Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel Settecento il crescere degli scambi commerciali segnala un cambiamento più sostanziale di aree che si incontrano e si scontrano per “divorare e digerire il mondo” prima che lo facciano gli altri: inizialmente, il sistema di vasi comunicanti dell’economia mondiale disloca i propri baricentri per poter mantenere il complessivo equilibrio di produzione e consumo. Ma la dirompente azione delle Compagnie commerciali produce una rottura di equilibri e confini secolari: non si scambiano, non si trasferiscono più prodotti rari, non ottenibili in altro modo o altrove, ma, piuttosto, merci competitive o – nel disarticolarsi dei regimi alimentari e dei costumi – piccoli lussi, in un’Europa desiderosa di panacee, di novità, di segni distintivi e di accrescimento sociale e sempre più bisognosa di trovare materie prime e sbocchi ai propri manufatti. Il vero cambiamento è nei piccoli mercati, nei commerci interni agli Stati e alle regioni, nel declinare delle fiere progressivamente sostituite dall’accumularsi delle merci nei magazzini: ma è il commercio a lunga distanza quello più visibile e rumoroso perché provoca nell’immediato guerre commerciali e conflitti monopolistici e ingenera l’egemonia inglese, costruita e ottenuta con qualsiasi mezzo e sfruttando ogni opportunità possibile: dalla liberalizzazione dei commerci alle acquisizioni territoriali, dallo sviluppo tecnico e scientifico alle fonti di energia e lavoro meccaniche, animali e umane.
“Divorare e digerire il mondo”
Nel 1776 Adam Smith pubblica la sua Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni suggerendo, nel naturale perseguimento degli interessi proprio della natura umana, una relazione tra l’aumento degli scambi e lo sviluppo: in un’incipiente economia di scala, infatti, l’intensificarsi del commercio induce un uso e un’allocazione efficienti delle risorse e una specializzazione produttiva, nonché una funzionaledivisione del lavoro, che innescano un circolo virtuoso di maggiore produttività e minori costi, dunque maggior ricchezza per tutti, in un percorso suscettibile di protrarsi all’infinito. Per superare i vincoli e sfruttare i vantaggi comparati è necessario, perciò, slargare i confini di merci e uomini, e aumentare gli scambi: ne deriveranno più profitti specialmente se, anche dal punto di vista istituzionale, merci e uomini saranno liberati da ogni vincolo. Sulla soglia del secolo, l’economista inglese – nel constatare il crescente volume dei commerci e il massiccio trasferimento forzato di uomini – si ingegna a trovarne il bandolo suggerendo, nel riprendere la lezione fisiocratica, la direzione: ché i tanti uomini fanno ormai interagire le tante economie, mentre le merci – in un mondo diventato davvero più grande – li cambiano e arricchiscono.
Sin dagli ultimi decenni del XVII secolo, infatti, l’aumento demografico in molte aree europee – sia pur coniugato a un matrimonio ancora tardivo –, l’innalzarsi della produttività anche grazie alle nuove tecniche di coltivazione, un generale miglioramento delle condizioni di vita, le innovazioni tecnologiche e il capillarizzarsi progressivo della possibilità di muoversi hanno prodotto una spinta espansiva determinando una progressiva interazione tra le diverse economie, e aree e Stati, che pure confliggono comunque tra loro a fini egemonici. Alle soglie di un cambiamento di modello, il circuito si fa virtuoso non tanto per un adattamento o una riconversione ai fini dello sviluppo di un’economia di sussistenza costretta a crescere dalla numerosità delle bocche da sfamare: piuttosto, nell’essere globale del commercio, il segno di un cambiamento più sostanziale di aree che si incontrano e si scontrano per “divorare e digerire il mondo” prima che lo facciano gli altri.
