I cenacoli intellettuali/2: dalla Conciliazione al concilio
Il mutato clima religioso dell’Italia del primo dopoguerra appariva già ai contemporanei immediatamente connesso al dibattito sui suoi destini politici: si trattasse di riscoprire e riedificare la ‘nazione cattolica’, magari per riaffermarne la missione universale nell’asserita crisi della modernità, secondo le divergenti strategie – in estensione o in profondità – di un Gemelli e un De Luca; ovvero di aggiornarla e ripensarla, in una cauta apertura a filoni di attraversamento critico del Moderno, giusta l’inclinazione dei movimenti intellettuali in seno o in appendice all’Azione cattolica1; o non fosse piuttosto questione di correggerla radicalmente, adeguandola agli standard di quella stessa mai guadagnata modernità, com’era negli auspici di ‘riformatori’ laici e protestanti in dialogo tra loro, nella comune opposizione al fascismo in rapida ascesa2. Sarebbe impossibile isolare questi gruppi intellettuali, per illustrarne il ruolo di guida o d’impulso, dai più vasti organismi ecclesiali, politici, accademici, ‘mediatici’, entro cui si svolse la loro riflessione; ad essi, come a momenti maggiori di storia religiosa del paese, sono del resto dedicate altre molte pagine di questi volumi. Più utile può essere forse, in questa sede, provare a inquadrarli dai margini esterni dello scenario comune, dalla specola di quelle più ristrette cerchie intellettuali, ininfluenti sul piano politico seppure ad esso mai indifferenti, presso cui la frattura intervenuta a inizio secolo tra fede e cultura, tradizione e novità, ‘persuasione’ e ‘rettorica’, mostrava di non essersi saldata, e celebrava anzi le sue conseguenze estreme3.
Se mai potesse esserci (e possa in genere) una ‘fortuna’ di Michelstaedter, essa era nel breve periodo affidata all’idealismo attualistico; ed è in seno a questo, o magari ai suoi margini, che si sarebbero in effetti consumate le riprese, le riduzioni, le appropriazioni più ‘creative’ del goriziano. Michelstaedter, «una delle più forti personalità che l’Italia contemporanea possa vantare», è ad esempio alla base dell’Idealismo magico di Julius Evola4, la cui diagnosi di partenza recitava:
«l’insoddisfazione per le forme generali di cultura e l’accentuazione del momento individualistico e attivistico di contro all’elemento dogmatico ed universalistico è un fenomeno oggi tanto generale, quanto significativo. In ispecie: nella decadenza della religione trascendente, nel cosiddetto “Crepuscolo degli Dei” e nella nascita, di là da essa, del modernismo e della ‘religione immanente’; [seguono esempi analoghi in campo filosofico, artistico, scientifico, sociale] può riconoscersi distintamente la suesposta situazione trascendentale: v. d. l’opporsi e il distanziarsi dell’Io dentro il corpo stesso della sua realtà, e il relativo movimento dissolutivo, attraverso cui balena l’esigenza dell’assoluta sufficienza a sé stesso dell’Io reale – il valore dell’Individuale».
Donde il programma: «l’io deve invece essere sufficiente alla sua insufficienza, deve prenderla su di sé, e sopportandone l’intero peso, consistere»; ossia tale insufficienza colmare «mediante un processo incondizionato che instauri l’assoluta presenza di sé alla totalità della sua attività – poiché allora egli avrà compiuta in sé l’assoluta certezza, “avrà persuaso il mondo”». Con un movimento in cui non si saprebbe non sospettare la contraddizion che nol consente, la persuasione si distendeva in processo:
«la persuasione non è comunicabile: non può essere data o insegnata, ma occorre che l’Io con la sua propria forza se la costruisca. Tuttavia questa costruzione non saprebbe risolversi in un semplice movimento soggettivo: essa [...] è lavoro cosmico. Come tale, la sua via, anziché un folgorare miracoloso e innominabile in una astratta interiorità, richiede l’articolarsi di questo in molteplici determinazioni, un suscitamento e una creazione di mezzi e facoltà nuove, insomma tutta una scienza e una metodologia assolutamente positiva se pur, nella sua realtà, essenzialmente condizionata dalla sua assoluta individualità. La ‘Persuasione’, pur rimanendo sempre il prius, quando non si potenzi e renda oggettiva attraverso una tale scienza spirituale, resta un valore vuoto».
Si innestava qui la dimensione magica, con la caratteristica «subordinazione del principio ontologico al principio pratico», quest’ultimo ‘modernamente’ interiorizzato. «Essa pone infatti, di là dalle realtà della coscienza sensibile, delle realtà spirituali occulte, risolventi le prime in gradi coscienti di unità e interiorità, ed i principi di queste riconnette a principi superiori che esistono virtualmente nell’Io, v. d. a possibilità dell’individuale». Onde la metafisica occultistica si lascia comprendere come la «descrizione mitica delle tappe che contrassegnano i gradi dello sviluppo spirituale», tappe che sono altrettanti «compiti per l’attività», invocata a realizzare «la “persuasione” universale». Tutto era pronto per la «costruzione dell’immortalità», «la consumazione della necessità dello spazio e del tempo», il «compimento dell’Io reale in una esistenza assoluta, in una eternità vivente e attuale», inveramento dell’Unico stirneriano e dell’atto puro aristotelico.
Come Evola accenna, e meglio chiarisce un apostata intelligente quale Mario Manlio Rossi nella sua coeva palinodia, tale programma assumeva e rilanciava tra l’altro la predicazione di Rudolf Steiner, separatosi dalla ‘gnosi’ teosofica nel 1912 in ordine a una visione più dinamica del divenire umano e a una corrispondente psicagogia che, per essersi meritata il titolo di ‘cristianesimo esoterico’ (il Cristo coincidendo con «quell’Io immanente che sta sotto, al di là del nostro Io e che ci si rivela con la preparazione iniziatica»), non per questo ha avuto un’influenza meno ampia e aperta sulla sensibilità pedagogica corrente (con l’idea di nostre «possibilità inesplorate che nella libertà possono espandersi e fiorire»)5 e sulle stesse prospettive di più generale progresso umano: il caso di Adriano Olivetti e del movimento di ‘Comunità’ rappresenta forse l’emergenza più significativa di questa sotterranea fortuna6. È noto che depositaria per l’Italia delle opere diSteiner era in Roma la baronessa Emmelina De Renzis, il cui salotto fungeva negli anni Venti da vera agenzia antroposofica; e diversi tra i frequentatori, a cominciare dal figlio di lei Giovanni Antonio Colonna di Cesarò, eminente personalità dell’aventino democratico, inoltre il poeta Arturo Onofri, il medico Giovanni Colazza, già consodale in theosophicis di Giovanni Amendola, infine lo stesso Evola – si ritroveranno a partire dal 1927 negli incontri culturali e rituali del ‘gruppo di Ur’ nonché, sotto gli pseudonimi di protocollo, sulle pagine della rivista omonima (1927-1928, «Krur» nel 1929)7. Si organizzava così quella ‘élite spirituale’ che Evola aveva invocato a estremo rimedio nei torbidi del 1925, e proposto agli ambienti occultisti-antifascisti romani dalla prospettiva del suo fascismo della ‘potenza’ e non della ‘violenza’, della perfetta autosufficienza del ‘persuaso’ cioè, dominatore delle masse e non del favore d’esse tributario8.
