antico porto di Bitia è stato riconosciuto all’interno della foce del Riu Chia (Bartoloni 1996), che i Fenici modificarono con una monumentale opera di sbancamento. In origine, infatti, il fiume si immetteva direttamente nell’ampia laguna che si estendeva alle spalle del primitivo nucleo abitato. L’attuale conformazione si deve all’opera dei primi coloni che hanno deviato il corso del fiume verso sud-est, in modo da obbligarlo a sfociare fra l’isolotto di Su Cardulinu e l’altura della torre. La deviazione del Riu Chia non solo permise la creazione di un porto-canale sicuro, ma consentì un progressivo prosciugamento della laguna e un conseguente parziale recupero di spazi nella piana utilizzati per impiantare la necropoli. Quest’ultima si estendeva sul dosso sabbioso a sud-ovest del promontorio dove si trovava l’abitato. Le prime tombe riferibili a epoca fenicia furono individuate nel 1926 a seguito di una violenta mareggiata; scavi sistematici sono stati condotti in anni recenti e solo in parte pubblicati (Bartoloni 1996). Con riferimento all’edito, le tombe fenicie a incinerazione risultano 53 e si dispongono fra l’ultimo quarto del VII e l’ultimo quarto del VI sec. a.C. Sono attestate sepolture in fossa terragna e in cista litica: in ambedue i casi le ossa calcinate dei defunti erano talvolta raccolte in apposite urne.
Riguardo ai materiali rinvenuti nelle tombe, si segnalano numerose importazioni che attestano orizzonti commerciali assai ampi dalla Penisola Iberica al Nord Africa, all’Etruria. Benché non numerosi, i gioielli presentano un repertorio abbastanza articolato che comprende gli orecchini del tipo “a canestrello” e “a sanguisuga”, gli anelli probabilmente da naso, i pendenti circolari con sigillo, gli astucci portaamuleti, i bracciali, gli anelli da dito, i pendenti di collana e infine i collari. Sono attestate pissidi di avorio e uova di struzzo tagliate a maschera, a coppa e a vaso che documentano stretti contatti con Cartagine. Particolarmente interessante è la presenza di armi, spesso riunite in panoplie comprendenti la lancia, fornita di punta e di tallone, il pugnale e alcuni puntali da lancio, questi ultimi riuniti in faretre note attraverso le riproduzioni miniaturistiche della bronzistica nuragica. L’individuazione nella necropoli di Bitia di questa tipologia di armi caratteristica del mondo nuragico autorizza l’ipotesi di un precoce inurbamento di gruppi aristocratici indigeni nella città fenicia. Un’osmosi con parte della componente locale è del resto ravvisabile a Bitia anche dalla presenza fra i materiali degli scavi di A. Taramelli di alcune urne di fabbrica nuragica utilizzate come cinerari.
A nord-est della Torre di Chia e in prossimità del porto cittadino si trova l’isolotto di Su Cardulinu, dove è stato localizzato il tofet. Le indagini non hanno rivelato tracce di frequentazione antecedenti la metà del VII sec. a.C., mentre l’abbandono del santuario sembra collocarsi sul finire del secolo successivo, in concomitanza con la crisi che investe l’abitato a seguito della violenta conquista cartaginese. In parallelo con quanto osservato a Sulcis e a Monte Sirai, l’avvento cartaginese è percepibile nel cambiamento del rituale funebre con inumazioni in tombe a cassone per gli adulti e con sepolture a enchytrismòs per i bambini. Una ripresa dell’insediamento si ha solo con gli inizi del IV sec. a.C. In questo periodo si deve infatti collocare la costruzione del maggiore luogo di culto cittadino dedicato a una divinità guaritrice, forse da identificare con Eshmun, come suggerito da una serie di figurine di terracotta interpretate come ex voto di devoti malati. Contemporaneamente viene riutilizzata l’area sacra di Su Cardulinu, dove sono eretti due piccoli edifici religiosi, e realizzata una cinta muraria a difesa dell’acropoli cittadina sul promontorio di Torre di Chia. L’abbandono o comunque la profonda decadenza della città si collocano sullo scorcio del IV sec. d.C., a seguito del deterioramento delle strutture portuali.
Spostando l’attenzione sul settore centrale della Sardegna meridionale, occorre segnalare l’importante posizione occupata da Nora nell’avvio del processo coloniale. Le fonti classiche considerano Nora come la più antica delle città di Sardegna (Paus., X, 17, 5; Sol., IV, 2), ma sino a pochi anni fa la documentazione archeologica in grado di suffragare tale affermazione si limitava quasi esclusivamente alle due note iscrizioni rinvenute alla fine del Settecento e nella prima metà dell’Ottocento (CIS I, 144, 145), la cui datazione, oggetto di acceso dibattito fra gli studiosi, viene posta (Amadasi Guzzo - Guzzo 1986) fra la seconda metà del IX e la prima metà dell’VIII sec. a.C., con una possibile maggiore antichità dell’iscrizione Nora II rispetto a Nora I.
In riferimento alla “stele di Nora” (Nora I) P.G. Guzzo ha proposto un interessante “parallelo funzionale” con le epigrafi che la tradizione antica voleva incise sulle colonne bronzee del tempio di Eracle a Cadice. Ricordate da Strabone (III, 5, 55), le famose “colonne d’Ercole” erano probabilmente delle stele con iscrizione, un monumento dunque tipologicamente non dissimile dalla stele di Nora, il cui testo fa esplicito riferimento a un tempio eretto sul capo Ngr, in Sardegna, dedicato al dio Pumay. La stele di Nora doveva perciò “segnare” epigraficamente una fondazione sacra che si poneva come punto di riferimento ai naviganti di lingua fenicia diretti verso il Golfo di Cadice, dove agli inizi dell’VIII sec. a.C. Tiro fonderà la colonia di Gadir. Seguendo questa interpretazione, la stele di Nora non deve necessariamente indicare la fondazione coloniale, ma piuttosto una frequentazione commerciale dell’area molto antica. L’approdo norense, infatti, si inserisce all’interno di una ricca documentazione di contatti fra mondo nuragico e popolazioni allogene che inizia nel XIV-XIII sec. a.C. con i Micenei (nuraghe Antigori; nuraghe Domu ’e s’Orcu; nuraghe Is Baccas; penisola di Nora), per continuare con i Ciprioti (Monte Sa Idda) e, dagli inizi del I millennio a.C., con l’esperta marineria tiria. Inoltre, anche dopo i recenti scavi (Tronchetti 2000) non sono stati identificati elementi strutturali che permettano di riportare la fondazione coloniale alla prima metà/metà dell’VIII sec. a.C.
Nel limite inferiore di questo orizzonte cronologico è possibile collocare solo alcune anfore provenienti da recuperi subacquei e dall’area dell’abitato relative al tipo Ramon T-3.1.1.2. (seconda metà dell’VIII - metà del VII sec. a.C.). Con riferimento alle indagini condotte negli ultimi anni le fasi di vita più antiche della città sono state individuate sotto il foro romano (Area P): si tratta di livelli di occupazione relativi ad abitazioni fenicie che si possono collocare nella prima metà del VI sec. a.C. Alla fine del VII sec. a.C. si datano alcuni buchi di palo che attestano la presenza di capanne allestite prima della realizzazione delle strutture di VI secolo. Queste ultime avevano muri con zoccolo di pietra e alzato di mattoni crudi; sia i pavimenti, composti da argilla pressata e da una fitta concentrazione di grumi di calcare, sia i muri poggiavano su uno strato di preparazione con ciottoli di piccole dimensioni immersi in argilla plastica, ricoperto da una sottile pellicola di carbone in grado di garantire un ottimale assorbimento dell’umidità (Bonetto - Ghiotto - Novello, in c.s.). Fra gli strati di risulta più superficiali sono state individuate ceramiche fenicie inquadrabili nel pieno VII sec. a.C. provenienti, molto verosimilmente, da aree limitrofe a quelle indagate. Alcune tipologie ceramiche, inoltre, si possono addirittura far risalire alla fine del secolo precedente (Botto 2000).
In un orizzonte cronologico compreso fra lo scorcio dell’VIII e il VI sec. a.C. si colloca anche gran parte del materiale ceramico di risulta proveniente dall’Area F, sotto la torre spagnola del Coltellazzo, dove gli scavi hanno messo in luce un edificio sacro in funzione a partire dalla metà/seconda metà del VI sec. a.C. (Oggiano 2000). Grazie a queste nuove scoperte, si può dunque affermare che la colonia di Nora fu fondata fra la fine dell’VIII e gli inizi del VII sec. a.C. Nella fase più arcaica l’insediamento sembra concentrarsi prevalentemente nel settore orientale della penisola di Nora, fra la Torre del Coltellazzo, che rappresenta un importante punto difensivo e di avvistamento (Finocchi 2000) e l’area successivamente utilizzata dai Romani per impiantarvi il foro, che era riparata dai venti e fornita di acqua potabile. In questo periodo dovette entrare in funzione anche il porto della città, che secondo recenti indagini deve essere collocato nell’attuale peschiera di Nora (Finocchi 1999), in prossimità dell’area industriale di età punica e non distante dalla necropoli fenicia a incinerazione scavata da F. Nissardi ai primi del Novecento, di cui si conoscono solo alcuni materiali ceramici collocabili fra la fine del VII e la prima metà del VI sec. a.C. (Bartoloni 1979-80).