“Dall’Europa delle fiere a quella dei magazzini”
Prima sono le mercanzie, spazio di risonanza dell’economia, a forzare i limiti imposti dal regime di autosussistenza: la “rivoluzione dei trasporti” fa crollare molti prezzi e sovente, nel declinare del Mediterraneo, i prodotti coltivati sulle sue sponde non sono più in grado di mantenere costi e vantaggi competitivi, e bisogna volgersi altrove o decidere di sfamarsi con altri cereali o con le patate o, ancora, risolversi a vivere in città. E cambia il valore: dal Settecento in poi, e nel trasformarsi dei consumi, è sempre meno funzione dell’offerta discontinua e faticosa, del pregio o del lusso di pochi.
Anche se il commercio a lunga distanza è quello più visibile e rumoroso perché provoca nell’immediato guerre commerciali e conflitti monopolistici, il vero cambiamento avviene nei piccoli mercati, nei commerci interni agli Stati e alle regioni, nel declinare delle fiere progressivamente sostituite dall’accumularsi delle merci nei magazzini: il tasso di incremento annuo del commercio intercontinentale è, infatti, tutto sommato modesto (1,26 rispetto al 3,85 nel secolo successivo) paragonato a quello al minuto, che conosce una vera impennata e un ampliarsi sia delle categorie merceologiche che della quantità. Grazie alla possibilità di immagazzinare maggiormente, infatti, si produce una radicale trasformazione del modo di organizzare la vendita, ora meno soggetta agli incontri periodici in località predeterminate e sempre più disseminata e disponibile nei depositi in ogni periodo dell’anno: secondoBraudel, la prosperità del regno di LuigiXIV deriva dai magazzini di Marsiglia, Nantes e Bordeaux, ma anche da città di medie dimensioni come Nancy, in cui si concentrano i prodotti del commercio delle isole quali lo zucchero o il caffè. Certo, anche nel passato era usuale immagazzinare perché un’economia scarsamente mobile e poco urbanizzata necessita di scorte di sicurezza che garantiscano il commercio girovago: quel che diventa maggiore, nel Settecento, è però l’incentivo a immagazzinare le merci, la possibilità di approvvigionare sovente depositi peraltro più funzionali alle esigenze dei mercanti che a quelle del mercato. In uno spazio sempre più urbanizzato e propenso al consumo, infatti, c’è bisogno di aver la merce disponibile incessantemente, anche per non perdere gli spazi faticosamente conquistati, nel piccolo come nel grande commercio.
E, nel cambiare dei tempi dello scambio e dei suoi strumenti, del regime alimentare e degli stili di vita, nell’ampliarsi dei consumi alcune piante assurgono a simbolo del confermarsi globale del mondo: in un regime alle soglie dell’autosussistenza, la possibilità di ampliare smisuratamente la produttività o l’introduzione del “superfluo” e del “lusso” sono indicatori di una disarticolazione degli stili di vita e dei consumi, insieme conseguenza e causa della progressiva erosione di modelli di comportamento economico e sociale che fasce sempre più ampie della popolazione europea adottano, nel cangiare di sé e del mondo, producendo nuove, funzionali interdipendenze. Come il “miracoloso” mais, per esempio, che – dall’originario Messico – entra prepotentemente in Europa e si diffonde rapidamente sin dal Cinquecento per la facilità della sua coltivazione, la capacità di adattamento ai diversi ecosistemi, l’altissima resa e la resistenza alle malattie, e che nel Settecento non solo sfama ormai ampie regioni d’Europa ma, nel cadere dei confini, viene introdotto dai Portoghesi in Asia, contribuendo alla rivoluzione agricola cinese.