Dei loro era naturalmente Arturo Reghini, il teosofo fondatore di Biblioteche filosofiche, poi lacerbiano, neopagano e altro ancora, nonché protagonista di una drastica rottura a carte bollate con Evola nel 1928; il kremmerziano (divulgatore di pratiche magico-terapeutiche) Ercole Quadrelli; lo psicologo Emilio Servadio, poco dopo tra i fondatori della Società psicoanalitica italiana. Inoltre, il letterato cattolico Nicola Moscardelli, già della cerchia lacerbiana, e sulla via del cattolicesimo il poeta Girolamo Comi, autore un po’ più tardi del flebile proclama di Aristocrazia del cattolicesimo, contro la «presunzione – grossolana quanto gratuita – che il Cristianesimo sia una specie di cucina economica e democratica dello spirito nella quale possono trovare immediata ospitalità e grassa minestra tutti i falliti e tutti i mediocri»9. Vi era soprattutto una figura appartata di mistico, alla confluenza tra cattolicesimo, sufismo, vedantismo, quale Guido De Giorgio, intimo di René Guénon, e suo ascoltato tramite presso Evola. Suo mandato, correggere variazioni e deviazioni di quest’ultimo quanto a «la suprématie de l’autorité spirituelle sur le pouvoir temporel, l’intuition intellectuelle, la régularité initiatique»10, altrettanti articoli della dottrina di Guénon che l’idealismo attivistico, ghibellino, ‘occidentalizzante’ di Evola in sostanza contraddiceva. In comune questi autori avevano il domma esoterico di una ‘tradizione primordiale’ d’accesso alle verità metafisiche, trasmessasi per via iniziatica da un’era, da una terra, da un ‘asceta solitario’ a un altro; Evola poteva riconoscerne la presenza discreta nella prima pagina della Persuasione, insieme a quel ritmo «da fiamma a fiamma» con cui essa comunica il suo segreto: la «divinizzazione dell’Io»11; meno era disposto ad accreditarne invece l’organizzazione e dottrina cattolica, anche nelle forme decadute o essoteriche concesse dagli altri due – apprezzando sì la correzione romano-cattolica di un cristianesimo per sé egualitario e dissolutore, ma proprio per ciò temendone l’inevitabile competizione con l’‘imperialismo pagano’ da lui preconizzato12. Di qui l’opposizione, previa e permanente, rispetto al Concordato; e appunto la difesa di un filone di ‘romanesimo’ spirituale, nell’ambito dell’ideologia fascista, come sola via al riscatto dell’Occidente. Ce n’era abbastanza per destare lo sdegno de «L’Osservatore romano» e la preoccupazione di monsignor Montini13; ciò non toglie che alcune idee circolanti nelle chiuse di «Ur», il richiamo a un concetto astorico di tradizione in primis, la ‘magia cerimoniale’ riconosciuta nei riti e nei sacramenti (purché officiati in una lingua tecnica), la spiritualità ascetica ed atletica da ordine cavalleresco, il culto antiquario per l’Istituzione e una cronosofia apocalittica tra Spengler e Steiner, fossero tutti motivi che, eventualmente volgarizzati, avrebbero continuato ad agitare le acquesantiere dell’integralismo religioso, tanto di più con l’avanzata dei processi di massificazione nella cultura e nella vita sociale. (Quale vistoso affioramento di una vena di tradizionalismo estetico ed esoterico si può ricordare, di passaggio, l’appello a difesa della Messa tridentina «in its magnificent Latin text» promosso da Cristina Campo e sottoposto a Paolo VI da un’eletta schiera di intellettuali, all’altro capo della traiettoria vom Kult zur Kultur)14.
«In quegli anni 1930-1932 era necessario, anzitutto, contrastare al ‘mondo’; ed ecco il valore del rifarsi appassionato a Dio»15. Si vorrebbero possedere, a proposito di «quegli anni», molte altre testimonianze religiose simili a questa; ma questa, di Aldo Capitini, è una delle rarissime. Ciò contribuisce a spiegarne l’originalità di profilo; e l’esito, ovvero premessa, o comunque tratto pertinente così espresso: «se c’è una cosa che noi dobbiamo al periodo fascista, è di aver chiarito per sempre che la religione è una cosa diversa dall’istituzione romana».
«Non aver visto il male che c’era nel fascismo, non aver capito a quale tragedia esso conduceva l’Italia e l’Europa, aver ottenuto vantaggi da un potere brigantesco sorto uccidendo la libertà, la giustizia, il controllo civico, la correttezza internazionale; non sono errori [...] ma sono segni precisi di inadeguatezza di un’istituzione, ancora una volta alleata dei tiranni. Fu lì, su questa esperienza che l’opposizione al fascismo si fece più profonda, e divenne in me religiosa [... anche] nel senso che mi apparve chiarissimo che la liberazione vera dal fascismo stesse in una riforma religiosa, riprendendo e portando al culmine i tentativi che erano stati spenti dall’autoritarismo ecclesiastico congiunto con l’indifferenza generale italiana per tali cose»16.
Nella tarda rievocazione cheCapitini ne dà, mazzinianesimo e modernismo sono dunque convocati insieme a fornire gli ascendenti del suo impegno etico e politico di ‘libero religioso’; e non è strano ritrovarne la doppia elica nel patrimonio genetico di quello che sarà l’azionismo, allo stato solido o volatile delle sue metamorfosi. Ma quelle tradizioni erano spente, all’inizio degli anni Trenta, irrisi dai vincitori il liberalismo e il socialismo, tacitate le minoranze religiose, interrotte le comunicazioni con il resto d’Europa. Di dove ripartire?
«Il lavoro che noi facemmo fu [...] di concentrarci nel vivere la finitezza dell’individuo e nel connetterla non con lo Stato del fascismo o la Chiesa della tradizione, alleata più con lo Stato che con Cristo; non con il Tutto dello storicismo che dell’individuo si disfà dopo averlo usato a suo modo, ma con Dio e con tutti, in un modo più autentico, più puro, e perciò si comprende anche il poggiare sull’interiorità, dove l’individuo doveva incontrare, appunto, il rapporto liberatore con Dio e con i Tutti: l’interiorità proprio perché non ci si venisse a presentare, come luogo dell’incontro, la Chiesa, lo Stato, la Storia dei fatti. L’apertura doveva avvenire, a Dio e ai Tutti, proprio dall’interiorità [...] con un’antitesi al ‘mondo’ proprio per trovare il punto da cui rifarlo»17.
Occorreva, saltando le mediazioni istituite, il che significava: abolendo ogni mediazione possibile (il ‘mondo’ appunto), e anzi la mediazione in quanto tale – riconnettere l’io alla totalità, in un duplice movimento di interiorizzazione infinita e di infinita ‘apertura’. Doppio movimento necessario a evitare la deriva solipsistica: nella rielaborazione del retaggio idealistico – e segnatamente gentiliano – la traiettoria del ‘monoteismo concreto’ di Capitini si muove parallela, ma in direzione contraria, a quella dell’idealismo magico. Parallela perché anch’essa svolgimento in senso pratico dell’attualismo, mettendo l’assoluto in capo all’io empirico; opposta perché tale assoluto riconosceva non nella solitudine dominatrice dell’individuo d’eccezione, bensì in qualcosa che al termine del tragitto avrà nome ‘la realtà di tutti’, anzi ‘la compresenza dei morti e dei viventi’. E tuttavia le due esperienze si richiamavano entrambe esplicitamente alla ‘persuasione’ michelstaedteriana, entrambe tentando svolgerla in certo modo al di là e al di fuori del suo carattere di immota, puntuale autosufficienza. Certo in Capitini è un’altrettanto drastica secessione dal ‘mondo’, a rinforzo di cui egli recuperava il dualismo kantiano quale riserva permanente di trascendenza, spinta, questa, «fino al teismo»; soprattutto v’è la radicale, ‘religiosa’ abolizione della differenza tra mezzi e fini, l’immediata pienezza, perciò, dell’agire e del comunicare: quell’escatologia in atto che ha nome in lui di ‘non-menzogna’ e ‘non-violenza’18.
E in effetti, benché Capitini, giusta una sua impoliticità premeditata, non abbia mai voluto far parte o farsi parte, il suo percorso non fu né poteva essere di solitario. Esso inizia anzi da una condivisione fondante, quella che proprio tra il 1930 e 1932 lo stringe, nelle stanze della Normale a Pisa, al suo più giovane compagno di studi Claudio Baglietto; e dalle fervide discussioni da loro animate con altri studenti, che ne serberanno a lungo la memoria: tra questi Carlo Ludovico Ragghianti, Walter Binni,Giuseppe Dessì, Claudio Varese e da distanza esplicita, non meno coinvolto tuttavia, Delio Cantimori; né va dimenticato l’apporto indiretto che a questo clima forniva la testimonianza recente di Umberto Segre e di Vittorio Enzo Alfieri, allontanati da Pisa per antifascismo, o la presenza tra i docenti di personalità come Guido Calogero,Luigi Russo, lo stesso Arangio-Ruiz. Ma erano solo i due ‘persuasi’ a pronunciare una «professione di fede», secondo cui «di tutto ciò che è mondo, Tu non sei nulla, ma dinanzi a Te tutto il mondo è nulla e quello che siamo è tutto da Te»19; e solo a loro spetterà, a breve distanza l’uno dall’altro, di eseguire un gesto ‘assoluto’ di auto-esclusione: Baglietto a mezzo il 1932 riparando in Svizzera – dalla Germania dove si era recato a studiare con Heidegger – per dar corso al suo proposito di sottrarsi, primo obiettore di coscienza, al servizio militare obbligatorio (vivrà e morirà tra gli stenti nel 1940); Capitini rifiutando la tessera del partito e perdendo così, nel gennaio 1933, il suo posto di segretario della Normale e i relativi mezzi di sussistenza. Rifugiato nella colombaia del suo studiolo sotto la torre campanaria del Palazzo comunale di Perugia, questo profeta dell’Uno-Tutti sarà invero attivissimo in un lavoro itinerante di ‘collegamento’ tra amici e intellettuali, ‘centro’, ciascuno, di irradiazione antifascista – dal Veneto di Antonio Giuriolo alla Puglia di Tommaso Fiore, dalla Milano di Banfi e Flora alla Roma di Calogero e Buonaiuti, e inoltre la Torino di Ginzburg, la Bologna di Ragghianti, la Firenze di Russo e Momigliano, la Livorno di Borghi, in una lista assai più lunga –20; e di orientamento tra i più giovani, specie in Umbria assieme a Binni, al magistrato Alberto Apponi, al sacerdote già modernista don Angelo Migni Ragni; diffondendo in questi contatti suoi materiali di ‘opposizione religiosa’ giudicati innocui dalla polizia fascista ma non da Croce, che ne favorirà la pubblicazione da Laterza. Gli Elementi di un’esperienza religiosa (1937) furono poi da diversi, ormai non più giovani, riconosciuti come un segno precoce di speranza e di preparazione.