Durante la fase fenicia l’economia di Nora si caratterizza per un’intensa attività commerciale, a cui si lega una forte mobilità umana, indirizzata sia verso il mondo fenicio di Occidente (Botto, in c.s.) sia verso l’area medio-tirrenica della penisola italica. Con riferimento a quest’ultimo scenario, fra i reperti più antichi si segnalano alcuni frammenti di ceramica d’impasto, di provenienza laziale, attribuibili a un’anforetta costolata e a un’anforetta a doppia spirale rinvenuti sul promontorio del Coltellazzo (Bernardini 1993). Inoltre, al VII-VI sec. a.C. si datano i buccheri provenienti dagli scavi dell’area sacra del Coltellazzo, che attestano contatti con Cerveteri e in genere con i centri dell’Etruria meridionale (Bonamici 2002). Passando alla seconda metà del VI sec. a.C. e al controllo esercitato da Cartagine, di particolare interesse risultano le indagini condotte sulle aree sacre cittadine (Oggiano, in c.s.). Da tali indagini si evidenzia infatti una strategia di occupazione dello spazio sacro a Nora che si dipana dalle fasi iniziali della colonia sino al periodo cartaginese, quando sullo scorcio del V sec. a.C. dovettero convivere insieme le strutture templari collocate rispettivamente sotto il promontorio del Coltellazzo, a Sa Punta ’e su Coloru e sull’altura di Tanit, a delimitazione di uno spazio che le moderne ricerche hanno individuato essere quello centrale della città punica.
La realizzazione ex novo o la ristrutturazione di questi edifici si lega quindi a un programma di celebrazione della potenza della metropoli cartaginese in rapporto alle nuove realtà politiche che entravano di volta in volta a far parte dell’impero. In tale prospettiva si può collocare anche la messa in funzione del santuario-tofet, ubicato in un’area periferica rispetto al nucleo cittadino ma di forte impatto emotivo, in virtù della sua doppia funzione rivolta sia alla sfera pubblica e istituzionale sia alla religiosità più intima e privata del singolo cittadino. La fine del V e soprattutto il IV sec. a.C. rappresentano per Nora una fase di ripresa economica e commerciale percepibile non solo nelle trasformazioni del tessuto urbano, ma anche nei corredi della necropoli a inumazione collocata sull’istmo (Bartoloni - Tronchetti 1981) e nello sfruttamento del territorio. Infatti, mentre per la fase fenicia e la prima fase punica le attestazioni si concentrano nelle aree limitrofe alla penisola, nel periodo in questione si assiste, grazie alla nascita di fattorie di varia estensione, a un capillare sfruttamento agricolo della piana di Nora (Botto et al. 2003).
A poca distanza da Nora, al centro del Golfo degli Angeli, si colloca la fondazione dell’antica Karalis, sicuramente uno degli approdi più importanti di tutta la Sardegna meridionale. Purtroppo, a causa del progressivo sviluppo della città moderna, quasi nulla sappiamo dell’antica colonia fenicia, che doveva estendersi nella pianura fra l’attuale stagno di Santa Gilla e il colle di Tuvixeddu. La precoce frequentazione dell’area da parte dei Fenici è documentata dal recupero di un frammento di skyphos, attribuito a fabbrica protocorinzia e datato alla fine dell’VIII sec. a.C., che si collega a un analogo ritrovamento effettuato a Settimo San Pietro, nelle immediate vicinanze di Cagliari, a testimonianza di precoci contatti con i ricchi villaggi agricoli del Campidano (Tronchetti 1990).
Una stabile presenza di coloni orientali è comunque documentata solo alla fine del VII e soprattutto nella prima metà del VI sec. a.C., quando le testimonianze si fanno più consistenti. Attribuibili a questo periodo sono infatti alcuni lacerti di muri con zoccolo di pietra e alzato di mattoni crudi individuati negli scavi di via Brenta in associazione a ceramiche fenicie e d’importazione. Di queste ultime, che testimoniano degli intensi contatti fra Karalis e le città dell’Etruria meridionale, si segnalano numerosi frammenti di bucchero e di coppe etrusco-corinzie, nonché un aryballos corinzio e alcune coppe greco-orientali. Più ricca risulta la documentazione della città punica, conosciuta grazie a una serie di interventi di urgenza nel tessuto cittadino moderno, ma soprattutto da scavi sistematici nelle sue necropoli. Riguardo ai primi si segnala il recupero di quantità considerevoli di ceramica attica, a testimonianza dell’importanza raggiunta da Karalis sotto la dominazione cartaginese, in virtù della sua funzione di collettore dei prodotti agricoli provenienti dal Campidano. Riguardo alle indagini nelle aree sepolcrali, si deve soprattutto sottolineare l’importanza degli scavi condotti a Tuvixeddu agli inizi del Novecento e recentemente ripresi.
All’estremità orientale del Golfo degli Angeli, a circa 20 miglia marine da Cagliari, si colloca, nel territorio di Villasimius, l’insediamento fenicio di Cuccureddus. Ubicata su un’altura protesa verso il Golfo di Carbonara e lambita alla base dalla foce del Riu Foxi, la colonia risulta fondata dai Fenici intorno alla metà del VII sec. a.C. In ragione della sua posizione strategica sulla rotta di collegamento fra i principali porti del Tirreno centro-meridionale e le coste del Nord Africa e della Penisola Iberica, l’insediamento di Cuccureddus si caratterizza, sin dalle prime fasi di vita, come centro commerciale di primaria importanza. Esso rappresentava infatti un approdo sicuro, grazie al porto-canale sull’estuario del Riu Foxi, dove potersi rifornire di acqua potabile. Le operazioni di scambio erano inoltre facilitate dalla presenza di un santuario, all’interno del quale sono state rinvenute numerose bullae di terracotta con impressi i sigilli dei mercanti che lì effettuavano transazioni commerciali. Verosimilmente il tempio era dedicato alla dea Astarte e in esso veniva praticata la prostituzione sacra.
Le indagini archeologiche hanno infatti messo in evidenza una serie di piccoli ambienti, che circondavano il corpo centrale dell’edificio di culto, all’interno dei quali sono stati rinvenuti numerosi contenitori per unguenti profumati, sia di fabbrica fenicia sia di importazione greca ed etrusca. Inoltre, è stato recuperato un doccione di terracotta per lo scolo delle acque piovane, che raffigurava un fallo di dimensioni abnormi. In prossimità del santuario vi erano abitazioni private e magazzini per lo stivaggio e la conservazione delle derrate, collocate in anfore da trasporto rinvenute in grandi quantità. Sia gli edifici commerciali sia quelli privati si trovavano sul versante occidentale della collina, in corrispondenza di una scala che conduceva direttamente al porto fluviale. L’insediamento di Cuccureddus rimase in funzione sino al terzo quarto del VI sec. a.C., quando, dopo un violento attacco, venne distrutto dagli eserciti cartaginesi. Tale avvenimento si può spiegare alla luce della politica economica attuata da Cartagine in Sardegna, indirizzata allo sfruttamento intensivo delle fertili pianure del Campidano e dell’Arborea, che dovevano soddisfare il fabbisogno di cereali delle armate della metropoli nordafricana, piuttosto che essere interessata ai commerci internazionali avviati dalle colonie fenicie dell’isola.
Allo stesso modo del Sulcis, anche il Sinis e le aree a esso contermini rappresentano una regione di intensa e precoce colonizzazione fenicia. Sul Golfo di Oristano si affacciano infatti tre insediamenti di alta antichità: Othoca, Tharros e Neapolis.
È considerata tradizionalmente come la più antica colonia fenicia della regione. Tale valutazione si basa essenzialmente sul suo poleonimo, che contiene la radice semitica `tq, che significa “la (città) antica”. La colonia sorgeva su un tozzo promontorio proteso sulla laguna di Santa Giusta, che all’epoca si presentava come un golfo interno aperto sul mare del Golfo di Oristano (Ptol., III, 3, 2). La topografia dell’insediamento non è del tutto nota. Non si conosce lo scalo più antico, forse ubicato alla foce del Tirso, ma nel VII sec. a.C. il porto venne trasferito nella laguna, come testimoniato dalle numerose anfore ivi rinvenute (Fanari 1988).
