Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Unico fra i trattati antichi di architettura a essersi tramandato, il De architectura di Vitruvio gode per tutto il Cinquecento di una fortuna critica senza pari. Tradotto, commentato e illustrato, diventa lo strumento fondamentale nella ricerca delle regole classiche insieme allo studio diretto delle vestigia. Nel corso del secolo cambia il modo di rapportarsi al testo: capace di stimolare le feconde riflessioni dei maestri del Rinascimento maturo, esso diventa in seguito un prontuario di norme da applicare rigidamente.
Premessa
La pretesa riscoperta del De architectura libri decem di Marco Vitruvio Pollione da parte dell’umanista Poggio Bracciolini nel 1416 segna l’inizio della fortuna critica del trattatista romano in epoca moderna.In realtà mai dimenticato dalla cultura occidentale, il testo diviene entro breve tempo il punto di riferimento imprescindibile per la teoria e la pratica architettonica del XV e XVI secolo.
Gli studi vitruviani prendono le mosse dall’editio princeps curata da Giovanni Sulpicio da Veroli, pubblicata a Roma intorno al 1490. Ma è da subito evidente che all’interesse filologico più genuinamente umanistico i commentari cinquecenteschi affiancano e spesso antepongono nuove esigenze. Le traduzioni, i commenti e gli apparati illustrativi realizzati nel corso del secolo sono il frutto di uno spirito applicativo che, pur differenziandosi da caso a caso, cerca risposte ai numerosi problemi posti dalla prassi progettuale.
Di qualità modesta, l’opera di Vitruvio è comunque l’unico trattato classico di architettura tramandato fino agli uomini nuovi del Rinascimento.
Traendo spunto dalle indicazioni contenute nei suoi dieci libri, vengono individuati temi e argomenti che costituiscono l’ossatura portante delle teorie architettoniche dell’umanesimo.
Se le categorie vitruviane, prime fra tutte quelle di utilitas, firmitas e venustas, indicano gli obiettivi da perseguire, le teorie proporzionali dedotte dalla lettura del trattato e approfondite sui testi antichi suggeriscono il metodo di ricerca.
Dalla lettura di Vitruvio si spera di ricavare indicazioni molto concrete da applicare nella progettazione delle nuove tipologie religiose e civili, come ad esempio la villa e il teatro. Ma il vero protagonista del dibattito architettonico cinquecentesco è il problema della codificazione degli ordini, nel quale si trovano riunite le preoccupazioni di tipo teorico e pratico. In virtù della sua origine antropomorfica, l’ordine (dorico, ionico o corinzio, volendo attenersi alle indicazioni vitruviane) è molto più che un semplice espediente decorativo: organizzando e qualificando lo spazio in base alle leggi proporzionali degli ordini, infatti, gli uomini del Rinascimento sono convinti di ricreare l’armonica perfezione del cosmo.
Attraverso l’evoluzione del problema degli ordini è possibile valutare come l’opera del trattatista latino si trasformi nell’arco del Cinquecento: da ideale termine di riferimento essa diviene, intorno alla metà del secolo, un prontuario di precetti a cui gli operatori del settore, siano essi architetti, capomastri, scalpellini, possono attingere.
La prima edizione vitruviana del XVI secolo viene pubblicata a Venezia nel 1511 ed è opera di fra’ Giocondo da Verona. Lontano dal rigore filologico di cui si è mostrato capace in altre occasioni, l’autore lavora sul testo latino con l’evidente intento di offrire ai suoi contemporanei uno strumento valido per la progettazione. Oltre a sostituire i vocaboli meno comprensibili con altri di più immediato significato, egli elabora un consistente e avanguardistico apparato illustrativo. Le 136 xilografie, che almeno in buona parte sono frutto di un attento studio delle rovine antiche, costituiscono dunque il primo tentativo di interpretare graficamente le descrizioni vitruviane. L’iniziativa del frate veronese gode di un significativo successo editoriale: alla prima edizione fanno seguito quella del 1513 e quelle, oramai postume e di minore importanza, del 1522 e del 1523.
Anche se priva di un vero commento, l’opera di fra’ Giocondo mette a disposizione degli architetti un’interpretazione del testo latino che, nel bene come nel male, resta insuperata per almeno quattro decenni, cioè fino all’edizione del Barbaro. Sulla scia dell’opera di fra’ Giocondo, gli studi vitruviani fioriscono numerosi, animati dalla speranza di chiarire i passi più confusi e di rendere il testo accessibile anche ai meno colti. In preparazione fin dal 1514, la traduzione di Cesare Cesariano del De architectura è la prima a essere pubblicata (Milano, 1521). Per molti versi debitore nei confronti della prima edizione di fra’ Giocondo, il Vitruvio di Cesariano abbandona però qualsiasi ambizione filologica. Il commento e la scelta delle immagini che accompagnano il testo rivelano una cultura completamente avulsa dalla realtà romana di quegli anni, non solo per quanto riguarda gli episodi architettonici più aggiornati, ma anche per quello che concerne lo studio degli antichi monumenti.