«Il libro non era una trattazione; era una situazione dell’anima», spiegò più tardi il suo autore, chiarendo: «nel 1932 ho sentito che era proprio un’esperienza di Dio che io facevo»21. Di una simile ‘rivelazione’ il libro dava testimonianza con un linguaggio prossimo più al referto esperienzale appunto, che non alla pura teoresi:
«Scende l’assoluta vicinanza nel momento attuale: sento che anche pensare è un fare, è un parlare in silenzio, un aprire il mio animo, un avvicinarmi anche agli astri, anche ai morti. Nella religione sento consapevolmente che questa vicinanza è la stessa presenza di Dio [...] il centro della relazione tra Dio e il mondo è vicinanza, cosa che sembra la più piccola di tutte, la meno dimensionale, ma è coscienza. [...] Debbo trasformarmi in persuasione, cioè portare tutto il contenuto nella mia anima, che mostra così la sua infinitezza: vicino anche a tutto l’universo, vicino al filo d’erba, il vero infinito da porgli accanto non è un altro universo, ma la coscienza appassionata, che sia tutta vicinanza. Questa persuasione di ogni contenuto, e anzitutto dei miei limiti come essere sofferente e peccatore, è, purtroppo, saltuaria, debole; ma quando c’è, non è più uno sguardo che sia come un urto, di cosa contro cosa, una conoscenza fredda, quasi un misurare con le mani tese e con gli occhi chiusi. Ho il rimorso, ma con la coscienza attuale del bene visto come liberazione e gioia; e la coscienza è più libera, più infinita, quanto più prova dolore per il peccato, per il male ovunque sia»22.
È un linguaggio che costeggia a tratti la mistica sperimentale, con certe effusioni che possono ricordare la tradizione francescana cara all’autore; ma anche scevro di retoriche apofatiche, attento semmai a una trascrizione sorvegliata, esatta. Si deve cioè credere che questa «situazione dell’anima» di concentrazione estrema, di protratta attenzione, sia effettivamente la fonte del pensiero capitiniano, ma insieme che essa non viva senza questo pensare, o al di fuori di esso. Sento consapevolmente: si tratta, come è stato osservato, di un «sentire lo stesso “senso della vita”, quasi di una penetrazione interna del significato complessivo dell’esistenza; [...] non dunque di un sentire in cui si esprimesse l’irriflessa sensibilità dell’uomo, ma [...] tutta l’interiorità razionale e “umana” dell’uomo»23. Un ‘sentire’ dell’universale cioè, quale organo di un «intimo assoluto» piuttosto che psicologico, un sentire in «persona di tutta l’esistenza umana»24. Si esegue in questo modo il tentativo di ristabilire un accesso ‘a Dio e ai Tutti’ a partire dalla sola interiorità: attraverso una sollecitazione strenua della ‘coscienza’, il cui ‘atto’ pone un dover essere, oggettivandosi così nella propria limitatezza da un lato, ma ritornando a sé come apertura infinita, ‘forma formante’ della vita anche nei suoi contenuti più contraddittori, «persona di Dio fatta persona mia». L’atto si rivela così in Capitini costitutivamente preghiera, «finitezza, e qualcosa che sopraggiunge a redimere la finitezza»; e meglio se preghiera interamente riassorbita al vivere stesso25: atto puro, ‘monoteismo concreto’.
Infatti, se vale la sentenza: «Dio non è essere, Dio è scegliere»; «se Dio è in capo all’agire, se è Dio del fare»26; allora «la teologia è teogonia in atto, da vivere»27. Ad esempio, Gesù: «egli ha redento realmente, perché quello che diceva lo viveva, ne era persuaso infinitamente, lo sentiva come una realtà ed attuava perciò quella realtà [...] con l’atto suo intimo, con la sua persuasione ha realizzato la liberazione di tutti: perché lo Spirito è uno, e quello che fa uno vale per tutti, è attuazione»28. C’è in nuce qui ciò che poco più tardiCapitini chiamerà la ‘libera aggiunta’ o ‘aggiunta religiosa’: gratuita offerta di realtà altra, ulteriore. Del resto, religione è ‘iniziativa assoluta’, e «chi ha in sé l’iniziativa assoluta è libero e fonda qualche cosa che, per lo meno, vale per sé stesso e da lui influisce sugli altri. Solo così si rinnova il mondo, per amore»29. Sono le prime tracce di un marcionismo che in seguito si amplierà, nel pensiero-esperienza di Capitini; e una rassegna consuntiva di temi della sua predicazione, come quella ben ponderata daNorberto Bobbio, ne fornisce un’ampia sintomatologia30. Capitini poteva attingerne l’ispirazione, ma non è necessario pensare a un’influenza diretta, dal Gesù Cristo e il cristianesimo di Piero Martinetti (1934), e ritrovarlo più tardi nella Storia del cristianesimo (1942-1943) del Buonaiuti – i due pensatori, del resto, dei quali soli riconosceva la precedenza. Erano tre uomini antifascisti, allontanati dall’Università, ostili alla Conciliazione; non è troppo singolare che il loro pensiero religioso assumesse intonazioni dualiste, e scegliesse per sé la dimensione diversa.
Esordiscono sullo scorcio di quegli anni Trenta i letterati di ‘terza generazione’, nella Firenze che era stata de «La Voce» e iniziava ora, in un altro anteguerra, a gettare un ponte verso quella prima stagione sua, di là dal vuoto nel frattempo scavato da tanti, troppi rappel à l’ordre: dei «grandi misconosciuti» di allora, «Rebora taceva e stava per entrare in convento, Campana era un sepolto vivo nel manicomio di San Salvi, Boine era morto, morto era Serra»31. Oggetto in seguito di un recupero pieno e cordiale32, di Michelstaedter non è mai parola in questi anni tra questi giovani, sebbene se ne possa percepire sullo sfondo il ‘paradigma’: «Bo quando ci incontrava diceva, come in un ritornello [...] con la sua asciuttezza di allora: “Quando ti suicidi?”, “Sei ancora qui?”». «C’era questa specie di vocazione al rifiuto addirittura con la morte contro la situazione sociale e individuale chiusa, senza speranza [...] Vivere aveva la tragica ironia dell’‘esserci’ malgrado tutto, [...] e dell’avere malgrado tutto vent’anni»33. Attorno a Carlo Bo, corpo estraneo alla cultura italiana34 come di frequentazioni letterarie soprattutto francesi, famiglia ligure legata da amicizia a Semeria e Gallarati Scotti, dal 1929 per studi a Firenze, si era dapprima venuta allacciando una rete di cultori e traduttori di poesia che raccoglieva lo slavista Renato Poggioli, i suoi allievi Tommaso Landolfi pure versatore dal russo, e Luigi Berti anglista; inoltre Leone Traverso, germanista di vaglia e traduttore per vocazione. Lo stesso Bo avrebbe militato la letteratura spagnola dopo la guerra civile del 1936, che è anche la data d’avvento per l’‘americanismo’ mediato da Vittorini. Erano, le loro, versioni intese «come opera autonoma d’arte», volte «in pretesti, in richiami, in provocazioni»35, perciò declamate nei caffè e passate da mano a mano prima di finire a stampa, spicciolate sulle riviste accessibili o raccolte in sillogi presto da capezzale, come La violetta notturna del Poggioli o la Poesia moderna straniera di Traverso36: ché «l’antologia, la traduzione e il saggio costituirono i generi fondamentali»37 di un apprendistato che non era solo letterario, per poco che si tenga presente quanto inedite, trasgressive e fin proibite ne erano le voci relative.