L’abitato arcaico non doveva superare i 7,5 ha, con l’acropoli disposta nel settore nord-occidentale del promontorio, dove attualmente si trova la cattedrale medievale e dove, in anni recenti, sono state effettuate indagini mirate. Gli scavi hanno portato al recupero di un muro di fortificazione a duplice paramento assegnabile alla fase arcaica, il cui crollo avvenuto intorno alla metà del III sec. a.C. sigillava moltissimo materiale ceramico. I reperti più antichi riguardano ceramiche fenicie della fine dell’VIII - prima metà del VII sec. a.C., a cui fanno seguito materiali di epoca fenicia arcaica e di epoca punica in associazione con importazioni ioniche, etrusche e attiche. In attesa che la pubblicazione integrale dello scavo chiarisca la connessione fra muro e materiali sigillati, occorre sottolineare che si tratterebbe dell’unica testimonianza documentata in Sardegna di fortificazioni fenicie.
La necropoli, situata su un dosso sabbioso a circa 600 m a sud dell’abitato, in località Santa Severa, presenta tombe a cremazione in fossa e in cista litica, ma anche qualche inumazione in cassa di lastre di arenaria. Le sepolture, inquadrabili fra la metà del VII e la fine del VI sec. a.C., presentano corredi con ceramiche fenicie, greco-orientali ed etrusche. Per i personaggi di rango di sesso maschile è documentata la deposizione di armi di ferro: punta e puntale di lancia. Dopo la conquista cartaginese il centro di Othoca sembra subire una decisa contrazione. La ripresa si avrà solo nel corso del IV sec. a.C., come suggerito dal rinvenimento di un ipogeo costruito con blocchi di arenaria rinvenuto nell’area cimiteriale di Santa Severa.
Fu fondata dai Fenici sul promontorio di Capo San Marco, che chiude a settentrione il Golfo di Oristano, verosimilmente sullo scorcio dell’VIII sec. a.C. Le evidenze più antiche si riferiscono al tofet e alle necropoli. Il primo, ubicato sulla collina di Su Muru Mannu, venne frequentato dalla fine dell’VIII al II sec. a.C. L’area sacra si impiantò sui resti di un precedente villaggio nuragico da tempo abbandonato, per cui le urne con le ossa calcinate dei bambini morti prematuramente e le stele vennero deposte in prevalenza all’interno delle strutture curvilinee delle capanne, che rappresentavano un valido riparo.
Per quanto riguarda gli impianti funerari è stato dimostrato che essi dovevano essere due: una necropoli era ubicata lungo la costa occidentale dell’istmo, in prossimità della chiesa di S. Giovanni di Sinis, mentre l’altra si trovava lungo la costa orientale, presso la torre vecchia. In entrambi gli impianti il rituale attestato è quello dell’incinerazione in fossa terragna o in cista litica. I corredi presentano materiali che si datano fra l’ultimo quarto del VII e il terzo venticinquennio del secolo successivo. Il recupero di stiletti a capocchia sagomata di artigianato nuragico, identici a quelli rinvenuti a Othoca e a Bitia, e di un cospicuo lotto di bronzi nuragici, tra cui numerose faretrine votive, suggerisce anche per Tharros il precoce inurbamento di élites indigene. La presenza di due necropoli, riproposta in età punica, induce a credere che anche l’abitato fosse diviso in due nuclei con funzioni differenziate: il nucleo settentrionale con attività produttive e in prossimità del porto; quello meridionale adibito ad area residenziale. Va comunque osservato che a causa delle sovrapposizioni di età romana ben poco sappiamo delle città fenicie.
Durante il periodo punico Tharros visse una fase di grande sviluppo economico, documentato soprattutto dal duplice impianto cimiteriale, con tombe a camera ipogeica che hanno restituito corredi di particolare ricchezza. In questo periodo la città si doveva estendere lungo tutto Capo San Marco, anche se si possono isolare due nuclei in relazione ai due impianti cimiteriali utilizzati nello stesso arco di tempo. Si distinguono, quindi, un quartiere settentrionale connesso con il porto, dove sono attestati per il IV sec. a.C. ateliers ceramici e laboratori adibiti alla lavorazione dei metalli, e un quartiere meridionale con abitazioni private ed edifici pubblici e religiosi. Fra questi ultimi si ricordano l’altare monumentale a cielo aperto, con decorazione dorica ed egizia, della metà circa del IV sec. a.C., e il cosiddetto Tempietto K, collocato a mezza costa sull’altura della Torre di San Giovanni, inquadrabile sempre nel IV secolo. Circondato dal mare, l’antico insediamento fu dotato di strutture difensive prevalentemente nel settore settentrionale rivolto verso l’entroterra. Qui, sulle pendici nordoccidentali della collina di Su Muru Mannu sono ancora chiaramente visibili i resti dell’imponente sistema difensivo.
Il tracciato prescelto per la realizzazione della cortina muraria si colloca a ridosso del tofet e si sviluppa in parte sul quartiere artigianale in uso per tutta la prima metà del IV sec. a.C. (Acquaro et al. 1997). In questo settore, quindi, la trincea eseguita per la posa in opera delle fondazioni delle mura taglia lo strato fortemente combusto e ricco di scorie ferrose della zona industriale permettendo di stabilire un termine post quem per la sistemazione dell’intera linea fortificata, da collocarsi, verosimilmente, nei decenni finali del IV sec. a.C. Riguardo alla tecnica utilizzata, si evidenzia che la trincea di fondazione fu successivamente riempita con scaglie di arenaria e di basalto e con scarsi frammenti ceramici, mentre le mura vennero apprestate sia con apparecchi di arenaria a blocchi bugnati sia con materiali di reimpiego, provenienti in gran parte dallo smantellamento di cappelle e sacelli che dovevano originariamente essere collocati nella vicina area sacra del tofet; in particolare, alcuni di questi blocchi risultano intonacati e presentano incise iscrizioni datate al IV sec. a.C., che sembrerebbero confermare la cronologia proposta per l’impianto difensivo. Quest’ultimo prevedeva una cortina muraria più avanzata, realizzata nella stessa tecnica, in cui si aprivano due postierle, una occidentale e una settentrionale. Sul settore orientale le due cortine dovevano essere raccordate da un grosso muro, al momento visibile solo nel tratto antistante la linea fortificata più avanzata.
Nel II sec. a.C. l’intero sistema difensivo fu interessato da un’ampia ristrutturazione; infatti, mentre le mura furono rinforzate con massi di basalto, che risultano chiaramente legati al precedente paramento di arenaria, davanti a esse venne aperto un fossato con il relativo muro di controscarpa. Altre parti del sistema difensivo di Tharros sono ravvisabili lungo il fianco settentrionale del colle su cui si innalza la torre spagnola di San Giovanni. Qui sono attualmente visibili i resti di un bastione a pianta rettangolare e alzato absidato posto a difesa, molto probabilmente, di un varco d’ingresso. Il bastione risulta fortemente estroflesso rispetto alla cortina muraria “a terrazzamento” visibile per un lungo tratto sulla cresta del colle. Recenti e accurate indagini hanno convincentemente dimostrato come l’intero complesso difensivo sia stato innalzato frettolosamente utilizzando materiale di riporto relativo alla cinta muraria di epoca punica, che doveva proteggere la città sul versante sud-occidentale e raccordarsi con le strutture della collina di Su Muru Mannu. La riedificazione della cinta muraria sotto la Torre di San Giovanni fu resa necessaria dal lento ma progressivo slittamento del terreno lungo la china della collina, manifestatosi verosimilmente a partire dalla fine del II sec. d.C., che dovette portare alla rovinosa distruzione della linea difensiva di epoca punica. La ricostruzione di questo tratto della cinta muraria di Tharros è stata collocata sul finire del III sec. d.C. e la sua frettolosa realizzazione è stata imputata al clima di incertezza e di preoccupazione presente in Italia a seguito delle prime incursioni vandaliche.
Localizzata presso l’attuale Santa Maria di Nabui, nel settore meridionale del Golfo di Oristano, recenti scavi ne hanno evidenziato il carattere emporico sin dalla metà dell’VIII sec. a.C. Collocato sulla rotta per la Penisola Iberica, l’insediamento dovette svolgere un importante ruolo di intermediazione con i centri coloniali fenici di Andalusia. Di grande interesse sono inoltre i rinvenimenti di anfore etrusche del tipo Py 1/2, da collocarsi nella seconda metà del VII sec. a.C.
La fondazione di una vera e propria città si colloca comunque solo intorno al 530 a.C. e si lega alla politica espansionistica di Cartagine nella regione. Il dato è di estremo interesse e trova puntuali riscontri nel territorio circostante la colonia, dove sorgono in questo periodo fattorie indirizzate allo sfruttamento agricolo delle fertili pianure dell’Arborea meridionale (van Dommelen 2000). Le ricognizioni di superficie hanno portato al rinvenimento non solo di ceramiche puniche, ma anche di importazioni ioniche e attiche che documentano il precoce inserimento di questi insediamenti in circuiti internazionali gravitanti intorno a Cartagine e alla stessa Neapolis. Nel corso del IV sec. a.C. Neapolis venne dotata di una cinta muraria a duplice paramento, con blocchi isodomi di arenaria. A questo periodo si riferisce anche la costruzione di un santuario dedicato a una divinità salutifera, documentato dal rinvenimento di una favissa con ceramiche attiche, ma soprattutto con un vasto complesso di terrecotte figurate che trova interessanti punti di confronto con le produzioni di Bitia (Moscati - Zucca 1989).
