I corpi degli dei: antropomorfismo, epifanie e metamorfosi
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Gli dèi greci posseggono, oltre al privilegio dell’immortalità e strettamente legato ad esso, quello di poter giocare con le forme e di confondere i generi. Persino nelle raffigurazioni antropomorfe, il corpo degli dèi non smette di essere enigmatico e paradossale, in quanto destinato a rappresentare nelle forme dell’umano ciò che per definizione non lo è. Ora seminascosto sotto sembianze umane ora semirivelato nell’epifania, ora vulnerabile ora inaccessibile, il corpo divino è rappresentato in continua metamorfosi, segno di una potenza divina che non si identifica mai del tutto con le sue manifestazioni particolari e non ha necessariamente bisogno di un corpo per manifestarsi.
La presenza degli dèi agli occhi degli uomini prende in Grecia antica forme e intensità variabili. Nell’Iliade (XVI, 843-850), cadendo sul campo di battaglia, Patroclo riconosce che vari ordini di realtà cooperano alla sua morte: la moira, vale a dire il compiersi della "parte" di vita che gli è assegnata, l’azione di un dio, Apollo, e, tra gli uomini, quella di Euforbo e di Ettore.
Queste spiegazioni non si escludono, ma sono complementari. Pur se invisibile, un dio è presente accanto al guerriero, nel gesto efficace che sancisce la morte o la vittoria. Ma gli dèi, nell’epopea, si manifestano anche in modo più diretto, comunicando con i mortali sotto forma di voce o assumendo sembianze umane. Sono quelle di una vecchia nutrice che "indossa" Afrodite per parlare con Elena e spingerla nel letto di Paride; ma Elena riconosce la dea dal collo bellissimo e dagli occhi lucenti, quasi che un corpo umano non sia in grado di racchiudere lo splendore divino, a maggior ragione quando si tratta dell’Afrodite "d’oro" (Iliade, III, 383-398).
L’antropomorfismo degli dèi greci è meno assoluto di quanto comunemente non si creda: anche nelle rappresentazioni narrative, come quelle dell’epopea, in cui più forte è la tensione a dare forma umana alle potenze divine, l’alterità del dio trapela in un modo o in un altro. Quando, nell’Odissea (III, 1-385), Atena prende l’aspetto di Mentore per affiancarsi a Telemaco nel corso del viaggio di questi a Pilo, né il figlio di Odisseo né il vecchio Nestore ne sospettano l’identità divina. Ed ecco che Atena si ritrova a partecipare, con libazioni e preghiere, a un banchetto sacrificale in onore di Poseidone: il paradosso anticipa lo svelamento dell’identità divina, perché poco dopo, lasciate le sembianze di Mentore, Atena si allontana, simile a un uccello, e i presenti, colti da reverente terrore, le rivolgono preghiere. Di metamorfosi in metamorfosi gli dèi attraversano il reale prendendo varie forme, confondendo generi e tassinomie, e sembra che talvolta amino giocare con gli uomini e le loro percezioni. Odisseo giace sulla spiaggia di Itaca (Odissea, XIII, 187-313), ma quando si risveglia non riconosce il luogo in cui si trova, la meta sospirata del suo viaggio: Atena ha avvolto di nebbia la sua percezione e ora tutto gli sembra "altro".
La dea gli si avvicina, simile nell’aspetto a un giovinetto dall’aria nobile. Giochi di metis tra la dea e il suo protetto: anche Odisseo infatti mente sulla sua identità, suscitando il sorriso di Atena, che gli si rivela infine, come gli rivela la patria. La dea si manifesta allora a Odisseo nella forma di una “donna bella e grande e esperta di opere splendide”, e accompagna con una carezza le parole con cui lo rimprovera di non averla riconosciuta prima (Odissea, XIII, 287-301, 311-313).
Omero
L’incontro tra Atena e Odisseo
Odissea, Libro XIII [...]
Rise la dea Atena occhio azzurro,
lo carezzò con la mano: sembrava all’aspetto donna,
bella e grande, esperta d’opere splendide;
e parlandogli disse parole fugaci:
"Furbo sarebbe e scaltrito chi te superasse
in tutti gli inganni, anche se è un dio che t’incontra.
Impudente, fecondo inventore, mai sazio di frodi, non vuoi
neppur ora, in patria, lasciar da parte le astuzie,
e i racconti bugiardi che ti son cari fin dalle fasce.
Via, non parliamone più, perché ben conosciamo
le astuzie entrambi: tu sei il migliore fra tutti i mortali
per consiglio e parola, e io fra tutti gli dèi
sono famosa per saggezza e accortezza: neanche tu hai conosciuto
Pallade Atena, la figlia di Zeus, che pur sempre
in ogni pericolo ti sono vicina e ti salvo
[...].