A quest’angolo di civiltà europea alla vigilia della catastrofe, riunita nell’aura del simbolismo internazionale, vennero a integrarsi attorno al 1933 gli appena più giovani Mario Luzi, Piero Bigongiari, Alessandro Parronchi, classe 1914 e vocazione di poeti in proprio, nonché il salentino Oreste Macrì, filosofo per studi e poi ispanista per elezione38. Spinti anch’essi da un’esigenza «di incontro diretto tra l’uno e l’altro oscuro partecipe della fatalità indolente ma terribile che incombeva per tutti»39, trovarono in Bo un maestro e una guida, anche grazie alla comune sensibilità religiosa. Fu lui a introdurli via via nel «Frontespizio», di cui era parte sin dall’avvio nel 1929: gruppo di laici tenuti in sospetto dalla gerarchia cattolica, non consacrati dall’accademia o dal successo (remoti dopotutto i Papini, Giuliotti, Soffici, che pure assicuravano un patronato decisivo), non letterati di mestiere né dediti a professioni liberali, ma chi maestro elementare e chi geometra, agrimensore, trattore, incisore... insomma «prima di tutto degli uomini, degli uomini credenti», «che si distinguevano soprattutto per il grande senso di umanità e di amicizia»40. Contato avrebbe per quegli esordienti soprattutto il rapporto con Betocchi e con Lisi, reduci come il direttore Bargellini da un previo «Calendario dei pensieri e delle pratiche solari» (1923), delle cui origini dimesse e non polemiche serbavano una «capacità di silenzio interiore, di prodigio interno che non poteva non fare a pugni con tutto quello che c’era sulla scena dell’epoca»41.
Con l’altra diramazione di questa stessa leva intellettuale più matura, quella ‘laica’ ed europeista di «Solaria» e ora di «Letteratura» –Montale, Bonsanti, Loria, Carocci, Gadda, Vittorini ... –, questi giovani entrarono in contatto poco più tardi, verso o dopo la fine del loro percorso di studi quando dal caffè San Marco migrarono alle Giubbe Rosse, già succursale storica dell’esoterismo fiorentino. Sulla soglia della vita adulta, mentre si consumava la tragedia spagnola e il regime andava irrigidendosi, la consuetudine reciproca si faceva rito ansioso:
«ci sedevamo [al caffè] la mattina, il pomeriggio tardo e qualche volta anche la sera dopo cena [...] Vi andavamo per ritrovarci, e per poi diffonderci per luoghi più ameni, o comunque per vagare, desolati e distratti, da un biliardo a un bordello o a una casa amicale dove vedevamo le ore piccole. Lasciarci, perderci di vista, era perdere un impossibile che si stava avverando».
CosìBigongiari, che poi, a proposito della progettata rivista «Dimore», aggiunge: «Bo ci diceva: “dobbiamo fare una promessa, giurare che nessuno di noi per dieci anni si sposerà”. Perché doveva essere come una specie di promessa di fedeltà assoluta, quasi un patto di incontro si direbbe conventuale». Conventuale, o almeno convenzionale, quando non prudenzialmente crittato, era il linguaggio ed era il silenzio con cui comunicava questa sodalitas:
«il fonosimbolismo di fondo della nostra generazione si nutriva di questo gorgoglìo appena percepibile, di questo ‘rumore senza fondo’ di una lingua che diceva cose nuove – per metà percepite, per metà appercepite – con una naturalezza confidente e segreta. Dovevamo stare attenti anche all’orecchio delle spie, oltre che al nostro orecchio, che captava mozziconi del messaggio, e che ognuno affabulava nel proprio interno»42.
Tutto ciò aiuta forse a capire perché il discorso di Bo ad apertura del Quarto Convegno degli scrittori cattolici, che nel settembre 1938 si celebrava presso il convento dei domenicani a San Miniato sul tema Letteratura come vita, riscosse tra i giovani ‘confratelli’, nello sgomento generale degli altri convenuti, «un’adesione assoluta», anzi, «molto di più che un’adesione: una rivelazione che non si finiva mai di elaborare. Quel programma ci sovrastava e ci somigliava, e in esso di volta in volta ci riconoscevamo […] Ciò che importava era averlo udito»43. È noto che la risposta all’appello non furono le ‘Dimore’ o come altrimenti era stata battezzata la rivista in proprio, ma un più agile ‘quindicinale di azione letteraria e artistica’ che già usciva dall’agosto di quel 1938 e che Vallecchi aveva affidato alle cure di Alfonso Gatto e Vasco Pratolini, all’epoca in cerca della «purità e [del] l’assolutezza di un riscatto morale oltre che estetico e prima che politico»44 dalla loro adesione al fascismo. Qui confluirono i giovani del «Frontespizio», causa il ripiegamento ultra-reazionario in corso presso i ‘grandi vecchi’ della testata; le Giubbe Rosse divennero così, correndo gli ultimi mesi del 1938, la sede di redazione ufficiosa del neonato «Campo di Marte», che nell’anno di vita concessogli dal regime ospitò «il diario, il brogliaccio, lo sfogo, addirittura il Libro Segreto di quella generazione»45: alla quale Gatto avrebbe rivendicato, all’atto del congedo, una «coscienza sociale e religiosa [... da cui] i letterati laici e crociani si sentono esclusi»46.
E di fatti il discorso di San Miniato su Letteratura come vita, manifesto involontario di tutto il ‘movimento’, si apriva e richiudeva sul pedale pascaliano del divertissement, indicato all’origine dell’‘insensibile’ deriva dell’esistenza, e in letteratura di «uno stato dimissionario [...] della nostra coscienza di uomini»; infine responsabile, nella deprecata convergenza dei due piani, di «una vergognosa rettorica umana». La ‘persuasione’ a tutto ciò contrapposta era prescritta come uno stato di «attenzione quasi esasperata», una «condizione senza vacanza di inseguimento assoluto», che investisse e adeguasse vita e letteratura quali «due mezzi per raggiungere l’assoluta necessità di sapere qualcosa di noi, o meglio di continuare a attendere con dignità, con coscienza una notizia che ci superi e ci soddisfi». Interamente trasferita al livello della coscienza, nell’esame di sé e nel «confronto perpetuo [...] con il senso totale della verità », questa vita, «e cioè la parte migliore e vera della vita», non conosceva avvenimenti se non testi e letture di testi, domande aperte su domande ulteriori, trasparenze volgenti in nuove oscurità, in un movimento a dialogo senza confini, né soste né risultati (anche la fede essendo «una verità che si rifà, che si ripete nella sua creazione»); tale posizione di attesa categorica coincideva con un «sentimento metafisico del Tempo» che sembra postulare una concezione dell’assoluto come eternamente diveniente, o avveniente. Al di là di questa ansia di autenticità il testo di Bo non procedeva, né conteneva indicazione qualsiasi di estetica o di poetica:
«quando si parla di letteratura come vita, non si chiede che un lavoro continuo e il più possibile assoluto di noi in noi stessi. [...] Se c’è un lavoro degno dell’uomo, se c’è un riscatto è questa condizione di attenzione, di contemplazione, di riguardo amoroso e cosciente a se stesso»47.
Qui come in seguito era appunto la natura del movimento come fatto religioso a essere rivendicata, senza particolare riguardo ai dati della sua trascrizione esterna. Certo si costeggiava una religione delle lettere ben stabilita nella tradizione umanistica e poi simbolista, cui Bo e consodali accedevano però, di preferenza, attraverso la mediazione della «Nouvelle Revue Française»48: passando perGide, Rivière, Claudel, Du Bos, Martin du Garde tra altre voci, ossia attraverso la grande letteratura religiosa d’Oltralpe, non senza qualche tensione, come riconosce lo stesso Bo in un consuntivo del 1945 che può considerarsi ancora una testimonianza autottica:
«forse non si abbandona una veste di convenzioni e di valore immaginario per offrirsi interamente al moto perpetuo di un’attesa senza soluzione [...] forse sarebbe stato meglio portare in questa soluzione particolare una voce stabilita prima, una parte fissa di verità, e qui abbiamo peccato di orgoglio, al vivo soccorso di una fede abbiamo creduto di poter sostituire una forma più pura dell’anima, dell’anima che non ha nome e ignora la condizione della forma. L’anima si sarebbe fatta a poco a poco di se stessa, in un dialogo col senso partecipato dell’eterno o meglio col nome che non ci sentivamo di pronunciare, di Dio»49.