Per questo sito, collocato nella Sardegna nord-orientale, di estremo interesse risultano le ricerche effettuate negli ultimi anni nel territorio, che inducono a sostenere una presenza commerciale nell’area molto prima della fondazione punica della metà circa del IV sec. a.C. Secondo queste indagini, il sito sarebbe stato frequentato da mercanti greci e fenici a partire almeno dal terzo quarto del VII sec. a.C. Per tale periodo è stata proposta l’esistenza di un santuario emporico di ambito eracleo a tutela delle transazioni commerciali. L’ipotesi si basa sul recente rinvenimento di resti di un tempio dedicato a Melqart-Ercole, ubicato in quella che doveva essere l’acropoli della città punica, ora sotto la chiesa di S. Paolo (D’Oriano 1994).
La più antica città fenicia di questa regione della Spagna si localizza nel Golfo di Cadice, dove per volontà di Tiro venne fondata, nella prima metà dell’VIII sec. a.C., Gadir.
Seguendo le indicazioni fornite dagli autori classici, gli studiosi moderni hanno sempre collocato l’antico insediamento sotto la città moderna, ma recentemente D. Ruíz Mata (1999) ha avanzato l’ipotesi che esso vada identificato con il Castillo de Doña Blanca, cioè con il centro continentale situato nel settore nord-orientale del golfo, in una piccola insenatura in prossimità della foce del Guadalete. In effetti, gli scavi condotti in questo sito hanno dato risultati di particolare interesse: fondato agli inizi dell’VIII sec. a.C. l’insediamento, già nel 730-720 a.C., si estendeva su una superficie di circa 7 ha, delimitata da una possente muraglia preceduta da un fossato di oltre 10 m di ampiezza. L’area interna alle mura era occupata da circa 500 abitazioni, che potevano ospitare 2000-2500 persone. La ceramica rinvenuta negli strati relativi a questa fase conferma quanto emerso dallo studio dell’impianto urbano, sottolineando la ricchezza del centro in grado di alimentare relazioni commerciali ad ampio raggio con molte aree del Mediterraneo, dalla Fenicia alla Grecia, dal Nord Africa alla Sardegna.
Riguardo alla tesi sostenuta da Ruíz Mata, occorre osservare come la moderna città di Cadice renda estremamente difficile, se non impossibile, il recupero delle strutture più antiche. A ciò si deve aggiungere che molte delle evidenze raccolte in passato sono andate disperse, oppure risultano inutilizzabili mancando di un adeguato apparato documentario. Il confronto fra Cadice e il Castillo de Doña Blanca risulta quindi viziato da situazioni archeologiche completamente diverse. Quanto affermato trova riscontro nelle recentissime indagini condotte a Cadice che hanno messo in luce livelli pavimentali, probabilmente di un’abitazione, databili in base al materiale ceramico all’VIII-VII sec. a.C. Quindi, pur valutando con la massima attenzione le considerazioni di Ruíz Mata, si ritiene più probabile che la prima occupazione del Golfo di Cadice da parte dei Fenici abbia portato alla creazione di due insediamenti: quello insulare, collocato sotto la moderna città di Cadice, e quello continentale, ubicato al Castillo de Doña Blanca. Questa strategia di popolamento, che risulta simile a quella documentata nella metropoli di Tiro, doveva offrire numerosi vantaggi. Infatti, mentre l’insediamento insulare garantiva il controllo del traffico marittimo verso il Mediterraneo e si trovava in una posizione di completa sicurezza nei confronti di eventuali aggressioni da parte dell’elemento indigeno, il Castillo de Doña Blanca rappresentava l’avamposto di Gadir sulla terraferma, in altre parole il punto di incontro reale fra mondo fenicio ed elemento tartessico.
Ricostruire la topografia della Cadice fenicia e punica è problema complesso, sia perché l’antica colonia giace sotto la città moderna sia perché il paesaggio ha subito modifiche sostanziali negli ultimi 3000 anni. Studi geologici hanno infatti dimostrato che il pr omontorio su cui si sviluppa la città moderna si è gradualmente formato dall’antichità a oggi grazie all’unione di tre isole maggiori. Le cause di tale trasformazione sono da ricercare nelle alluvioni del fiume Guadalete, le cui acque sfociano nel settore nord-orientale della baia: l’accumulo di detriti trasportati dal fiume ha sensibilmente ridotto le dimensioni del golfo e mutato il corso delle correnti, che hanno dapprima favorito l’unione delle isole e successivamente saldato l’arcipelago gaditano alla terraferma; contemporaneamente, l’erosione marina ha provocato una riduzione della superficie insulare. I risultati ottenuti dalle moderne ricerche coincidono con quanto documentato dalle fonti classiche, che fanno esplicito riferimento a isole di varie dimensioni presenti nella baia. Di esse soprattutto tre risultano importanti per comprendere l’articolazione del primitivo nucleo fenicio: si tratta delle isole di Erytheia, Kotinoussa e Antipolis.
Erytheia è la più settentrionale e la più piccola delle isole considerate, dal momento che le sue dimensioni non dovevano superare i 10 ha; nelle fonti antiche è chiamata anche Afrodisias e Insula Iunonis, probabilmente perché in essa sorgeva in epoca fenicia un santuario dedicato alla dea Astarte che le moderne ricerche tendono a localizzare fra la Punta del Nao e La Caleta. Erytheia era separata da Kotinoussa da un canale, la cui esistenza è stata evidenziata solo di recente grazie a mirate indagini geomorfologiche. I sondaggi hanno permesso di chiarire che il canale, denominato Canal Bahía-Caleta, si è formato durante il periodo pleistocenico quando le due isole erano saldate alla terraferma; esso infatti non è altro che la parte terminale dell’alveo del fiume Guadalete. Il canale era ancora in funzione al momento dell’arrivo dei primi coloni, ma poco dopo dovette avviarsi il processo di interramento che si completò in modo definitivo in epoca romana. Secondo la descrizione degli autori classici, Kotinoussa era l’isola più grande; essa presentava una forma allungata, con un promontorio a ogni estremità. Sul promontorio occidentale, in corrispondenza dell’attuale Castillo de San Sebastián, si deve probabilmente collocare il Kronion, cioè il tempio del dio Kronos, menzionato da Strabone (III, 5, 3). Nello stesso passo il geografo greco riferisce che sul promontorio orientale, a una distanza dalla città di 12 miglia romane, pari a circa 18 km, venne eretto il famoso tempio di Melqart.
Le moderne ricerche hanno inoltre stabilito che su Kotinoussa era collocato il nucleo più consistente della necropoli, localizzato principalmente presso Puerta de Tierra, sul lato meridionale del canale Bahía- Caleta. Antipolis è la terza isola citata nei testi antichi e corrisponde all’attuale San Fernando; su quest’isola le ricerche non sono state in grado di evidenziare presenze archeologiche anteriori all’epoca punica. Da quanto ricostruito appare evidente come gli autori classici quando parlano di Cadice facciano riferimento a una pluralità di insediamenti distribuiti nella baia. Il dato trova conferma nei successivi adattamenti nella lingua greca e in quella latina del nome fenicio della città: in fenicio il nome di Cadice era infatti gdr (vocalizzato Gadir), che significa “muro”, “luogo chiuso” o “cittadella fortificata”; nei testi in greco, invece, il nome appare sempre al plurale, come documentato dai termini Gadeira e Gadeiroi (lo stesso avviene nei documenti in lingua latina, dove è attestata la forma Gades).
Per quanto riguarda l’insediamento continentale del Castillo de Doña Blanca, esso dista dalla costa circa 16 km in linea d’aria; tuttavia, quando agli inizi dell’VIII sec. a.C. venne prescelto dai Fenici per costruirvi un insediamento il sito era lambito dalle acque del mare. Questo drastico cambiamento del paesaggio si deve all’azione alluvionale del Guadalete, la cui foce nell’antichità era collocata sul lato sinistro della colonia fenicia. L’insediamento si trova su una piccola collina artificiale, che attualmente supera di poco i 30 m di altezza, disposta a ridosso della Sierra de San Cristóbal. Il porto principale era collocato sul lato orientale della collina, all’interno di una piccola insenatura riparata dai venti di levante; un secondo porto si trovava a ponente, ma è stato recentemente distrutto dall’azione di una cava. La scelta del sito non è casuale, ma corrisponde a precisi criteri: la vicinanza al mare, la presenza di un luogo sicuro per ricoverare le imbarcazioni, la facilità di collegamenti con l’interno resa possibile dalla navigabilità del Guadalete e del Guadalquivir, il più grande fiume della regione. L’area fu frequentata fra la fine dell’età del Rame e gli inizi dell’età del Bronzo, ma venne successivamente abbandonata. L’occupazione stabile della collina è ripresa solo con l’arrivo dei primi coloni fenici e si è protratta sino alla fine del III sec. a.C., quando la regione è passata sotto il controllo dei Romani.
