Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nelle musiche cinematografiche realizzate in Francia e in Germania si può riscontrare un percorso sostanzialmente comune, con una fusione tra modi colti e modi popolari. Negli Stati Uniti, la concezione hollywoodiana è segnata da caratterizzazioni musicali fortemente proliferate, persuasive, magniloquenti, con il caso atipico di Bernard Herrmann. Nell’URSS e in Gran Bretagna, la mancata distinzione fra musica per concerto e musica per film comporta caratteri d’insolita continuità stilistica. In Italia, lo specialismo tarda ad affermarsi, per poi vedere l’avvento delle autorevoli figure di Nino Rota ed Ennio Morricone.
Francia e Germania
Le realizzazioni più emblematiche del rapporto musica-cinema nel periodo 1900-1925 risultano associate alle avanguardie artistiche – surrealismo e dadaismo – e sono rappresentate da Entr’acte di René Clair su scenario di Francis Picabia con musica di Erik Satie (come intermezzo cinematografico del balletto Rêlache) e dal Ballet mécanique di Fernand Léger con musica di George Antheil (un tentativo di trasferire l’esperienza cubista nel cinema), entrambi del 1924.
Con l’affermazione del cinema come spettacolo popolare e con il conseguente consolidamento dell’industria cinematografica si assiste dal 1925 al 1935 a una diversificazione di tendenze: da una parte si sviluppa un filone spettacolare, orientato verso le grandi platee ma progressivamente alla ricerca di un linguaggio filmico-musicale specifico, finalmente emancipato dai modi del teatro filmato; dall’altra sopravvive un filone sperimentale scaturito dai movimenti delle avanguardie artistiche. Una sorta di singolare fusione tra i due indirizzi avviene con i cinéastes Abel Gance, Louis Delluc, Germaine Dulac, Marcel l’Herbier, Jean Epstein, Jean Renoir e con l’impegnata collaborazione di Arthur Honegger (La Roue e Napoléon di Gance, 1923 e 1926), Darius Milhaud (L’inhumaine di l’Herbier, 1923, sebbene come compilatore; Madame Bovary di Renoir, 1933; La citadelle du silence di Gance, 1937, in collaborazione con Honegger) e George Auric (ironico e disincantato in Le sang d’un poète, Jean Cocteau, 1930; À nous la liberté, René Clair, 1933), mentre un’equilibrata anticipazione “neoclassica” si trova nei raffinati contributi di Jacques Ibert per Un chapeau de paille d’Italie (René Clair, 1927) e per Don Quichotte di Wilhelm Pabst (1933).
La nascita dello specialismo e il periodo di più felice fusione tra stilemi colti e popolari portano il nome di Maurice Jaubert (1900-1940). Il cinema di poesia di Jean Vigo – Zero de conduit, 1932; L’Atalante, 1934 – trova in Jaubert l’interprete ideale, così come nelle memorabili collaborazioni con Marcel Carné (Drôle de drame, 1937; Le quai des brumes, 1938; Le jour se lève, 1939), in cui il compositore fa ricorso a un linguaggio scarno, essenziale, a tratti intimista, riscoperto nell’ultimo trentennio e recuperato come “musica preesistente” da François Truffaut. La lezione di Jaubert è ravvisabile nella produzione di Roger Desormières (La règle du jeu, Renoir 1939), Joseph Kosma (La grande illusion di Jean Renoir, 1937; Les portes de la nuit di Carné, 1946) e George Van Parys (Sous les toit de Paris di Clair del 1931).
La perdita dei connotati tipicamente francesi, colti e popolari, appartiene alla generazione attiva dal dopoguerra a oggi e va dall’eccellente artigianato di Georges Delerue, forse il maggiore erede di Jaubert (Jules et Jim di Truffaut, 1962), alla omologazione cosmopolita di Philip Sarde, Michel Legrand (da ricordare almeno per il notevole e originale tentativo di film musicale con Les parapluies de Cherbourg di Jacques Demy, 1964), fino alla completa acquisizione dei modi hollywoodiani da parte di Francis Lai (Love Story, 1970) e soprattutto di Maurice Jarre con Lawrence of Arabia e Doctor Zivago di David Lean (1962 e 1966).