E ricambiandola disse l’accorto Odisseo:
"Difficile, o dea, riconoscerti quando t’incontra un mortale,
anche se è molto saggio: tu prendi tutti gli aspetti".
Omero, Odissea, trad. it. di R. Calzecchi Onesti, Torino, Einaudi, 1989
Ma che cosa vede l’eroe, la dea stessa oppure una sua ennesima metamorfosi? Come infatti Odisseo fa notare ad Atena, un dio può trasformarsi in tutto, non è facile per un mortale riconoscerlo. Quando si consideri che la stessa descrizione, "donna bella e grande e esperta di opere splendide", ritorna altrove per una donna fenicia, nutrice di Eumeo, il sospetto si insinua che si tratti di una figura generica, e non specifica, e che, nel rivelare la sua identità ad Odisseo sulla spiaggia di Itaca, Atena non faccia altro che scegliere una forma umana appropriata all’immagine che gli uomini le attribuiscono.
Nell’Inno omerico ad Afrodite la dea, per sedurre il troiano Anchise, gli cela la sua identità, fingendosi una principessa frigia destinata a divenire la sua sposa; malgrado sospetti che quell’ospite apparsa all’improvviso nella sua capanna sia in realtà un theos, una divinità, Anchise si lascia sedurre e si unisce, lui mortale, con un’immortale. Quando più tardi rivela al suo amante di essere Afrodite, la dea ha cambiato aspetto e si erge allora maestosa, irradiando dal volto una bellezza immortale "degna di Citerea": altezza e splendore eccezionali, il collo, gli occhi, questi i dettagli che evocano, più che descrivere, la forma corporea che prende la dea nel manifestarsi a un Anchise terrorizzato (Inno omerico ad Afrodite, 169-190).
Afrodite si manifesta ad Anchise
Inni omerici, Inno V Ad Afrodite
E quando venne il tempo che i pastori guidano alla stalla, i buoi e le pingui pecore dai pascoli fioriti, allora la dea versò su Anchise un dolce sonno sereno, ed ella indossò le belle vesti. E dopo ch’ebbe cinto con grazia tutte le vesti, la divina tra le dee, si erse nella capanna: il suo capo toccava il tetto ben costruito, e raggiava dal volto la bellezza immortale che si addice a Citerea coronata di viole. Destò l’eroe dal sonno, gli rivolse la parola, e disse: "Sorgi, o Dardanide: perché dunque ti abbandoni a un sonno profondo? E dimmi se ti sembra che io sia ancora tale quale dapprima mi hai veduta coi tuoi occhi". Così parlò; ed egli, prontamente destandosi, le diede ascolto. Ma quando vide il collo e i begli occhi di Afrodite ne fu atterrito, e rivolse altrove gli occhi; poi si coprì col mantello il bel volto, e supplicandola, pronunciò queste parole alate: "O dea, subito, non appena ti vidi coi miei occhi, compresi che tu eri un’immortale: e tu non mi hai detto il vero. Ma, te ne prego per Zeus portatore dell’egida, non lasciare che io dimori tra gli uomini menando vita da invalido, e abbi invece pietà di me: poiché non ha una vita fiorente colui che giace con le dee immortali".
Inni omerici, a cura di F. Cassola, Milano, Mondadori, 1975
Un’epifania, certo, ma probabilmente anche un’ennesima metamorfosi, una variante "teomorfica" appunto, in cui la divinità appare agli occhi dei mortali in una forma umana appropriata, e magnificata, degna di Afrodite.
Se nell’epos greco alcune figure divine, come Thetis, la madre "marina" di Achille, oppure Circe e Calipso, le amanti "insulari" di Odisseo, interagiscono con i mortali direttamente, la mediazione della metamorfosi sembra invece caratterizzare di norma le manifestazioni delle divinità olimpiche, accentuandone il carattere epifanico sotto il segno di una fondamentale alterità. All’estremo opposto rispetto alle relazioni di Odisseo con le dee di cui condivide il letto senza danno si situano le storie dei mortali che pagano con la vita un incontro ravvicinato con il divino: l’incauta Semele, l’eroina tebana amata da Zeus, chiede al dio di mostrarsi a lei nella stessa forma cui ha diritto Era nell’incontrare lo sposo immortale; Zeus, legato a una promessa, esaudisce suo malgrado il desiderio di Semele e la donna all’apparizione del dio muore folgorata. La mediazione della metamorfosi rende possibile l’incontro tra il divino e l’umano, ma ribadisce al tempo stesso la distanza incolmabile che li separa.