Le cause di questo repentino abbandono sono sicuramente da imputare ad avvenimenti bellici, ma il progressivo interramento del porto dovuto all’azione alluvionale del Guadalete deve aver causato non poche difficoltà allo sviluppo del centro nelle sue ultime fasi di vita. Sta di fatto che già nel corso del III sec. a.C. una parte della popolazione del Castillo de Doña Blanca si trasferì nella Sierra, a Las Cumbres, in un’area in precedenza occupata da un villaggio indigeno. Sul finire del secolo, inoltre, si colloca il definitivo abbandono della collina, motivato dalle devastazioni avvenute a seguito della seconda guerra punica, testimoniate da ampi strati di bruciato nell’abitato e da proiettili di catapulta presso le mura. Da questo momento il Castillo de Doña Blanca non fu più occupato stabilmente. Le ricerche archeologiche sono iniziate nel 1979 a opera di Ruíz Mata, sotto la cui guida si sono protratte sino ai giorni nostri. In questo lasso di tempo sono state date del sito varie interpretazioni. Inizialmente si era pensato che il Castillo de Doña Blanca potesse essere un grande insediamento indigeno sottoposto a una precoce e massiccia influenza fenicia determinata dalla vicinanza di Cadice. Recentemente è invece maturata la convinzione che il Castillo de Doña Blanca sia una vera e propria fondazione fenicia, la più antica della Baia di Cadice, da identificare con la città di Gadir o almeno con una parte di essa, dal momento che, come sopra osservato, con questo termine si può definire una realtà più complessa, articolata in un insieme di insediamenti fra loro complementari.
L’interpretazione del sito come colonia fenicia è sostenuta da importanti evidenze archeologiche: 1) le strutture di VIII secolo poggiano su strati sterili, dal momento che non sono stati individuati indizi di una frequentazione indigena durante il Bronzo Finale; si tratta quindi di una fondazione ex novo; 2) gli edifici scavati sono chiaramente di tradizione orientale e si distaccano sia nella tecnica edilizia sia nella pianta dalle capanne dei vicini villaggi indigeni; lo stesso si può dire per il sistema difensivo con l’introduzione delle fortificazioni a “casematte” tipiche degli insediamenti dell’età del Ferro dell’area siro-palestinese; 3) la ricchezza e la varietà della ceramica fenicia rinvenuta è tale da non potersi imputare solo a relazioni commerciali, anche intense, ma deve sottintendere la presenza di elementi stabili e di laboratori ceramici; 4) i circa 80 graffiti in scrittura fenicia rinvenuti su frammenti ceramici riportano nomi e luoghi di provenienza fenici; 5) sono presenti specie faunistiche e prodotti ittici e agricoli di provenienza orientale, non documentati in precedenza nella Penisola Iberica; 6) la ceramica tartessica è limitata e la sua presenza si deve, molto verosimilmente, alle relazioni commerciali intrattenute con i villaggi del circondario e con l’integrazione di elementi indigeni all’interno della città.
Per quanto riguarda l’influenza esercitata dai Fenici della Baia di Cadice nel territorio circostante, è convinzione diffusa che la presenza tiria nell’Andalusia occidentale sia stata inizialmente motivata dalla ricerca dei metalli, in particolare dell’argento. Le fonti storiche a più riprese fanno riferimento alle ricchezze minerarie della regione e al fatto che i Fenici grazie ai commerci con Tartesso riuscirono ad accumulare ingenti risorse. Alla luce delle moderne ricerche, possiamo affermare che tali commerci interessarono le aree montuose interne delle province di Huelva e di Siviglia in un periodo compreso all’incirca fra il 750 e il 570 a.C.; inoltre, già nel corso dell’VIII sec. a.C. le navi di Cadice ampliarono il loro raggio di azione sino a raggiungere le coste del Portogallo e del Marocco atlantico. Le ricerche hanno evidenziato i due principali itinerari dei metalli utilizzati dai Fenici nell’Andalusia occidentale nell’VIII e nel VII sec. a.C.: il primo nasce nella regione del Río Tinto, dove si trova uno dei più ricchi distretti minerari dell’antichità e dove si sviluppò nel periodo preso in esame un insediamento minerario, il Cerro Salomón, specializzato nell’estrazione e nella fusione dell’argento. Dal Cerro Salomón il metallo sotto forma di lingotti e il minerale allo stato grezzo venivano trasportati lungo il corso del Río Tinto fino a Huelva, il più dinamico centro portuale indigeno della regione, dove erano imbarcati alla volta di Gadir e di altri importanti mercati dell’area atlantica.
Nel tessuto urbano di Huelva sono stati rinvenuti in stratigrafie di VIII-VII sec. a.C. forni per la fusione dell’argento che confermano la tesi secondo la quale solo una parte del minerale estratto nell’interno veniva lavorata in loco. Il secondo itinerario era organizzato intorno al distretto minerario di Aznalcóllar, all’interno del quale si originarono in questa fase nuovi insediamenti, di cui alcuni, come Cerro del Castillo e Los Castrejones, collocati in posizione strategica e muniti di imponenti sistemi difensivi. Allo stesso tempo, fuori dalle aree minerarie e disposti lungo la direttrice di collegamento al mare sorsero altri centri in cui è documentata l’attività di lavorazione dell’argento. Si tratta dei villaggi di Peñalosa e di San Bartolomé de Almonte, ma soprattutto della città fortificata di Tejada la Vieja. In questi insediamenti il minerale argentifero veniva prima fuso e lavorato, quindi inviato alla foce del Guadalquivir, dove era imbarcato alla volta di Gadir. Comunque, non tutto il minerale estratto ad Aznalcóllar era fuso negli insediamenti indigeni dell’interno; recenti indagini condotte al Castillo de Doña Blanca hanno evidenziato la presenza in abitazioni di epoca arcaica di consistenti quantità sia di piombo metallico sia di litargirio, che attestano la lavorazione in loco del prezioso metallo.
Le analisi condotte hanno dimostrato dunque che l’argento lavorato al Castillo de Doña Blanca proveniva da Aznalcóllar e ciò permette di affermare che, come rilevato per il primo itinerario, anche nel secondo parte del minerale allo stato grezzo era trasportato direttamente sino alla costa, dove era fuso in centri specializzati. Il dato è di grande interesse, dal momento che attesta per la prima volta un coinvolgimento diretto dell’elemento fenicio nei processi di lavorazione dell’argento; in passato, infatti, si riteneva che l’apporto fenicio si limitasse a fornire tecnologie e che l’estrazione e la lavorazione del metallo fossero esclusivamente in mano all’elemento tartessico. Tale situazione, invece, risulta valida unicamente per il primo dei due itinerari, mentre per il secondo l’impegno fenicio è più consistente. I dati raccolti permettono quindi di affermare che il Castillo de Doña Blanca - Gadir fu il principale centro collettore dell’argento tartessico; da questa colonia il prezioso metallo veniva imbarcato su navigli di lungo corso, armati dai ricchi mercanti di Tiro stabilitisi in Occidente, per essere trasportato in madrepatria e in tutti i più importanti mercati del Mediterraneo.
Il commercio dell’argento, comunque, non arricchì soltanto la classe mercantile tiria, ma portò notevoli benefici anche alle popolazioni indigene, in particolare alle classi emergenti; l’ostentazione di beni di prestigio da parte delle aristocrazie tartessiche indica, infatti, chiaramente un accumulo di ricchezze motivato dal ruolo svolto all’interno delle comunità di appartenenza e dal sempre crescente volume di scambi sviluppato con l’elemento fenicio. I Fenici agirono in quest’arco di tempo in modo determinante anche sugli aspetti produttivi legati all’agricoltura e all’allevamento. Le pianure che si distendono lungo il corso del Guadalquivir sono fra le più fer tili di tutta la Spagna e grazie al loro sfruttamento intensivo si svilupparono lungo le rive di questo fiume alcuni fra i più importanti centri tartessici. Dunque, parallelamente a una penetrazione verso le aree minerarie del Río Tinto e di Aznalcóllar dobbiamo registrare un forte interesse fenicio per le risorse agroalimentari dislocate lungo questa direttrice. Le evidenze archeologiche, infatti, indicano chiaramente che i ricchi villaggi della valle del Guadalquivir furono precocemente frequentati dai mercanti della Baia di Cadice; inoltre, vi sono significativi indizi che fanno propendere per uno spostamento massiccio di coloni levantini all’interno delle comunità tartessiche.