Il ‘libero commercio col cielo’ aveva conosciuto abusi e cadute, tra essi la tentazione tipicamente orfico-esoterica di sostituire il poeta a Dio, cui l’ermetismo aveva pur ceduto, stando alla sua più autorevole coscienza critica50. È una dinamica che meriterebbe un’indagine ben più precisa51; ma ancor prima, sarebbe da chiedersi come, nella sua veloce parabola, quel gruppo di ventenni che avevano esordito sul «Frontespizio» – e cioè in ambiente culturalmente minoritario e in fondo letterariamente marginale – si trovarono proprio loro ad offrire a quel momento storico, né forse ad esso soltanto, una cifra ricapitolativa: una forma di pensiero, un riparo di parole condivise. E si potrà congetturare che essi, nel linguaggio lirico di quella stagione della letteratura italiana (e sarà qui da ricordare come una ‘poesia ermetica’ fosse stata individuata da una sospettosa ricognizione del Flora già nel 1936) trovassero il necessario supporto grazie al quale, accolto e radicalizzato, esprimere la più rigida autarcheia rispetto a un mondo di cui avvertivano, e per motivi anzitutto religiosi, lo squallore e il vuoto.
Si è insistito o eccepito sulla valenza politica dell’‘assenza’ in quanto désengagement dal regime fascista nella sua fase di massima virulenza, giusta una chiave ermeneutica ricorrente nella nostra cultura storico-letteraria; meno ci si è interrogati sul suo significato appunto religioso, pur in presenza di segnali inequivocabili in tale direzione.
«È strano come delle domande così profondamente religiose» scriveva ad esempio Bo nel 1945 «abbiano dovuto prendere delle strade apparentemente così lontane, così impraticabili ma, se si guarda bene, ci si ritrova di fronte a una questione di linguaggio [...]: se non ci soddisfaceva una parola abusata e del tutto devitalizzata della verità ufficiale e comandata si doveva per forza ricorrere a questi enormi bacini di un’acqua sia pure confusa ma viva, diretta, intera»52.
«Siamo stati veramente degli estranei nella famiglia che ci avrebbe dovuto guidare», anzi «sembrava di essere i soli cattolici in questo mondo distratto». Universitari o laureati e cattolici, questi giovani non erano evidentemente attratti delle settimane di cultura religiosa promosse dal Mlac nella vicina Camaldoli; in contatto con De Luca, contribuivano un poco ma poco attingevano al repertorio di voci da lui allestito presso la Morcelliana; nemmeno coglievano, per altro verso, la provocazione loro rivolta da Noventa di sulle pagine anch’esse fiorentine della «Riforma letteraria», complici altri coetanei come Fortini e Pampaloni: voci tutte evidentemente ‘divertite’, ‘distratte’ dal presente. «Non dimentichiamo quello che ci hanno detto per nostro conforto, per nostra intima consolazione scrittori come Maritain e Mauriac al tempo della guerra di Spagna», scriverà nel 1957 Bo, in concomitanza con altre condanne ecclesiastiche; «la loro era una parola sensibile e suscettibile di arricchimenti, di scoperte: la parola della verità fissa era inerte, non serviva più, e i primi a farcelo capire, a lasciarlo capire, erano proprio gli altri, gli uomini di autorità, i quali – il più delle volte – preferivano tacere»53. A isolare quei giovani credenti nel ridotto della coscienza, fortezza vuota di un cattolicesimo liberale ormai fuori corso, fatto spazio semmai a una stravolta religion du coeur, era insomma anche quella Chiesa che, non per nulla, il gesto ‘derealizzante’ del linguaggio ‘ermetico’ aboliva anch’essa – simboli e dottrine, stati e itinerari di perfezione – riuscendo nella più classica, in certo senso più oltranzistica ‘trascendenza vuota’ del modernismo poetico54. «Nello spazio steso fra l’assenza e la poesia era lecito riconoscere come unico elemento valido il verbo della poesia, e nella parte più alta e allusa perché mai raggiunta della poesia c’era proprio questa eterna sensazione di altra divinità, di un altro nome di Dio che invano si sarebbe cercato altrove, in quelli esempi che, si è visto, non ci hanno mai soccorso»55.
Un altro nome di Dio. Forse il «Dio della comunione senza religione, il Dio di tutti, di noi e degli altri: il Dio che si riassume nell’attesa» annunciato dal Cristo di Dostoevskij56. L’attesa, la ricerca, il dialogo offerto, mutati i modi e gli accenti, non si sarebbero acquietati neanche in seguito, nel ‘tempo minore’ della storia e della cronaca postbelliche. Al carmen continuum della riflessione di Bo, versata in vaste colate di pagine saggistiche, o nella misura frequente e breve dell’esame di coscienza, in un ‘diario’ a tutti gli effetti ‘ininterrotto’, avrebbero corrisposto le architetture poetiche o poematiche degli autori a lui più prossimi; nei quali ad esempio il motivo della salvezza individuale, cui già Péguy aveva opposto un drammatico non possumus, si dimetteva o dilatava in dimensionature desuete, onde abbracciare l’intera scala degli esseri, come in Betocchi, o il tormentoso lavorio della creazione verso un proprio omega celeste, come in Luzi. Dove le sfumature eventualmente eterodosse contano meno del fatto che, anche per esse, la fede si riappropriava, e ai livelli più alti o più profondi, dei territori del contemporaneo; e non già per apporvi argini invalicabili, ma come la vis a tergo di una interrogazione, una penetrazione inesauribili.
Durante e dopo la parabola di «Campo di Marte», l’ermetismo trovò udienza soprattutto in ambiente milanese, grazie alla mediazione di esponenti locali del movimento quali Giampiero Vigorelli e Beniamino del Fabbro, e all’ospitalità di «Corrente di vita giovanile», il periodico di Ernesto Treccani, conVittorio Sereni e Dino Del Bo tra i redattori; e certamente grazie alla ricettività del vivace milieu giovanile legato alla scuola di Banfi, come si evince da un lungo catalogo di collaborazioni a «Corrente» che registra le presenze di Anceschi, Formaggio, Paci, Cantoni e molti altri – non da ultimo di Antonia Pozzi, la cui morte volontaria alla fine del 1938 imprime una speciale serietà all’insieme di quella esperienza, del resto conclusasi col maggio 1940 alla vigilia dell’entrata in guerra. All’altro capo della guerra il ‘movimento’, come tale in fase di smobilitazione, è ancora ben rappresentato nel gruppo, giornale ed edizioni di «Uomo» (è del 1944, fatto in sé un po’ surreale, la prima Antologia del surrealismo, curata daBo), forse traghettatovi da Del Bo, di certo accoltovi da studenti, laureati, professori stavolta della Cattolica, tra cui Mario Apollonio, David Turoldo, Angelo Romanò e altri molti, che all’indomani dell’8 settembre usavano riunirsi «in un fazzoletto di cortile infossato tra le case, dietro l’abside di San Carlo al Corso»57.
Tra Firenze e Milano – Parma. « Penso ancora ai viaggi che facevo, lunghi viaggi della disgraziata Parma-Spezia, risento il calore dell’accoglienza che ci era riservata in questa città », ricorda ancora Carlo Bo;
«mi rivedo venire incontro i giovani più prestigiosi del tempo: un Bertolucci, Pietrino Bianchi e gli altri che erano poi venuti qui a Parma per insegnare, Luzi, Paci, e poi Macrì, e Spagnoletti come soldato e Sereni che passava di corsa per raggiungere Felino. Gran parte della nuova letteratura ha fatto il suo corso abregé fra queste mura [...] Perché il tratto di Parma era proprio questo dell’affabilità che mancava a Firenze, che non avreste potuto neppur lontanamente immaginare nell’affannata Milano: grazie a Dio, Parma era ancora una città fatta a misura d’uomo. Aveva i suoi caffè, aveva la sua pagina letteraria, aveva il suo editore, perché nel frattempo, Guanda aveva smesso di correre come un indemoniato in bicicletta fra Parma e Modena e aveva messo su bottega in città»58.