Se nel lungo periodo caratteristica mediterranea è stata la continua variazione di intensità dei flussi commerciali in funzione dei mercati interni e dell’Europa del nord, fino a creare un sostanziale equilibrio interno di autosufficienza di produzione e consumo, non altrettanto può dirsi – infatti – nella relazione con i mercati asiatici che nel corso del Seicento e del Settecento si modifica radicalmente: diminuisce, infatti, il valore della tradizionale importazione di spezie e aumenta quello di altri prodotti, come i tessili. La dirompente azione delle Compagnie commerciali ha interagito con un cambiamento profondo, una rottura di equilibri e confini secolari: il commercio nel Settecento non è più di prodotti rari, non ottenibili in altro modo o altrove, ma è dato piuttosto dalla loro competitività e dal loro uso. Così, ad esempio, se nel 1621 le spezie ed i tessuti asiatici rappresentano rispettivamente il 74 percento ed il 16,1 percento delle merci importate dalla Compagnia delle IndieOrientali, a fine secolo il rapporto si è invertito: 22,9 percento le spezie, 54,7 percento i tessuti, nell’incedere complessivo causato dall’ampliarsi delle possibilità di comprare e dal trasformarsi del consumo esotico e di lusso in bene alla portata di molti.
Anche se negli ultimi anni le stime sull’espansione sono state radicalmente riconsiderate, è indubitabile che alcuni prodotti – il cotone e la seta, in primo luogo, e i cosiddetti “coloniali” (caffè, zucchero, tè, cacao, spezie) – si siano inseriti e abbiano innescato meccanismi di produzione e consumo che, in cerchi vieppiù concentrici e interagenti, hanno avviluppato il mondo in una serie di inedite complementarietà e dipendenze, generando su scala sempre più ampia bisogni e inducendo talora modelli produttivi e di organizzazione del lavoro, talaltra improrogabili necessità verso “beni voluttuari di uso quotidiano” ovvero verso un uso quotidiano di beni un tempo voluttuari o rari e costosi. È il caso, per esempio, delle merci che diventano “oggettivazione” imprescindibile e simboli del lusso o, al contrario, della mussola e del calicò che invadono il mercato britannico raddoppiando in pochi anni la loro importazione, inducendo a leggi protezionistiche sollecitate dai timorosi produttori di pannilana il cui effetto, nel medio periodo, è addirittura la crescita esponenziale dei tessuti di bassa qualità anche inInghilterra.
E se i tessili si presentano come i vettori dell’incipiente industrializzazione, sono i coloniali a indicare i cambiamenti dei gusti, dei regimi alimentari ma soprattutto le complementarietà e i pari livelli di produzione e consumo che – nel policentrico sistema di vasi comunicanti dell’economia mondiale – dislocano i propri baricentri per poter mantenere il complessivo equilibrio e le rispettive aree di azione e di influenza: il pepe (ma anche la noce moscata) per esempio, essenziale oggetto di commercio con il Levante per secoli e arrivato in gran quantità in Occidente dopo il periplo di Vasco de Gama, progressivamente perde di interesse e di prezzo tanto che, secondo un testimone inglese del 1754,“capita di bruciare talvolta o di gettare in mare grandi quantità di pepe […] per sostenerne il prezzo”; intanto, nuovi lussi si avvicendano: le bevande corroboranti e dionisiache (tè, caffè, cioccolato) conoscono un’impennata dei commerci che scuote il secolo, lo appaga e ne rivoluziona abitudini e stili di vita, diventando punti di intersezione tra Europa e il resto del mondo di cui denotano, in simultanea, relazioni e dipendenze: il caffè, da quell’Impero ottomano che si va facendo marittimo e insidia ormai anche l’immaginario; il tè, che dalla Cina arriva in Inghilterra mediante gli Olandesi; il cioccolato che sfama e guarisce, della NuovaSpagna. In un’Europa desiderosa di panacee, e di novità, di segni distintivi e di accrescimento sociale, questi piccoli “lussi” si diffondono inizialmente con discrezione e a macchia di leopardo: il cioccolato, bevuto di nascosto dalla moglie di Luigi XIV, Maria Teresa, perché considerato troppo spagnolo, dopo essere stato introdotto come rimedio per “moderare i vapori della milza” da Richelieu, nel XVIII secolo trionfa anche se in misura minore del caffè, che