Per quanto concerne gli insediamenti fenici dell’Andalusia orientale, essi si dispongono su un’ampia fascia costiera che interessa le moderne province di Malaga, Granada e Almería. Dal punto di vista topografico, le colonie si collocano alla foce o lungo il corso dei numerosi fiumi che dalla Cordillera Penibética raggiungono il Mediterraneo, in corrispondenza di ampie e fertili pianure delimitate dai rilievi montuosi che corrono paralleli alla linea di costa a una distanza di circa 20 km. Procedendo da ovest verso est, i centri più importanti sono: Cerro del Prado (alla foce del Guadarranque), Casa de Montilla (alla foce del Guadiaro), Cerro del Villar (alla foce del Guadalhorce), Malaga (sul Guadalmedina), Toscanos (sul Vélez), Morro de Mezquitilla (sull’Algarrobo), Chorreras, Almuñécar (sul Río Seco), Cerro de Montecristo (sul Río Grande) e Villaricos (sull’Almanzora).
La scarsa dimensione degli abitati e delle relative necropoli indica che inizialmente il numero dei coloni doveva essere alquanto ridotto; per questo motivo e in assenza di indagini sul territorio, sino a non molto tempo fa l’idea dominante nel campo degli studi era che i Fenici si fossero installati nella regione poiché risultava scarsamente abitata e quindi più facilmente controllabile. Inoltre, si pensava che la funzione delle colonie dell’Andalusia orientale fosse di tipo commerciale, strettamente collegata ai rapporti con Tartesso e al commercio dell’argento; per questo motivo i centri costieri delle province di Malaga, Granada e Almería venivano interpretati come scali nella rotta di collegamento fra Tiro e Cadice, oppure, facendo riferimento all’Ora Maritima di Avieno (175-180 d.C.), come punti di partenza della via terrestre verso i ricchi distretti minerari delle province di Huelva e di Siviglia. In effetti, nell’antichità l’attraversamento dello Stretto di Gibilterra era ritenuto particolarmente pericoloso, per cui il commercio dall’area atlantica all’area mediterranea della Penisola Iberica avveniva anche per via di terra seguendo il corso dei principali fiumi della regione, in particolare del Guadalhorce.
Le ricerche archeologiche degli ultimi anni hanno sensibilmente mutato il quadro delle conoscenze, per cui tali valutazioni risultano in gran parte superate. Attualmente si concorda nel sostenere che la strategia economica sviluppata dai Fenici nell’Andalusia orientale fosse più articolata e rivolta sin dall’inizio anche al potenziamento delle attività industriali legate allo sfruttamento delle risorse presenti nell’hinterland delle colonie. In effetti, le indagini hanno confermato lo sviluppo sia delle attività tipiche dei contesti marini, quali la pesca, la raccolta dei molluschi e la salagione del pesce, sia di attività agropastorali gestite direttamente dall’elemento fenicio utilizzando in parte mano d’opera indigena. In alcuni casi, inoltre, tali imprese dovettero prosperare a tal punto da creare un surplus in grado di alimentare i commerci con altre aree della colonizzazione fenicia, in particolare con Cartagine, e con i più importanti centri indigeni dell’interno. In questa sede non è possibile esaminare in dettaglio tutti gli insediamenti coloniali sopra citati.
Tuttavia, procedendo da ovest verso est, è senz’altro da segnalare la colonia del Cerro del Villar, fondata nella seconda metà dell’VIII sec. a.C. su un isolotto di circa 10 ha situato alla foce del Guadalhorce. La scelta del luogo fu motivata da considerazioni di ordine strategico dovute alla buona posizione del porto, perfettamente riparato dai venti e dalle correnti, alla sua collocazione in prossimità dell’importantissima via di comunicazione interna rappresentata dalla valle del Guadalhorce, in grado di mettere in comunicazione la costa di Malaga con il regno di Tartesso, e alla sua funzione come luogo di mercato, sia in rapporto alla componente indigena sia nei confronti degli altri centri coloniali. I recenti scavi condotti al Cerro del Villar hanno documentato una sequenza stratigrafica articolata in 10 livelli che copre un arco di tempo compreso fra un momento avanzato dell’VIII e gli inizi del VI sec. a.C. Il periodo di maggiore splendore della città si colloca nel VII sec. a.C., come testimoniato dalla messa in luce di grandi abitazioni di pianta rettangolare separate da larghe strade e talvolta provviste di moli di attracco per le imbarcazioni.
La presenza di importazioni dalla Grecia (anfore del tipo SOS) e dal Mediterraneo centrale non può che confermare l’importanza del sito, la cui marineria intratteneva relazioni commerciali a largo raggio. Fra le varie attività svolte all’interno della colonia spiccano per importanza quelle legate alla metallurgia, alla colorazione dei tessuti e alla lavorazione e conservazione del pescato. Per la commercializzazione del pesce sotto sale e del vino prodotto assieme ai cereali e all’orzo nel territorio circostante si sviluppò anche un’intensa produzione di anfore da trasporto, di cui abbiamo ampia testimonianza nei villaggi indigeni dell’hinterland. Tale attività assunse dimensioni considerevoli dopo il 570 a.C., quando la colonia venne abbandonata a causa delle continue inondazioni del Guadalhorce a favore della vicina Malaga. Al centro dell’isolotto collocato nel delta del fiume, in posizione dominante, venne infatti realizzato un atelier ceramico specializzato nella produzione di grandi contenitori per il trasporto e lo stoccaggio di prodotti alimentari (anfore, pithoi), destinati non solo a soddisfare le esigenze dei coloni della Baia di Malaga, ma anche degli abitanti dei centri indigeni economicamente vincolati alla potente polis di Malaga.
Per quanto riguarda la valle del Vélez, è da segnalare che alla foce di questo fiume, poco dopo la metà dell’VIII sec. a.C., venne fondata la colonia di Toscanos, a dimostrazione di un precoce interesse per il controllo e lo sfruttamento del territorio circostante. Differentemente dal Cerro del Villar, l’abitato di Toscanos si situa sulla terraferma, su un’altura poco elevata collocata sul lato occidentale del Vélez a controllo dell’ampia e sicura baia e della fertile pianura retrostante. Gli scavi condotti a partire dagli anni Sessanta del Novecento hanno messo in luce per le fasi più arcaiche edifici di grandi dimensioni che sottolineano la posizione di spicco dei primi coloni trasferitisi in questa regione della Penisola Iberica, affiliati verosimilmente alle potenti corporazioni di commercianti che gestivano i loro traffici da Tiro. Tale impressione risulta del resto confermata da analoghe situazioni riscontrabili nei vicini centri di Morro de Mezquitilla e di Chorreras, dove sono stati messi in luce per le fasi di VIII secolo edifici rettangolari, composti da più stanze, costruiti in modo accurato.
Per quel che concerne Morro de Mezquitilla, occorre ricordare la documentazione proveniente dalla necropoli di Trayamar, dove sono state messe in luce cinque tombe a camera, costruite con pietre squadrate oppure ricavate nella roccia, provviste di ricchi corredi e di vasi di alabastro di fattura egiziana, come quelli della necropoli Laurita di Almuñécar. Gli inizi del VII sec. a.C. rappresentano per Toscanos un periodo di rapida crescita economica, documentata archeologicamente dalla costruzione di un enorme edificio a tre navate disposto su due piani (Edificio C), intorno al quale tendono a concentrarsi tutte le attività economiche dell’insediamento. La somiglianza di questo edificio con analoghe strutture rinvenute nell’area siro-palestinese ad al-Mina e Hazor ha indotto gli archeologi tedeschi che hanno scavato il sito a considerare l’Edificio C come un magazzino, dove venivano stoccate le merci provenienti dalle intense attività commerciali organizzate dai mercanti fenici, sia in ambito regionale sia su circuiti internazionali. Tale ipotesi risulta del resto confermata dalla ceramica rinvenuta all’interno della struttura e riconducibile nella maggioranza dei casi ad anfore e a grandi contenitori da trasporto o da immagazzinamento.
Recentemente M.E. Aubet (2000) ha proposto per l’Edifico C di Toscanos una funzione molto più complessa rispetto a quella di semplice magazzino, dal momento che secondo la studiosa in questo edificio dovevano svolgersi anche funzioni amministrative; inoltre le vicine strutture E, F, G devono essere poste in relazione con l’Edificio C: potrebbero infatti rappresentare negozi, oppure officine connesse con l’edificio principale. Nel corso del VII sec. a.C. Toscanos si dota anche di un quartiere industriale specializzato nella produzione di manufatti di bronzo e di ferro per uso locale. In questa fase l’insediamento raggiunge la sua massima espansione, inglobando le vicine colline del Peñón e di Alarcón. L’importanza politica e commerciale del centro risulta confermata da diversi elementi: innanzitutto dalle importazioni che attestano un volume di scambi amplissimo, che coinvolge Cartagine, le colonie greche del Golfo di Napoli, Cipro e la Fenicia; inoltre, intorno al 600 a.C. l’intera area venne fortificata con una possente muraglia eretta, molto verosimilmente, con l’aiuto delle popolazioni indigene dei vicini villaggi della valle del Vélez. Toscanos venne abbandonato intorno alla metà del VI sec. a.C., in linea con la crisi che investì gli insediamenti fenici dell’intera regione, solo in parte rioccupati durante la successiva fase punica.