Nel canto V dell’Iliade Diomede riceve da Atena il privilegio di uno sguardo lucido e chiaro, libero da quella spessa nebbia che avvolge di norma la percezione che i mortali hanno della realtà; munito di questo straordinario potere, l’eroe riesce a distinguere le divinità che agiscono sul campo di battaglia e con l’aiuto di Atena si scaglia sia contro Ares, sia contro Afrodite, che rientrano poi feriti sull’Olimpo.
Nei corpi vulnerabili di Afrodite e di Ares, dalle cui ferite sgorga sangue immortale, l’antropomorfismo degli dèi greci sembrerebbe trovare la sua espressione più compiuta. Delle divinità così simili agli uomini che ne riprendono l’aspetto esteriore come la fisiologia interna, rappresentati nel pensiero e nell’azione come personaggi dotati di precisa identità, e ritratti, nell’iconografia, con fattezze umane ben distinguibili e attributi specifici: in questa visione (diffusa, ma erronea) il divino e l’umano tenderebbero a confondersi.
Di conseguenza, gli studiosi moderni hanno pensato di poter tracciare un sistema di facili equivalenze tra la società degli uomini e quella degli dèi: il femminile umano, ad esempio, si ritroverebbe proiettato sull’Olimpo, dove Era incarnerebbe la sposa legittima e collerica, Atena la vergine, ancora legata al padre, e Afrodite l’adultera. Questo tipo di interpretazioni ha il torto di trascurare il fatto che le divinità non sono né persone né personaggi, ma "potenze divine": la raffigurazione antropomorfa degli dèi, così come la distinzione maschile/femminile riflettono la tensione dell’immaginario antico a rappresentare il divino, l’altro da sé, in forme sensibili, e a esprimere sotto forme umane, e quindi mortali, ciò che per definizione è "non-umano" (ambroton) e "non-mortale" (athanaton).
Nei suoi studi, Jean-Pierre Vernant (Corps des dieux, 1986) ha dimostrato che gli dèi sono dotati di un corpo che è al confine tra il sur-corps e il non-corps: nel tradurre l’alterità divina sotto le sembianze dello "stesso", l’uomo greco attribuisce agli dèi un corpo "paradossale", le cui capacità finiscono per costituire una negazione del corpo stesso. Il liquido vitale che scorre nelle vene di Afrodite e di Ares è difatti un "sangue non-sangue" (negli stessi versi che ne evocano il "sangue immortale", l’ambroton aima, gli dèi sono definiti anaimones, "sprovvisti di sangue", Iliade, V, 337-342); proprio perché immortale, il corpo divino è al tempo stesso vulnerabile e indifferente alla ferite, e Ares il guerriero può giocare a sfiorare la morte senza mai raggiungerla.
Omero
Il corpo immortale degli dèi
Iliade, Libro V, vv. 337-342
Attraverso il peplo divino che le avevano tessuto le Cariti l’arma penetrò la pelle, al di sopra del polso; sgorgò la linfa immortale (ambroton aima), l’icore, che scorre nelle vene degli dèi beati: essi non mangiano pane, non bevono il vino fulgente, perciò non hanno sangue (anaimones) e sono detti immortali.
Omero, Iliade, trad. it. di M. G. Ciani, Venezia, Marsilio, 1990
Anche la distinzione in generi, per quanto contribuisca ad articolare il pantheon, nulla toglie al fondamentale décalage tra dèi e uomini: esistono infatti più dissonanze che corrispondenze tra femminile divino e femminile umano, prova ne sia il fatto che, contrariamente alla donne mortali, le dee fanno politica e combattono. Una dea è innanzitutto una potenza divina, in secondo luogo una divinità femminile. Nel prendere sembianze umane Atena cambia spesso genere, ma la stessa Era, la sposa divina, non esita a penetrare in un corpo maschile per lanciare, sotto le mentite spoglie di Stentore, il più terribile grido di guerra (Iliade, V, 784-792).
Omero
Era sotto le sembianze di Stentore
Iliade, Libro V, vv. 784-792
Qui si fermò la dea dalle bianche braccia e gridò, simile a Stentore intrepido, dalla voce di bronzo che eguaglia la forza di altre cinquanta voci: "Vergogna, Argivi, belli d’aspetto, ma vili e infami; quando Anchille glorioso prendeva parte alla guerra, non osavano avvicinarsi, i Troiani, alle porte di Dardano, temendo la sua lancia fortissima; ed ora invece, lontano dalla loro città, presso le nostre navi combattono". Così disse, e risvegliò in tutti il coraggio e l’ardore.