Nell’ottica delle relazioni fra evoluzione dello spettacolo borghese e sperimentazione d’élite un processo analogo a quello francese riguarda la Germania. Giuseppe Becce (Der letzte Mann e Tartuff di Friedrich W. Murnau, 1924 e 1926), Gottfried Huppertz (Die Nibelungen e Metropolis di Fritz Lang, 1923 e 1927), Wolfgang Zeller (Vampyr di Carl Th. Dreyer, 1931), Paul Hindemith (Im Kampf mit den Berg, Arnold Fanck, 1921; Vormittagsspuck, Hans Richter, 1928) ed Edmund Meisel (Der heilige Berg di Fanck, 1925; Berlin, Symphonie einer Großstadt di Walter Ruttmann, 1927) applicano dapprima un metodo di elaborazione di materiali musicali preesistenti per passare infine – attraverso gli influssi della Gebrauchsmusik e del cabaret – alla composizione interamente originale.
Stati Uniti
Dopo Carl Breil, Louis F. Gottschalk, Erno Rapée, Ugo Riesenfeld, John S. Zamecnik – ovvero i maggiori specialisti del muto in America – la seconda generazione della scuola hollywoodiana ha la sua figura più significativa nel viennese Max Steiner (1888-1971), responsabile musicale della casa di produzione cinematografica RKO (Radio-Keith-Orpheum) e sostenitore della necessità di fornire a ogni film una score espressamente composta. Le sue musiche per King Kong (Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedsack, 1933), The Lost Patrol e soprattutto The Informer (John Ford, 1934 e 1935), fino a Via col vento (Gone with the Wind, Victor Fleming, 1939) e Casablanca (Michael Curtiz, 1942) racchiudono l’intera concezione hollywoodiana, segnata da caratterizzazioni musicali fortemente profilate, persuasive, magniloquenti. La drammaturgia filmico-musicale è intesa come un’ubiquità sonora che anticipa, interpreta, ribadisce la narrazione con una partecipazione così attenta e puntigliosa, spesso ridondante, da ricordare l’onnipresenza musicale nel cinema muto.
Poiché la rigida impostazione hollywoodiana esclude qualsiasi deviazione dai cliché ben collaudati e dalla prassi produttiva, Bernard Herrmann (1911-1975) è tuttora lo specialista americano più atipico, in quanto rifiuta il contributo degli orchestratori, mentre dilata i tempi di preparazione della score. Citizen Kane (Orson Welles, 1941), The Man Who Knew Too Much (1956), Vertigo (1958), North by Northwest (1959), Psycho (1960), Marnie (1964), tutti di Alfred Hitchcock, sono fra le tappe più rilevanti di un processo di attualizzazione del linguaggio musicale – nelle inusitate soluzioni timbriche, nella concisione tematica, nelle caratterizzazioni ritmiche e nei relativi ostinati – considerato ancora oggi un modello insuperato, in sé e per la stretta interazione fra componenti visive e sonore. Per altro verso, l’emancipazione dai modelli del sinfonismo di matrice mitteleuropea si deve soprattutto al jazz introdotto, fra gli altri, da Elmer Bernstein (The man with the golden arm, Otto Preminger, 1955) e dai compositori legati soprattutto a Broadway: Irwin Berlin, George Gershwin, Jerome Kern, Cole Porter, Richard Rogers.