Nella provincia di Granada è ubicata la colonia di Almuñécar (antica Sexi), fondata nella seconda metà dell’VIII sec. a.C. in un settore costiero di intensa frequentazione indigena. L’importanza di questo insediamento, testimoniata soprattutto dalle ricche sepolture delle sue necropoli, deve essere messa in relazione con i commerci intrattenuti con le popolazioni della fertile piana di Granada. L’intensità dei contatti è ben documentata dagli scavi condotti in alcuni dei più importanti villaggi dell’interno: ad esempio al Cerro de los Infantes, presso Pinos Puente, è stato messo in luce un forno per la produzione di anfore attivo a partire dal VII sec. a.C., che attesta un aumento della produzione agricola e la formazione di un surplus alimentare, veicolato, tramite le anfore di imitazione fenicia, alle colonie della costa. La richiesta sempre più pressante di prodotti alimentari (olio, vino, grano) da parte dell’elemento fenicio deve aver indotto altri villaggi della provincia di Granada a sviluppare il potenziale agricolo del proprio hinterland, come ben documentato per il Cerro de la Mora. L’importanza di Almuñécar è percepibile in particolare dalla ricchezza di una delle sue necropoli, quella di Laurita in località Cerro de San Cristóbal. Gli scavi condotti agli inizi degli anni Sessanta del Novecento da M. Pellicer Catalán hanno messo in luce alcune interessanti sepolture che si distinguono per la ricchezza del corredo e per la presenza di lussuose urne di alabastro di fabbricazione egiziana all’interno delle quali erano state raccolte le ceneri del defunto.
Passando alla provincia di Almería, recenti studi hanno evidenziato una frequentazione della regione da parte di mercanti fenici già nella seconda metà dell’VIII sec. a.C., attirati, molto verosimilmente, dalle ricchezze metallifere dell’Alpujárride. In questo periodo si datano infatti la fondazione del Cerro de Montecristo (antica Abdera), alla foce del Río Grande e le prime frequentazioni a scopo commerciale della Depressione di Vera, come testimoniato dal rinvenimento di ceramiche fenicie nella necropoli indigena di Boliche e nel Pago de Sapo de Vera. L’occupazione territoriale della Depressione di Vera avvenne invece solo nella seconda metà del VII sec. a.C., quando fu fondata, sulla riva sinistra dell’Almanzora, la colonia di Villaricos (antica Baria). L’interessamento dell’insediamento fenicio per il territorio circostante risulta immediato, come testimoniato dalla fondazione del centro secondario del Cabecico de Parra, la cui funzione si pone in relazione con lo sfruttamento delle miniere di argento e di ferro di Herrerías e con la messa a coltura delle fertili terre del Basso Almanzora. Sulla base delle testimonianze provenienti dalla necropoli, è possibile affermare che la città raggiunse la sua massima espansione durante il V e il IV sec. a.C.
Nel Sud-Est iberico particolarmente interessante risulta la situazione che si è andata definendo nella provincia di Alicante, dove venne fondata alla foce del Segura, poco dopo la metà dell’VIII sec. a.C., la colonia di La Fonteta. Le prime attestazioni orientali nella regione sono comunque più antiche e risalgono al Bronzo Finale (850-725 a.C. ca.), come attestato dai rinvenimenti effettuati nel villaggio indigeno di Peña Negra, situato sul versante meridionale della Sierra de Crevillente. Il motivo della precoce presenza dei Fenici sulle coste alicantine deve essere ricercato nelle ricchezze minerarie della regione, in particolare nelle vene di galena argentifera della Sierra di Orihuela e di Callosa del Segura.
Le indagini effettuate lungo il corso del Segura hanno evidenziato un preciso programma di controllo territoriale da parte dei Fenici, che si realizza tramite l’occupazione sistematica del settore inferiore del fiume e degli avamposti strategici sui percorsi di collegamento verso l’interno. Alla foce del Segura venne fondata infatti la città di La Fonteta, con i relativi impianti portuali, mentre a circa 2 km nell’interno i Fenici presero possesso, già sul finire dell’VIII sec. a.C., dell’insediamento fortificato del Cabezo del Estaño, che verosimilmente serviva a difendere uno dei porti della colonia, quello della Rinconada. Come osservato dagli archeologi che hanno scavato il sito, la presenza sin negli strati più antichi di materiali fenici e indigeni in percentuali equivalenti è la prova dell’avvenuta integrazione fra le due comunità. Nello stesso periodo i coloni di La Fonteta si installarono nel Castillo de Guardamar; in questo sito, collocato in posizione strategica a controllo del territorio e della navigazione costiera, eressero in breve tempo un edificio sacro, dedicato molto verosimilmente ad Astarte.
Gli scavi condotti a La Fonteta hanno portato all’individuazione di nove fasi, che coprono un arco di tempo compreso fra la metà dell’VIII e la metà del VI sec. a.C. Sin dai periodi più antichi sono presenti nel sito fornaci metallurgiche adibite alla lavorazione del rame, del bronzo, del ferro e dell’argento; di particolare interesse risultano inoltre le abitazioni domestiche che sono articolate in più vani, con pareti ben conservate che presentano zoccoli in muratura alti oltre 1 m e un alzato di mattoni di argilla e paglia seccati al sole. Nella seconda metà del VII sec. a.C. la colonia si dota di un possente sistema difensivo, con mura che raggiungono alla base uno spessore di circa 7 m e un’altezza superiore ai 12 m. L’importanza commerciale del sito è testimoniata dall’elevato quantitativo di anfore e di prodotti provenienti dai più importanti porti del Mediterraneo: sono attestati contatti con le coste vicino-orientali, con la Grecia, Cartagine, Sulcis, Malaga e Cadice.
L’arcipelago delle Baleari ha rivestito sin dalle fasi più antiche della presenza fenicia nel Mediterraneo occidentale una funzione centrale, dovuta alla sua posizione strategica sulla rotta che collegava la Sardegna alla Penisola Iberica. Le recenti indagini archeologiche hanno inoltre confermato la particolare importanza di Ibiza nel processo di colonizzazione: infatti, gli scavi condotti a Sa Caleta, nel settore sud-occidentale dell’isola, hanno messo in luce un insediamento fondato molto verosimilmente dai Fenici di La Fonteta intorno alla metà del VII sec. a.C.
L’abitato di Sa Caleta si sviluppa su un ampio promontorio separato dalla terraferma da un profondo torrente, in prossimità del quale è stato individuato il porto; le indagini hanno accertato che le abitazioni dovevano occupare l’intero promontorio ed estendersi su una superficie di circa 4 ha. Fra i materiali recuperati predominano le ceramiche, in prevalenza lavorate al tornio; fra queste particolare rilevanza assumono le anfore importate dalla Penisola Iberica e, in misura minore, dalle colonie fenicie del Mediterraneo centrale. La ceramica Red Slip è documentata per le lucerne a uno o due becchi, per le coppe carenate e per i piatti; la ceramica grigia orientalizzante è attestata per le coppe con orlo svasato e per i piatti, mentre la ceramica bicroma e policroma per le brocche con anse a doppio cannello. Di notevole interesse è anche il rinvenimento di piombo argentifero proveniente dalle locali miniere di s’Argentera, che doveva rappresentare un’importante fonte di guadagno per gli abitanti del luogo. Il piombo fuso in lingotti, infatti, veniva esportato con tutta probabilità sia in Spagna che nel Mediterraneo centrale; la lavorazione del ferro, al contrario, doveva essere molto limitata e solo per il mercato interno.
Il sito di Sa Caleta fu frequentato per un breve periodo, dal momento che agli inizi del VI sec. a.C. venne abbandonato e i suoi abitanti si trasferirono nella Baia di Ibiza, dove nell’ultimo quarto del VII sec. a.C. era stato fondato un nuovo insediamento. Le cause dell’abbandono di Sa Caleta sono ignote, ma poiché non sono state individuate tracce di distruzione si è pensato che esse potessero dipendere dalla necessità degli abitanti del luogo di occupare un’area più ampia, meglio protetta e con un porto in grado di soddisfare un commercio in continua crescita. In effetti, anche se poco sappiamo sulla topografia dell’insediamento della Baia di Ibiza, appare evidente come il luogo prescelto risponda meglio alle esigenze di una comunità numericamente considerevole dedita ai traffici marittimi. L’abitato più antico venne edificato sul lato occidentale della baia, in posizione dominante sulla sommità del colle del Puig de Vila, come testimoniato da alcuni sondaggi che hanno raggiunto i livelli della fine del VII sec. a.C.; alla base delle pendici settentrionali del rilievo, invece, si estendevano il porto, ben protetto, e il quartiere mercantile, mentre a occidente, sulla collina del Puig des Molins, gli archeologi hanno individuato la necropoli.