Assistente universitario di petrografia e cristallografia nella città ducale dal 1936, Ugo Guandalini aveva infatti spostato in questo confino «assai più comodo di una qualsiasi Pantelleria», diventato anzi «per la presenza di intellettuali antifascisti (di estrazione crociana o ermetica) un baluardo avanzato della intelligenza italiana»59, un’attività editoriale nata qualche anno addietro nella sua città natale. E certamente egli dovrà al sodalizio con Attilio Bertolucci la fortuna della propria sigla, in particolare l’immenso prestigio raggiunto dalla collana poetica ‘Fenice’, con l’esordio di Luzi (La barca, 1936), il capolavoro di Gatto (Morto ai paesi, 1937), lo Eliot di Berti (1935), il George di Traverso (1939), il Blok di Poggioli (1942), soprattutto, nel 1937, in anticipo su tutta l’editoria europea, il Garcia Lorca di Bo; e molto altro, naturalmente.
Ma il volto originario e forse più autentico di Guanda, quello apparso nella ‘tetra’ Modena all’indomani della Conciliazione, subito gratificato di ‘eretico’ dal vescovo della città in una pubblica omelia, e a cui gli articoli de «L’Osservatore romano» o la campagna contraria dei Gesuiti «fecero una pubblicità che non avre[bbe] potuto desiderare maggiore», onde «quei primi libri si esaurirono e si ristamparono in pochi mesi»60, questo volto sta anche e forse soprattutto altrove: in quella collana d’esordio di ‘Problemi d’oggi’ in cui Guandalini e il suo consodale Antonio Delfini davano voce alle loro inquietudini spirituali e morali più pungenti. Primo titolo ne era stato Cristianesimo e Psicanalisi (1933) di Pietro Zanfrognini, filosofo modenese abbastanza noto sul piano nazionale, che a favore della nuova impresa abbandonava Laterza e Carabba per mettere a disposizione dei due giovani le proprie credenziali sia presso l’esoterismo cattolico e relative adiacenze (onde troviamo ben rappresentati, nel catalogo, Colonna di Cesarò, Moscardelli, Arturo Onofri, Girolamo Comi), sia presso Buonaiuti e la sua cerchia: così che oltre a diversi titoli dell’eretico vitando (ad esempio Il modernismo cattolico, 1943), molti la collana ne avrebbe inanellati di Rensi e di Tilgher, qualcuno di Ugo Janni, Piero Martinetti (Il Vangelo, con introduzione e note, 1936), Aldo Capitini, Fausto Bongioanni, Ugo Della Seta, Angelo Crespi (Dall’io a Dio, 1950). Vi era beninteso dell’altro, e forse val la pena di segnalare almeno un testo di Solovev quale L’ebraismo e il problema cristiano nel 1936, alla vigilia delle leggi razziali; l’opera completa di Giovanni Boine, a cura di Mario Novaro (1938-1939); la prima edizione italiana della Religione nei limiti della sola ragione (1941, a cura di Alfredo Poggi). Guanda abbandonò l’università nel 1951 per dedicarsi interamente all’attività editoriale; ma questa non superò mai quello stadio artigianale in cui ogni scelta, ogni autore o titolo, vengono filtrati e accompagnati da una persuasione diretta, militante; e anche questo, oltre alle serate parmensi al caffè Tanara, fa del suo catalogo qualcosa come un cenacolo di carta e sangue, una ‘compresenza’ virtuale e non convenzionale di vicini e lontani, morti e viventi, nel segno prevalente dell’interrogazione religiosa. Per tre decenni almeno esso assolse al ruolo che nella cultura italiana era stato di Bocca e di Formiggini, e avrebbero rilevato poi Comunità e Adelphi: ruolo di promozione e irradiazione della ricerca religiosa, di là dalle strettoie del dissidio – e del connubio – tra ‘laici’ e ‘cattolici’.
Nel giugno del 1945 Guanda dava vita al «Contemporaneo», uno dei primi periodici di intervento nella rinata vita civile; lo impostava con l’understatement dell’antifascista di lungo corso, che esigeva un preliminare esame di coscienza collettivo, e sottintendeva una più profonda ‘conversione’ degli abiti religiosi e politici nazionali. Cominciava su queste colonne, con delle Accuse a questi italiani e di rincalzo un j’accuse più netto: Questo cattolicesimo è falso61 – l’avventura pubblica di Ferdinando Tartaglia, di Parma anche lui ma attivo a Firenze, dopo aver compiuto gli studi ed essere stato ordinato sacerdote a Roma. Qui Tartaglia era entrato in contatto con Buonaiuti, contraendo un’inquietudine ormai insolita nel giovane clero, che turbava l’attento don Mazzolari predicatore di esercizi spirituali al Seminario lombardo, e si trasmetteva ad alcuni giovani confratelli; con essi (Giuseppe del Bo, più tardi fondatore della Biblioteca Feltrinelli a Milano, Sante Pignagnoli parroco poi nella Bassa e quivi ‘pedagogo’ della lotta partigiana, Michele Do, isolatosi tutta la vita in una sorta di meteora alpina) aveva tentato un’esperienza comunitaria presso gli oratoriani di Genova, presto dispersa. Tra 1943 e 1944 aveva curato, per Guanda naturalmente, l’edizione di alcuni classici della spiritualità, accompagnandoli con fiammeggianti note editoriali che alludevano a un avvento per ora inesploso di novità; di tale ‘novità’ aveva poi avviato la predicazione a Firenze, tra la liberazione della città e la fine della guerra, riscuotendo un’udienza larga e affascinata soprattutto tra i giovani, alcuni dei quali gli si strinsero attorno con viva e generosa ammirazione (conosciamo qualche nome: Giulio Cattaneo, che ha lasciato di quel momento una memoria non più cancellabile62, Cesare Vasoli, Piero Pòlito, Carlo Meriano; poco più discosti, tra altri,Giovanni Spadolini e Aldo Braibanti). Incorso già in provvedimenti disciplinari dell’autorità ecclesiastica, si ebbe la scomunica maggiore a breve distanza dalla morte di Buonaiuti (aprile 1946), da lui commemorato e rivendicato a Roma e Firenze; nell’ottobre di quell’anno, col Primo Convegno di Perugia, dava vita a un Movimento per la riforma religiosa (‘Movimento di Religione’ dal Terzo Convegno, aprile 1947), per il quale aveva cercato e ottenuto l’alleanza di Aldo Capitini, da parte sua impegnato ora a rianimare la partecipazione popolare alla cosa pubblica con strumenti nuovi di inclusione e riconciliazione. Nel clima di dibattito a tutto campo che segna la prima ricostruzione, e in una zona di relativa indistinzione, ancora, tra identità nascenti o risorgenti, i convegni periodici del Movimento destarono una certa attenzione tra intellettuali di varia competenza e orientamento, con pochi riuscendo però a stabilizzare una relazione: Tommaso Fiore eFranco Fortini in particolare, peraltro provenienti entrambi dalle file del protestantesimo. Per lo più erano altri giovani a corrispondere, e di preferenza d’area ‘liberalsocialista’: Silvano Balboni, Enzo Santarelli, Giorgio Spini, Mario Tassoni – redattore, quest’ultimo, della bergamasca «Cittadella», che nel corso del 1947 ospiterà i materiali del Movimento. Il quale non sopravvivrà, in sostanza, al chiarimento e irrigidimento di posizioni procurato dalle elezioni del 18 aprile; e declinerà rapidamente dopo il breve ‘acuto’ di un primo Congresso Internazionale per la Riforma Religiosa in Italia, a Roma nell’ottobre di quell’anno. Nel 1949, quando lo raggiunsero la riduzione allo stato laicale e la sconfessione pubblica da parte di Mazzolari, Tartaglia stava entrando già in un silenzio da cui non avrebbe voluto più distogliersi.
«Il Movimento di Religione – scriveva all’altezza del 1948 – è sorto per opera di uomini che venivano da esperienze diversissime, alla fine della seconda guerra mondiale, in uno dei paesi occidentali più battuti e stanchi, l’Italia». Circondati dalla retorica della ‘fine di un’epoca’, dell’umanità ‘a una svolta decisiva’ del suo destino ecc., avevano capito che dietro di essa «si nascondeva qualche cosa di molto più importante: l’istanza a una fine di tutta la realtà e di ogni eventuale soprarealtà finora esistita, pensata o vagheggiata»63. Ai proclami di rigenerazione cui assistevano e ai rispettivi miti di riferimento, essi opponevano quest’unico ordine del giorno: «l’uomo, la realtà possono cambiare sostanzialmente, sì o no?»64. Ciò che esigevano era qualcosa come un ‘cambiamento ontologico’: un ossimoro evidentemente, a sciogliere il quale essi sollecitavano appunto l’attività umana più alta, la religione, che Tartaglia aveva illustrato quale «una perdutissima malinconia di trascendere e trasfigurare», «un impegno al destino totale dell’uomo, al destino totale della realtà»65. Questo ‘destino totale’, si poteva così prefigurarlo:
«l’uomo [...] prende in mano questo proprio essere che è stato finora essenzialmente parziale relativo passivo necessitato, chiuso nello spazio e nel tempo, soggetto al nascere e al morire, al dolore e al male, al limite e all’assenza ecc.; e lo trasforma ontologicamente in una realtà puramente totale assoluta attiva libera infinita ed eterna, esente dalla nascita e dalla morte, capace di darsi attivamente e liberamente qualsiasi inizio e qualsiasi non inizio, qualsiasi fine e qualsiasi non fine, affrancata da dolore e da male, perpetuamente vicina e presente»66.