Unione Sovietica e Gran Bretagna
Le principali tappe cine-musicali nell’Unione Sovietica sono tutte all’insegna di un’ideale e solenne unione fra le arti, a partire da La corazzata Potëmkin di Sergej M. Ejzenstein (1925) con musiche di Nicolai Krjukov ingiustamente oscurate da quelle composte da Meisel per la distribuzione in Germania nel 1926, mentre nel 1929 Dmitrij Sostakovic debutta nel cinema in modo memorabile con La nuova Babilonia di Grigorij Kozincev e Leonid Trauberg. La modernità delle soluzioni adottate – rinuncia alla centralità del melodismo, contrappunto audio-visivo, trasfigurazione delle citazioni musicali, netta diversificazione tra musica di livello interno ed esterno – contribuisce forse all’insuccesso del film, ancora muto, ma la colloca tra i casi di indissolubilità delle componenti visive e sonore. Una delle realizzazioni più emblematiche dell’intera epoca del sonoro è Aleksandr Nevskij di Ejzenstein e Sergej Prokof’ev (1938): libero da qualsiasi limitazione produttiva nell’intento propagandistico antinazista e votato a divulgare una complessa sinestesia, il Nevskij fa ricorso a tutte le procedure consuete e ne inaugura di nuove, giacché la musica nasce prima, durante e dopo le tappe fondamentali della lavorazione; essa mantiene così una singolare autonomia di linguaggio portata poi a modello, mentre in realtà, avendo dovuto soggiacere in modo molto parziale alla prassi produttiva, paradossalmente non è musica per film come s’intende di norma.
Grazie a una consolidata tradizione che ha posto l’incidental music tra i generi più apprezzati a partire da Henry Purcell, una coerenza analoga a quella sovietica è ravvisabile nel cinema britannico, dove operano, senza fratture stilistiche fra un comporre “assoluto” e un comporre “applicato”, Arthur Bliss, Benjamin Britten, Ralph Vaughan Williams, Arthur Benjamin, William Walton (suo è il ciclo shakespeareano diretto e interpretato da Laurence Olivier negli anni Quaranta), fino a Michael Nyman nel sodalizio con Peter Greenaway (The Draughtsman’s Contract, 1982).
Italia
In Italia, a eccezione dello straordinario contributo di Pietro Mascagni per Rapsodia satanica (Nino Oxilia, 1915), il deludente coinvolgimento di compositori d’area colta, inaugurato con Cabiria (regia di Giovanni Pastrone, musica di Ildebrando Pizzetti, 1914) e prolungatosi negativamente nel cinema fascista (Acciaio di Walter Ruttmann, musiche di Gian Francesco Malipiero, 1933), non solo ritarda l’affermazione degli specialisti ma comporta per ben oltre un decennio la proliferazione di musicisti spesso mediocri, provenienti in prevalenza dall’area della musica leggera. I giovani Cesare Zavattini, Roberto Rossellini e Vittorio De Sica si formano al suono di un cinema che nulla pretende dalla musica e ciò può spiegare l’inadeguatezza dei contributi musicali nei film più rappresentativi del neorealismo. Quando nell’immediato dopoguerra la Lux Film decide di rivolgersi a compositori blasonati, buona parte dei risultati mostra l’assenza di una coerente drammaturgia filmico-musicale, essendo l’estetica del cinema del tutto estranea alla formazione e agli interessi di compositori come Antonio Veretti, Valentino Bucchi, Mario Zafred e Goffredo Petrassi. In seguito il cinema d’autore degli anni Cinquanta-Sessanta di Luchino Visconti, Federico Fellini, Michelangelo Antonioni e quello immediatamente successivo di Elio Petri, Pietro Germi, Gillo Pontecorvo, Sergio Leone e Pier Paolo Pasolini risulta affidato a una ristretta schiera di prolifici artigiani come Giovanni Fusco e Carlo Rustichelli, sui quali prevalgono Nino Rota (1911-1979) ed Ennio Morricone. Soprattutto al secondo va il merito di avere determinato originali e specifiche modalità d’approccio ai bisogni del cinema, con un linguaggio musicale dotato di peculiarità timbriche, ritmiche e melodiche intese a recuperare e valorizzare la tradizione anche più arcaica, ma al tempo stesso adeguato a quel generalizzato grado di sincretismi già presente in Francia e in America. Dagli anni Settanta in poi Nicola Piovani e Franco Piersanti interpretano le nuove tendenze del cinema italiano – si pensi a Gianni Amelio e a Nanni Moretti – con una drastica autoriduzione dei mezzi espressivi.