Il settore arcaico si trova alle pendici del rilievo ed è occupato da sepolture a incinerazione di due tipi: nel primo le ossa bruciate dei defunti sono sparse direttamente sul suolo e poi ricoperte, nel secondo le ossa sono raccolte in urne a loro volta interrate. Il corredo funerario risulta generalmente composto da ceramiche fenicie, mentre limitate appaiono le importazioni, fra cui spiccano reperti vascolari etruschi e greci, questi ultimi in prevalenza corinzi e della Grecia dell’Est; gli oggetti di ornamento personale riguardano amuleti e monili prevalentemente di argento. A partire dall’ultimo quarto del VI sec. a.C. l’insediamento subisce l’occupazione cartaginese, percepibile sia dal cambiamento di rito riscontrabile al Puig des Molins, dove i morti vengono inumati in spaziose tombe ipogeiche, sia dal radicale mutamento della cultura materiale, che presenta ora inequivocabili influssi nordafricani. Tale stato di cose è il riflesso della politica espansionistica cartaginese nel Mediterraneo, ravvisabile anche negli interventi militari condotti in Sicilia e in Sardegna.
Sotto Cartagine, Ibiza visse un periodo di grande floridezza economica, dovuta verosimilmente all’intensa attività agricola. Infatti, a partire dal V sec. a.C., si assiste sull’isola a un’occupazione capillare del territorio con l’installazione di fattorie specializzate nella produzione di olio, che veniva poi commercializzato in tutto il Mediterraneo centro-occidentale. Con l’inizio dell’occupazione massiccia delle aree agricole deve collegarsi verosimilmente anche la frequentazione del santuario rupestre di Es Cuieram, nel settore nord-orientale dell’isola. Nel IV sec. a.C. le genti puniche di Ibiza installarono un piccolo insediamento sull’isolotto di Na Guardis, a sud di Maiorca. Da qui in breve tempo organizzarono una fitta rete di relazioni commerciali in grado di influenzare considerevolmente, anche sotto l’aspetto culturale, le comunità della maggiore delle Isole Baleari. In questa fase furono intensificati notevolmente anche gli scambi con Formentera e quelli con Minorca, come testimoniato dall’ingente quantità di reperti recuperati nel fondaco di Cales Coves.
Il principale motivo dell’irradiazione fenicia nell’Ovest iberico deve essere ricercato nel commercio dei metalli, in particolare dell’oro e dello stagno, ma anche del rame e dell’argento. La strategia realizzata dai mercanti di Cadice per l’acquisizione di tali prodotti sembra ormai chiara: essa sfrutta i circuiti commerciali indigeni del Bronzo Finale, in grado di collegare stabilmente fra loro le due principali aree di produzione e smercio di armi e di beni suntuari di bronzo del settore atlantico della Penisola Iberica, vale a dire l’estuario del Tago e il comprensorio di Huelva. Le direttrici di irradiazione seguono un percorso marittimo e uno terrestre, attraverso le regioni interne dell’Estremadura spagnola e portoghese, dell’Alentejo e della Beira. In riferimento alla prima direttrice possiamo affermare che la penetrazione commerciale e culturale fenicia avviene dalle coste utilizzando il corso dei principali fiumi del paese.
La regione che sino a oggi ha evidenziato le prime e più consistenti attestazioni orientali è quella del Tago. Al riguardo, di grande interesse sono gli scavi condotti nell’insediamento indigeno dell’Alcáçova de Santarém, che si trova nell’interno, a circa 80 km dalla foce del Tago, in un punto strategico di fondamentale importanza, poiché facilmente difendibile e con una visuale assai vasta su lunghi tratti del fiume. L’Alcáçova de Santarém fu durante l’età del Ferro un porto marittimo di grande rilevanza, nel quale venivano raccolte e redistribuite sulle rotte atlantiche e mediterranee le risorse minerarie delle regioni più interne del paese, in particolare lo stagno e l’oro della Beira. I Fenici della Baia di Cadice si inserirono ben presto in questo circuito commerciale, come risulta dalle importazioni ceramiche rinvenute negli strati più antichi dell’insediamento, datati dagli archeologi che hanno scavato il sito intorno alla metà dell’VIII sec. a.C. A poche decine di chilometri a sud del Tago sfocia nell’Oceano Atlantico il Sado, che rappresenta un’area particolarmente ricca di presenze fenicie. Le più antiche attestazioni provengono dagli scavi condotti sulla collina di Santa Maria, nel centro storico di Setúbal, e si riferiscono alla fine dell’VIII - inizi del VII sec. a.C.
Una situazione analoga si può riscontrare ad Alcácer do Sal, il più importante insediamento indigeno del basso Sado, il cui benessere deve essere messo in relazione al controllo degli scambi fra la costa e le regioni più interne del paese, dove, nel distretto di Ourique, era particolarmente intensa l’estrazione di rame. La presenza di due nuclei di frequentazione fenicia all’entrata e ai limiti più interni dell’estuario del Sado deve aver creato le condizioni ideali per la fondazione di un insediamento fenicio. In effetti, le indagini condotte nella zona hanno portato all’identificazione e allo scavo sul Monte de Abul di un comptoir sorto per volere degli abitanti di Cadice intorno alla metà del VII sec. a.C., come confermato dalle analisi archeometriche condotte su campioni ceramici di Abul e del Castillo de Doña Blanca. L’insediamento di Abul sorge su una piccola penisola che si sviluppa sul lato destro dell’estuario del Sado, dominando la sua antica imboccatura. Lo scalo commerciale godeva di un’ottima posizione strategica, a metà strada fra i due centri indigeni di Setúbal e di Alcácer do Sal e in prossimità della confluenza con il São Martinho, l’affluente del Sado che permetteva l’accesso diretto al massiccio eruttivo della Serrinha, ricco di materie prime, in particolare minerarie.
Le indagini stratigrafiche hanno permesso di suddividere la vita di questo sito in due fasi: la prima si sviluppa dal momento della sua fondazione, che si può collocare nel secondo quarto del VII secolo, sino al 625 a.C. circa; la seconda fase, invece, copre un arco di tempo compreso fra l’ultimo quarto del VII e il primo quarto del VI sec. a.C. Tutte e due le fasi sono caratterizzate dalla presenza di una costruzione monumentale di grande interesse, al cui interno erano collocate sia le abitazioni dei coloni e gli spazi di rappresentanza sia i magazzini adibiti allo stoccaggio delle merci, come testimoniato dai numerosi contenitori di grandi dimensioni in essi rinvenuti. Alla fine del primo quarto del VI sec. a.C. il comptoir d’Abul cessò la sua funzione di centro commerciale, probabilmente a causa della crisi che investì in questo periodo la città-madre di Castillo de Doña Blanca - Gadir. Oltre a queste importantissime aree di penetrazione fenicia lungo i corsi del Tago e del Sado, gli archeologi portoghesi hanno individuato altri fuochi di irradiazione verso l’interno del paese.
Quello più settentrionale, che segna il limite della diffusione della cultura orientalizzante in Portogallo, si riferisce al corso del Mondego, alla cui foce si colloca l’insediamento di Santa Olaia. Il sito, che nell’antichità si trovava su un piccolo isolotto al centro dell’estuario del fiume, fu occupato all’inizio dell’età del Ferro. Sin dalle prime fasi di vita appare evidente il forte impatto con la cultura fenicia, riscontrabile sia nel tipo di abitazioni, a pianta rettangolare, sia nella produzione vascolare, dal momento che abbondano le ceramiche in Red Slip. Scavi recenti hanno inoltre messo in luce un’estesa area industriale, dove sono stati identificati alcuni forni metallurgici e ingenti quantità di scorie di minerale. Spostandoci nell’estremo Sud del Portogallo, in Algarve, gli insediamenti che hanno evidenziato stretti contatti con il mondo fenicio sono due: Castro Marim e Tavira. Questi centri presentano caratteristiche comuni, quali la posizione in prossimità della foce di un fiume, il fatto di essere fortificati e di conoscere una fase orientalizzante cronologicamente alta, fra la fine dell’VIII e il VII sec. a.C. Recenti studi hanno chiarito come Castro Marim e Tavira siano insediamenti di fondamentale importanza nella strategia di acquisizione dell’argento operata dai mercanti di Cadice a partire dall’area tartessica. A questa funzione bisogna inoltre aggiungere quella di scalo sulla rotta verso il Portogallo centro-settentrionale e le isole Cassiteridi ricche di stagno.
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