Omero, Iliade, trad. it. di M.G. Ciani, Venezia, Marsilio, 1990
Soprattutto occorre non dimenticare che, per quanto preponderante, l’antropomorfismo degli dèi non è assoluto: una divinità è tale proprio perché può prendere tutte le forme che vuole, e manifesta la sua volontà e la sua presenza attraverso una moltitudine di segni.
Zeus, nei racconti che ne descrivono le imprese amorose, si trasforma a suo piacimento in toro, cigno, cuculo, o anche in pioggia d’oro; nella preghiera che le donne di Elide rivolgono a Dioniso, il dio è invocato nella sua forma taurina; in Arcadia la statua di culto di Demetra ha testa di cavallo, a Cipro, quella di Afrodite forma aniconica; in Attica anche Apollo, nella sua figura di Agyieus, cioè di protettore "delle strade", riceve un culto aniconico nella forma di una colonna di pietra alle porte delle case.
Al riguardo sarebbe preferibile non ricorrere alla nozione di aniconismo (rappresentazione non figurata del divino), né tanto meno a quella di teriomorfismo (raffigurazione del divino in forma, anche parzialmente, animale): tali nozioni infatti risultano da una tradizione di studi che interpretava le raffigurazioni non antropomorfe della divinità come "residui" di epoche precedenti, in cui il politeismo greco non avrebbe ancora raggiunto il suo pieno sviluppo.
Quando si rinunci a tale lettura evoluzionistica, le svariate forme che gli dèi assumono nei racconti, nell’iconografia e nel culto, appaiono coerenti con il tentativo di rappresentare un mondo divino plurale, utilizzando ogni risorsa espressiva disponibile per tradurre in immagine l’invisibile.
Se una raffigurazione è un insieme coerente di segni che evocano la presenza e le competenze di una divinità, non per questo il dio si identifica con la sua immagine, né questa è destinata a riprodurne fedelmente le fattezze. Non è un caso che proprio al tipo generico del kouros ("giovane uomo") o della kore ("fanciulla"), che esprime la forma umana nel suo massimo – e transitorio – splendore, sia spesso affidato il compito di celebrare in immagine il divino, che quello splendore possiede stabilmente.
Nelle rappresentazioni figurate il più delle volte sono gli attributi tradizionali che ci consentono di distinguere una divinità dall’altra: oggetti emblematici, come, per Ermes, il caduceo, il petaso e i sandali alati, per Apollo l’arco e la lira, per Atena l’egida; ma anche animali, come l’aquila per Zeus e la civetta per Atena, o figure di accompagnamento, come Eros per Afrodite.
Radicate in un sapere condiviso, le convenzioni iconografiche non sono gratuite e gli attributi rinviano in genere a competenze o aspetti delle divinità: nel rappresentare Zeus come un dio tonante munito di scettro e/o armato di fulmine, gli artisti greci hanno ben inteso tradurre in immagine il principio di sovranità. Ma non per questo si stabilisce tra la divinità chiamata Zeus e la sua immagine un rapporto analogo a quello tra soggetto e corpo. Infatti il linguaggio iconografico non rinuncia a riconfigurare, secondo il contesto, le rappresentazioni degli dèi, ma ne riarticola segni e attributi.
Quanto alla statua di culto, non bisogna dimenticare che questa non è un ritratto, ma innanzitutto un agalma, cioè un’offerta gradita, di cui la divinità si compiace, in quanto rispecchia in modo adeguato la sua time, vale a dire gli onori che le sono dovuti. Inserita in un contesto cultuale, l’immagine del dio può accogliere la sua manifestazione, ma non la racchiude.
La comunicazione che il rito, tra preghiere e oblazioni, instaura tra il piano umano e quello divino non passa necessariamente attraverso la rappresentazione figurata della divinità: l’altare che riceve le offerte e su cui brucia la parte del dio è il vero cuore del dispositivo, che parole e gesti adeguati sono destinati ad attivare.
Al tempo stesso omaggio alla divinità e segno tangibile della sua presenza in seno alla comunità, l’immagine di culto contribuisce comunque a propiziarne la manifestazione.
Nelle rappresentazioni figurate degli dèi come in quelle narrative, nelle raffigurazioni antropomorfe, e non, come nei diversi attributi che ne evocano le competenze, l’uomo greco costruisce la presenza divina e rende visibile l’invisibile, senza per questo identificare gli dèi con le loro forme particolari. Come precisa, dando la parola a Fidia, Dione Crisostomo: “Nell’assenza completa del modello, noi cerchiamo di mostrare ciò che è incomparabile e invisibile (to aneikaston kai aphanes) attraverso il comparabile e il visibile (to phanero te kai eikasto), servendoci a tal fine della potenza del simbolo” (Olimpico [Or. XII], 59).