segue la smania di orientalismo del secolo, diffondendosi prima a Parigi preparato da mercanti ambulanti e poi, diventato moda ma soprattutto produzione (dal 1712 viene piantato a Giava e poi in Martinica, in Giamaica e aSanto Domingo) e catalizzatore della vita sociale e politica, nel resto del continente: è stato calcolato che tra il 1600 e il 1750 l’importazione di caffè in Europa passi da 0 a 29 milioni di chilogrammi, con un’impennata dopo il 1690. Il tè, bevuto sin dal VII secolo e arrivato in Europa agli inizi del Seicento, conosce una crescita dei consumi nel 1720, con l’apertura del porto di Canton a tutti i mercanti europei che permette un sostanziale abbassamento dei prezzi; in poco tempo, le esportazioni inglesi superano quelle olandesi e insieme concorrono a rendere sempre più deficitaria la bilancia commerciale del Vecchio Continente, giacché in Cina è accettato solo il pagamento in argento: ostacolo brillantemente superato dagli Inglesi – i maggiori consumatori, insieme all’Olanda e in parte alla Russia – con il contrabbando dell’oppio o l’intermediazione nella vendita delle pellicce. Alla fine del secolo l’Occidente commercia, e consuma e fa stile di vita, settemila tonnellate di tè: bevanda che unifica, peraltro, il mondo restando “pianta di alta civiltà, allo stesso modo della vigna sulle sponde del Mediterraneo” in tutto l’Oriente e l’estremo Oriente, e arrivando nel corso del XVIII secolo in tutti i Paesi che non conoscono o non utilizzano la vigna e i suoi prodotti: il mondo islamico e, appunto, la Russia e l’Europa del nord.
Ma è lo zucchero che “conquista” e racconta un mondo che concatena sempre più i suoi commerci: da quando la coltivazione della canna da zucchero si afferma in Brasile nel XVI secolo, e poi – a causa degli Olandesi cacciati da Recife e delle persecuzioni dei marranos portoghesi – a Madera, nelle Azzorre e nelle Canarie, in Martinica, Guadalupa e Santo Domingo, le importazioni subiscono una progressiva impennata e i “nordici”, che controllavano la produzione sia in America che in Asia, sono costretti a ridurre le importazioni. Nella sola Inghilterra, per il consumo interno, da 5,81 libbre all’inizio del secolo a 24,16 alla fine del Settecento mentre nella Francia alla vigilia della rivoluzione è di un chilogrammo a persona. E, giacché non si usa più come medicinale e riscuote ovunque gradimento, miete successi e si espande lontano: le sole esportazioni da Taiwan a metà Settecento superano le 50 tonnellate, con un consumo pro capite di due chilogrammi, ossia il doppio di quello europeo dove sovente l’uso viene incentivato per aumentar le entrate con le tasse di importazione.
Tuttavia lo zucchero, come anche il cotone e il caffè o il tè, richiede non solo possibilità di compensare gli esiti della bilancia dei pagamenti ma, soprattutto, manodopera, complesse e costose apparecchiature per ricavarlo e un regime sostanzialmente monocolturale: “così – spiega l’abate Raynal – per nutrire una colonia in America bisogna coltivare una provincia in Europa”. E viceversa. La “rivoluzione dello zucchero” ha un prezzo di entità mondiale.
La “rivoluzione dello zucchero e le “divergenze”.
Lo zucchero richiede una dedizione assoluta: non concede la policoltura, ancor meno di sussistenza; ha bisogno di grandi spazi e tanta manodopera e il prodotto pro capite deve essere di alto valore: esige, se un’area lo richiede, l’intreccio di possibilità e opportunità combinate implementando le relazioni. E, giacché l’Europa non possiede né manodopera, né clima e spazi sufficienti ma ne apprezza l’uso considerandolo di alto valore, si ingenera un sistema di scambi multilaterali tra i mercati coesistenti che tendono così a integrarsi vieppiù, polarizzando ruoli e interessi. Nel triangolo che ne consegue, e che conduce la manodopera africana a ripopolare le Americhe grazie all’asiento de negros e ai traffici delle grandi Compagnie, l’Europa compensa così il congenito difetto di uno spazio sempre più affollato di uomini dilatandosi: nel XVIII secolo vengono venduti e condotti come schiavi nelle Americhe oltre sei milioni di persone, sfruttando il vantaggio competitivo di un territorio coloniale bisognoso di uomini e di beni ma ricco di terra fertile.