Se tale a un dipresso – ma arrotondata per difetto – era la ‘novità’ predicata da Tartaglia e dal Movimento di Religione, ciò non comporta che essa si autorizzasse senz’altro sopra una qualche ‘svolta decisiva’ nel cammino storico e culturale. Una percezione acuta della situazione ‘catastrofica’ della civiltà, ad esempio, e una corrispondente prospettiva palingenetica, era ben presente alla cultura cattolica degli anni Trenta; e su di essa poco aveva influito l’immane conflitto bellico – cui del resto la Chiesa aveva assistito da spettatore neutrale, per l’occasione definendosi anzi ‘corpo mistico’ –; poco anche la tragica fine del conflitto stesso e il delinearsi di un nuovo ordine mondiale, essendo all’opera evidentemente ritmi diversi per entro una stessa metrica di anni. Ciò per suggerire come, forse, l’inaudito di Tartaglia continuasse e concludesse un ciclo già in atto, più che inaugurare una pagina bianca. Nel seguente passo ad esempio si noterà il ricorso di temi e stilemi ben consolidati nella koiné ‘ermetica’:
«proporre religione, vedete, è oggi cosa terribile e ci dissuggella dentro un’acqua profonda e delirata, il nostro capo ne è sempre distolto e non vi possiamo bere, il nome del nostro Dio è forse ancora trascorrente nell’acqua, raggiante nell’abisso dell’acqua, e può darsi non sappiamo ancora con esattezza come ciò che facciamo sia adempimento, sia violazione; o meglio, lo sappiamo troppo per poterlo già annunciare senza spavento. Oggi chi predice religione è staccato da se stesso, corre davanti a se stesso, la sua anima è solo un accadimento successivo e improbabile, la mano con la quale insinua il gesto lo segue remota e indistinta»67.
Temi e stilemi alle spalle dei quali è una tradizione magico-esoterica più solida che non si consideri abitualmente, come si è cercato di suggerire; nella quale vigeva una gnosi dei ‘piani dell’essere’, coordinati poi nel continuum di un dinamismo storico o psichico, ricodificati infine come figura degli stadi di un’avventura nell’occulto, il cui finale incantesimo non era tanto diverso dalla ‘tramutazione’ affabulata da Tartaglia. Quando questi pretende dedurre la novità, anzi la catena di ‘novitazioni’ fino alla novità ‘pura’, perfettamente irriferita a Dio, l’uomo, il cosmo noti, e ai loro opposti speculari (‘essere non essere e rapporti’), dedurle da ciò che chiama una «logica schiettamente religiosa», dai modi non più attributivo-formali ma costitutivo-reali68, egli pensa evidentemente a un logos creatore di realtà: trovandosi così più lontano da Gentile (il cui ‘atto’ è per eccellenza forma, limitandosi a ‘porre’, della realtà, la rappresentazione), che non dal giovane Evola appunto.
Certo, tutt’altro è il pathos con cui egli avverte il male in estensione e profondità, con cui soffre e rifiuta la prigione della necessità, e perciò la natura, la storia, qualsiasi ‘tradizione’, la creazione stessa, infine il Dio creatore. In ciò è assolutamente in linea con Capitini, di cui esaspera anzi il dualismo e compie, nell’antitesi tra vecchio e nuovo, potenza e servizio, necessità e libertà, il sotteso marcionismo. E la novità – la ‘libera aggiunta’ capitiniana – è una prassi liberatrice a cui il M.d.R. convoca l’umanità intera, il cosmo, Dio stesso: la più vasta ‘teogonia in atto’ che si sia immaginata in cielo in terra e in ogni luogo. Li convoca perché si pensino dal puro dopo se stessi, risolvendo in questa ‘persuasione’ la realtà data, svelandone l’innecessità – ponendosi positivamente dal punto di vista del Regno e quindi nel Regno; un motivo la cui intensità, in Tartaglia, è certo debitrice del magistero buonaiutiano, ma sopravanzato e travolto:
«Dio nuovo, entrando sempre dal puro futuro, rovescia l’escatologicità: l’escatologicità, da termine d’arrivo quale è stata costantemente finora, diventa luogo di partenza [...] Con questo rovesciamento dell’escatologicità viene capovolta tutta la realtà umana e mondana: potremmo anche dire che Dio non cammina più dal passato al futuro ma dal futuro al passato, il passato non domina più il futuro ma il futuro domina e libera il passato, che decade a conseguenza interna di lui. In tale modo, il rapporto al “prima di oggi”, al tempo quando “Dio non c’era” viene cambiato essenzialmente, in senso avverso e migliore a tutte le vecchie figure quali erano per esempio apocalisse, apocatastasi, giudizio retribuzione pena e simili»69.
Eppure anche qui, si deve ricordare come una rinascita di Marcione arretri almeno fino al giovane Bloch, si celebri in Harnack negli anni Venti e nella disputa sua con Barth, passi per intero di qui inMartinetti e arrivi a Buonaiuti appunto; e come, negli anni Quaranta, ricompaia inSimone Weil e in senso opposto nel Prinzip-Hoffnung70. È insomma plausibile che, nei codici della cultura religiosa, si esprima in Tartaglia e nell’esperienza del M.d.R, quanto piaccia allucinatoriamente, non tanto un nuovo inizio, quanto una fase finale della modernità, di resilienza sua dopo o magari al centro della sua Krisis.
È certo però che la ‘generazione dell’esodo’ non si era spinta mai così lontano, là donde, stretto tra glossolalia e silenzio, Tartaglia non avrebbe più fatto ritorno, malgrado la morte sua ‘sotto i santi segni’. Per seguirne la traccia, labile invero, bisognerebbe indagare forse in una zona di avanguardie postreme, tra l’ex-seminarista milanese Emilio Villa, l’altro parmigiano Corrado Costa, il modeneseAdriano Spatola, e fino alla piccola apocalisse delle Parole sui muri, Fiumalbo 1967-196871.
Che un cambiamento radicale di regime politico e di assetti internazionali non comportasse per sé un aggiornamento delle categorie di pensiero atte a interpretarli o interferirvi, risulta anche dal dibattito teologico-filosofico dell’immediato dopoguerra.