L’attenzione di Cesariano è riservata esclusivamente al mondo settentrionale, e in particolare alle esperienze maturate sulla base del fecondo soggiorno milanese di Leonardo e Bramante. Volendo legittimarne gli esiti, Cesariano pone in diretta relazione il nuovo corso architettonico con gli insegnamenti dell’antico maestro.
Ma è nella Roma pontificia dei primi decenni del secolo che si crea la congiuntura più favorevole per il procedere degli studi.Impegnati nell’elaborazione di un linguaggio consono alle ambizioni universalistiche del Rinascimento maturo, gli architetti attivi per Giulio II, prima, e per Leone X, poi, mostrano un interesse particolare per il trattato romano.
La traduzione del De architectura promossa da Raffaello intorno al 1514 costituisce l’esempio migliore dello spirito applicativo con cui gli architetti del primo Cinquecento guardano a Vitruvio. Forse spronato da fra’ Giocondo, Raffaello cerca infatti nell’antico trattato un aiuto per i gravosi incarichi affidatigli dal papa Leone X, primo fra tutti la direzione della costruzione della basilica di san Pietro. Incapace di leggere le lingue antiche, egli si avvale della collaborazione di un gruppo di qualificati esperti; oltre al grecista e latinista Fabio Calvo, cui spetta la paternità della traduzione, anche Andrea Fulvio e lo stesso fra’ Giocondo sono coinvolti in qualità di consulenti. Al pari di quella del Cesariano, la traduzione del De architectura di Calvo si basa infatti sull’edizione vitruviana del frate veronese, senza introdurre sostanziali modifiche.La novità più importante di questo commentario vitruviano viene introdotta nell’apparato iconografico che, in vista di una probabile pubblicazione, lo stesso Raffaello avrebbe dovuto curare. Non bisogna dimenticare infatti che proprio in questi anni egli perfeziona le tecniche di rilievo e rappresentazione architettonica come strumenti fondamentali per l’evoluzione delle ricerche archeologiche.
Impostato su nuove premesse metodologiche, lo studio dell’antico consente di avviare un’intensa e articolata operazione di verifica delle indicazioni vitruviane. È lo stesso Raffaello che, scrivendo a Baldassare Castiglione nel 1514, esemplifica l’atteggiamento ambivalente nutrito nei confronti del teorico latino: "vorrei trovar le belle forme degli edifici antichi, ne so se il volo sarà d’Icaro. Me ne porge una gran luce Vitruvio ma non tanto che basti". Scritto nel I secolo a.C., il trattato presenta infatti ovvie lacune, prima fra tutte quella di non contenere riferimenti agli sviluppi dell’architettura imperiale.
Trasgressione e codificazione della norma
Nella speranza di recuperare l’essenza più intima delle costruzioni antiche, si procede a un’attenta opera di studio delle vestigia di Roma e del circondario. Se è vero che questa ricerca è fondamentale per l’elaborazione del linguaggio classicista cinquecentesco, è anche vero che in essa sono implicite le premesse del cosiddetto sperimentalismo manierista.
La sintesi raggiunta da Bramante e Raffaello viene sviluppata nel corso del XVI secolo secondo due linee di lettura divergenti. Quella che è comunemente indicata come "architettura manierista" comprende infatti un eterogeneo gruppo di esperienze che, sviluppandosi a partire dagli anni Venti, da una parte trasgredisce l’impianto classicista e dall’altra ne codifica e ne cristallizza la norma. Consapevoli di non poter eguagliare l’equilibrio dei grandi maestri, gli architetti ostentano una completa padronanza della lezione classicista manipolandone gli elementi. Sulla scia delle rivoluzionarie soluzioni introdotte da Michelangelo nella Sacrestia Nuova di San Lorenzo a Firenze (1520), si registra così una nutrita serie di "infrazioni" linguistiche. Partendo dal dotto e divertito criticismo di Giulio Romano a Mantova, dalle esperienze di Girolamo Genga (Villa Imperiale di Pesaro) e quelle di Baldassarre Peruzzi (Palazzo Massimo alle Colonne), fino alle opere di Vignola, di Vasari e di Galeazzo Alessi a Milano (Palazzo Marino), di Pirro Ligorio e dei fiorentini Ammannati e Buontalenti – per citare solo alcuni esempi di un fenomeno estremamente ricco e variegato – si costituisce un vocabolario di elementi destinati ad alimentare la grammatica progettuale e ornamentale d’Europa. La preferenza per spazialità poliprospettiche che accentuino il dato emozionale, l’utilizzo di elementi privi di una ragione strutturale (quali ad esempio frontoni spezzati e intrecciati, lesene ribattute), la proliferante decorazione e l’uso degli ordini in senso espressivo sono caratteristiche ricorrenti.