Ed è in questo triangolo, che rende l’uomo merce e grazie al quale gli Stati del continente europeo – nei loro confini non contigui territorialmente e nel loro essere mercati coesistenti – determinano e divorano il mondo, che avviene la rottura di un sostanziale, secolare equilibrio: senza l’apporto delle colonie americane, insieme fonte di materie prime e progressivamente sempre più mercato di sbocco dei manufatti della madrepatria, e senza l’apporto di chi – costretto – ne coltiva gli immensi territori, non sarebbe stato possibile infatti constatare alcuna sostanziale discrepanza nell’interrelato, secolare sistema di vasi comunicanti del commercio globale.
Ma la densità europea e la domanda americana, correlate nell’essere un unico sistema di produzione e consumo, nel mutare di ritmo e dimensione generano divergenze su scala planetaria che nel lungo periodo producono differenze di sviluppo ed emarginazioni: e se già dal XVII secolo – come aveva rilevato Thomas Mun – le economie dell’area mediterranea, da fornitrici di prodotti asiatici per l’Europa sono diventate produttrici di materie prime, come la seta o l’olio, per la parte settentrionale del continente e le sue manifatture, analogamente nel Settecento gli scollamenti avvengono su scala più ampia, producendo fratture e multipolarità laddove la crescita degli uni si accompagna all’eclissarsi di altri. Non si tratta soltanto del progressivo accumularsi di un profitto sempre maggiore ma, soprattutto, della costruzione e conferma di un’egemonia, quella europea e in particolare inglese, ottenuta con qualsiasi mezzo e sfruttando ogni opportunità possibile: dalla liberalizzazione dei commerci alle acquisizioni territoriali, dallo sviluppo tecnico e scientifico alle fonti di energia e lavoro meccaniche, animali ed umane.
La lenta risacca spagnola – che già da fine Seicento non importa quasi nulla nelle colonie –e il declino olandese accompagnano e ritmano, così, la cronologia del predominio commerciale inglese e delle sue Compagnie: nel continente e nel Mediterraneo, dal trattato di Methuen (1703) che restringe le ambizioni portoghesi, all’acquisizione della rocca di Gibilterra (1713) fino a quella di Malta (1799), come nel crescere delle esportazioni e nel monopolio dei servizi marittimi ottenuti anche grazie agli Atti di Navigazione. Dopo la guerra dei Sette anni e con l’imprescindibile necessità del farsi globale dell’egemonia, per trovare sempre più materie prime e sempre più acquirenti per i manufatti, il sistema di scambi multilaterali tocca tutti i continenti e va dal Brasile in violazione dei patti sottoscritti, all’America Centrale e del nord fino al controllo del Canada, all’India, alla Sicilia passando da Londra e scambiando merci con altre merci: cotone e alcool, avorio, oro, zucchero, tè, caffè, legname, vino, frutta e olio, uomini.
Ma – nel declinare dei protagonisti della Conquista e delle città mercantili – le altre potenze europee non si rivelano evanescenti: soprattutto la Francia che, pur subendo la perdita del Canada, mantiene il monopolio del commercio delle colonie delle Antille e diventa il principale protagonista degli scambi con la Sublime Porta insieme all’Impero, che a sua volta nel 1719 costituisce la sua Compagnia Orientale e rende porto franco Trieste eFiume, mentre le relazioni di questi con i russi sfociano nel conflitto del 1768.
Nel crescere in quantità, e nel cambiare di qualità, nel trovare nuovi protagonisti e nell’instaurare nuovi modelli, tra il 1689 e il 1815 la tensione commerciale produce ben sette guerre. Ma, soprattutto, cambia il destino dell’Occidente.