Volendo illustrare le regole della "buona architettura", la trattatistica non ha espresso la sua adesione a questi ambiti di ricerca. Anche le trasgressioni proposte da Sebastiano Serlio nei Sette libri dell’architettura (pubblicati a partire dal 1537) sono inserite in un contesto normativo.Nell’ambito del filone classicista più ortodosso riprendono con nuovo vigore gli studi sul De architectura, alla cui autorità si fa riferimento per condannare le soluzioni linguistiche non direttamente riconducibili alla regola classica. Profondamente insoddisfatto delle edizioni vitruviane precedenti, Giovanni Battista Caporali pubblica a Perugia nel 1536 un commentario ai primi cinque libri del trattato latino.
Fra il 1531 e il 1539 anche Antonio da Sangallo il Giovane lavora a una traduzione commentata.
Nella parte introduttiva, il fiorentino lamenta la sostanziale incomprensione del testo vitruviano e dichiara di volerne verificare la lezione sulle architetture di età imperiale. Il metodo classificatorio e normativo adottato da Antonio da Sangallo consente di vedere in questa sua impresa un’anticipazione dello spirito con cui nei decenni successivi si affronterà lo studio del trattato latino.
Il bisogno di regole semplici ed efficaci che caratterizza il clima controriformista trova modo di manifestarsi anche in architettura. Si assiste infatti alla progressiva accademizzazione degli studi e alla rigida codificazione del lessico classicista.
Gli studi accademici e la sintesi di Daniele Barbaro
Oltre alla Congregazione dei Virtuosi al Pantheon (1541-1543), il cui programma coincide sostanzialmente con quello sangallesco, a Roma nasce anche l’Accademia della Virtù o Vitruviana. Fondata agli inizi degli anni Quaranta, principalmente per volere dell’umanista senese Claudio Tolomei, l’accademia è animata da un ambizioso programma di ricerche destinato a rimanere inattuato. L’obiettivo principale è quello di approfondire gli studi vitruviani, redigendo una nuova edizione del testo latino e una nuova traduzione, e approntando una serie di pubblicazioni di supporto, fra cui alcuni vocabolari di termini specialistici.
ll programma dell’Accademia prevede anche un’intensa attività di studio delle architetture antiche e in particolare della città di Roma.
Nell’orbita dell’Accademia gravitano, fra gli altri, il Filandro e il Vignola. Il primo è autore di un importante commentario vitruviano (pubblicato fra il 1544 e il 1552) che, in considerazione della vastissima cultura che da esso traspare, deve essere maturato durante gli anni di attività accademica; il secondo invece realizza un trattato architettonico di enorme fortuna presso i contemporanei e i posteri. Per quanto edito solo nel 1562, anch’esso deve molto all’Accademia del Tolomei, nelle cui lezioni viene riservato un interesse particolare alle norme della composizione architettonica e soprattutto agli ordini.
La Regola delli cinque ordini di architettura è uno strumento progettuale, in cui si propone un metodo universalmente valido per il proporzionamento dei cinque ordini (tuscanico, dorico, ionico, corinzio e composito, secondo la codificazione del Serlio).
In Giovanni Battista Bertani invece l’intento didascalico e illustrativo sortisce risultati poco ortodossi. Autore degli Oscuri et difficili passi dell’opera ionica di Vitruvio (Mantova, 1558), egli incornicia il portale della propria abitazione con due colonne ioniche isolate, prive di carico, di cui una in sezione.
La grande sintesi degli studi vitruviani viene portata a compimento in terra veneta nel secondo Cinquecento. Forse incentivato dalla presenza di Claudio Tolomei a Padova e dalla pubblicazione nel 1547 del programma dell’Accademia, a partire dallo stesso anno Daniele Barbaro (1514-1570) si dedica allo studio del trattato romano. Forte di una vasta cultura e dilettante di architettura, egli approda a quella che è considerata come la più completa e organica summa del sapere tecnico-scientifico e archeologico dell’epoca e come la più valida interpretazione del testo vitruviano. Grazie al suo contributo vengono finalmente chiariti i passi che a partire dal testo di fra’ Giocondo avevano ingenerato più equivoci.
Daniele Barbaro redige due diverse edizioni del suo commentario, la prima nel 1556 e la seconda nel 1567. Esse presentano poche ma significative varianti, interpretabili con il desiderio di raggiungere una diffusione internazionale dell’opera: la seconda edizione presenta infatti un commento ridotto ed è corredata dal testo latino. Per l’illustrazione dei passi vitruviani il patriarca eletto di Aquileia si avvale della preziosa collaborazione di Andrea Palladio, autore a sua volta di uno scritto fondamentale per la diffusione del classicismo fuori dall’Italia.
Ma il compito di chiudere la vasta produzione trattatistica cinquecentesca spetta al trattato di Vincenzo Scamozzi Idea dell’architettura universale (1615), erudita e accademica sintesi delle esperienze rinascimentali.