«Un gruppo di professori universitari italiani di materie filosofiche, che riconoscono soltanto nel Cristianesimo la sorgente di redenzione e di salvezza per l’umanità, consapevoli della specialissima responsabilità che essi hanno di portare il proprio contributo per la rinascita e la ricostruzione della patria e per l’intesa e la concordia delle nazioni, appena cessato il furore distruttivo della guerra, hanno convenuto di radunarsi annualmente in un amichevole e familiare convegno per conoscersi sempre meglio e per rendere accessibile al mondo filosofico un pensiero che si apre agli ideali cristiani»72:
così, in questa sproporzione tra i contesti e gli obiettivi, possono essere pensati i quattordici professori di filosofia che, nell’ottobre del 1945, da varie sedi dell’Alta Italia raggiungevano «con mezzi di fortuna e qualche auto privata» l’Aloisianum di Gallarate, ospite della prima di una serie di riunioni destinate a ripetersi fino ai giorni nostri. Vi erano tra di essi i promotori: il padre Carlo Giacon s.j. con i suggeritori primi dell’iniziativa, Umberto Antonio Padovani dell’Università Cattolica e Luigi Stefanini dell’Università di Padova, nonché, tra quanti erano stati fin da subito interpellati,Michele Federico Sciacca da Pavia (non però Felice Battaglia, docente a Bologna, né Augusto Guzzo, dell’Ateneo torinese)73. Avevano risposto all’appello Fausto Bongioanni, Carlo Mazzantini, Luigi Pareyson eAugusto del Noce dall’Università di Torino, Raffaele Resta da quella di Genova, Gustavo Bontadini dalla Cattolica, Marino Gentile e Giuseppe Flores D’Arcais pure di Padova, Giuseppe Tarozzi e Renato Lazzarini da Bologna; da Roma infine, «superando difficoltà inaudite», Enrico Castelli, in rappresentanza dell’Italia peninsulare. Il Centro di studi filosofici cristiani che sorse in quella circostanza, più noto poi come il ‘Movimento di Gallarate’, era dunque un’associazione privata di professori universitari, così come professori erano i partecipanti alle riunioni annuali, di solito qualche decina, da atenei pubblici, privati o pontifici, con tutti i nomi maggiori della filosofia cattolica (sole eccezioni di peso Balbo, Capograssi e Moretti-Costanzi; mentre non furono mai presenti, malgrado l’adesione talvolta concessa, i cofondatori della «Rivista di filosofia neoscolastica» padre Chiocchetti e della Cattolica monsignor Olgiati; sì però, della loro stessa generazione, monsignor Zamboni, protagonista nel 1931 di una memorabile rottura con gli altri); da Lovanio, Friburgo e dalla Sorbona giunsero inoltre dei rappresentanti di cattolicità estere; da altre sedi italiane alcuni «osservatori» scelti, promossi più tardi al rango di «amici» (Gaetano Chiavacci e Ugo Spirito tra i più assidui). Dal 1954 prese avvio un analogo appuntamento di assistenti e poi ricercatori di filosofia: solo una, del resto, tra le varie emanazioni del Movimento. Si insiste qui su questa base sua professionale per segnalare tra l’altro la novità di una presenza, fattasi via via più consistente a partire dalla Conciliazione, di docenti cattolici nelle Università di Stato, tra i quali qualche anno più tardi lo Sciacca avrebbe registrato, con vivo compiacimento, ben diciannove cattedratici di materie filosofiche74. E per indicare – di là da preoccupazioni politiche o accademiche contingenti, su cui prontamente e poi lungamente la critica di parte avversa mostrò di volersi arrestare75 – i limiti, o appunto la ‘sproporzione’, di un impegno eminentemente tecnico, indirizzato a se stesso anzitutto, e ad altri filosofi in seconda istanza, entro uno scenario che sembrava permettere e forse esigere ben altri sviluppi della cultura orientata in senso religioso.
Il verbale ragionato di quel primo fortunoso incontro, dato dal padre Giacon, lascia intravedere, se non le dinamiche esatte della riunione, per lo meno l’autocomprensione del Movimento al suo incipit e un poco oltre. Chiamati a sciogliere alcuni nodi preliminari del lavoro comune (il concetto di filosofia, la possibilità e l’identità di una filosofia cristiana, gli eventuali preambula da essa guadagnabili, i rapporti con la filosofia antica e moderna), i professori prendevano posizione in un circolo – ma Padovani preferiva misurarne in linea retta il diametro, in un suo verbale parallelo e confrontabile76 – che attaccava da una proposta di conio neoscolastico (gli stessi Padovani e Giacon; inoltre, Bontadini), proseguiva con un’antitesi di tenore ‘esistenzialista’ (per larghi echi il Lazzarini, stricto sensu il Castelli), inseriva a questo punto la mediazione o variazione spiritualista (Stefanini, Sciacca), chiudendosi infine con una ripresa ontologizzante, non priva peraltro di accenti originali (Mazzantini, Del Noce, M. Gentile). Era in tal modo riproposto, in prima battuta, il dissidio d’inizio secolo tra la philosophia perennis delle encicliche e il ‘pensiero religioso’ dei modernisti: l’istituzione di un sapere razionale che si voleva neutro e separato dalla teologia, ma in realtà interveniva a prescriverne l’ambito, la struttura sistematica, i procedimenti logici – e il programma di un ‘filosofare nella fede’ che rivendicava al contrario la priorità dell’esperienza religiosa, e per essa della problematica teologica: del quale proprio Lazzarini, reduce da San Donato, aveva fornito in Italia l’esempio compiuto77. Certo la scuola tomista milanese era altra cosa da quella ‘romana’ delle XXIV Tesi promulgate da Pio X quale antidoto al ‘veleno kantiano’, dictante il padre Mattiussi78; attraversata la doppia sfida al positivismo prima e all’idealismo poi, l’un contro l’altro armando sotto i propri auspici ma senza comprometterne – e se mai cercando di annettersi – i saperi soggiacenti, scienza e storia, giudicati acquisizioni irreversibili del Moderno, entrava ora nella fase sua di ‘neoclassica’ maturità. Se ha un’anagrafe ciò che è perenne, e non si tratti piuttosto di infinibile senescenza: come Sibylla in ampulla, per via di abbreviazioni ed essenzializzazioni successive, la scolastica veniva infatti contraendosi a pura posizione dell’istanza metafisica, rinvenimento del ‘principio indiveniente del divenire’, qui in certo senso fermandosi, onde far luogo da un lato alla Rivelazione, dall’altro a una corona di ‘filosofie seconde’ di cui essa si riservava il ‘controllo critico’ piuttosto che l’esecuzione. Da parte sua, l’esistenzialismo non nasceva indesiderato e infido da grembo cattolico ma, rampollato da seme protestante, era stato allevato in Italia soprattutto da una zona di ‘laicità’ pensosa e inquieta com’era quella della dirimpettaia scuola di Banfi (Cantoni,Paci, Dal Pra). Naturalmente c’era contrasto frontale tra la posizione che asseriva: «non c’è una filosofia cristiana, come non c’è una matematica cristiana [...] c’è la filosofia, costruzione razionale autonoma» (Padovani), e quella opposta per cui «si ha una filosofia cristiana quando l’irrazionalità, cioè il senso della morte, del peccato, del male, uccide la pura razionalità» (Castelli)79. Ma per tacere del segreto presupporsi e necessitarsi di queste posizioni, e di molto altro ancora (si pensi in tal senso all’opera del padre Cornelio Fabro, o in altro modo alla storiosofia filosofica di Del Noce), esse condividevano una diagnosi allarmata, quando non della humana conditio direttamente80, per lo meno del suo presente storico. In un (tradizionale) avvertimento ‘catastrofico’ dell’epoca, mostravano gli uni di volerla impugnare radicalmente, per ribaltarla in un ‘salto’ sospeso alla sola opzione di fede; di volersene astrarre energicamente gli altri, issandosi su per la natural burella di un ragionamento che avrebbe permesso esso solo, purché logicamente ‘incontrovertibile’, di uscire a riveder le stelle: di connettere quei due ‘piani’, che nel loro ‘edificio’ permanevano reciprocamente ‘estrinseci’. L’impiego, qui, di questi termini polemici, agitati dalla coeva nouvelle théologie all’indirizzo di una tradizione che proprio il padre Giacon illustrava in quegli anni e battezzava come la ‘seconda scolastica’81, non comporta che si possa senz’altro imputare alla scuola milanese, come pure si è fatto, il perdurante stallo della teologia italiana nella fase sua ‘dei manuali’82. Si dovrà piuttosto ricordare come proprio sulla base del suo schema saranno possibili esperienze di ‘frattura culturale’ non di superficie, quale ad esempio l’innesto col marxismo in Balbo e Rodano; né si vorrà sottovalutare il «coraggio con cui all’esile filo d’un semplice ragionamento, al discorso breve e rigoroso del metafisico, si affidano le sorti di una cosa tanto grande, quanto può esserlo una fede religiosa, il senso stesso della vita, il significato medesimo dell’intera civiltà cristiana»83. Basti comunque qui l’aver indicato, agli opposti poli del Movimento, due posizioni compromesse entrambe con il discernimento di qualcosa come una ‘sconnessione nell’Essere’, strutturale o contingente che potesse poi apparire.
Al di là di questo tratto comune, tuttavia, non vi era possibilità di un’elaborazione condivisa. Ciò spalancava lo spazio alla mediazione ‘spiritualista’. Mediazione non solo perché il relativo raggruppamento, variegato ed eclettico, si sgranava a ventaglio da un massimo di sensibilità alle istanze della metafisica classica – nello Sciacca, ad esempio – ad un massimo di contagio con linguaggio e tematiche esistenzialistici (notevole tra l’altro il tentativo di raccordo organico cui si dedicava il giovane Pareyson); ma soprattutto nel senso che, se da un lato muoveva dall’esperienza interiore, isolata e incompiuta quanto si voglia, ma pur sempre precompresa come naturaliter religiosa, d’altro canto lo spiritualismo cercava recuperare, su queste basi morali e psicologiche, per via di immanenza e di indigenza un diverso accesso all’Assoluto. È la ricerca che nei convegni di Gallarate veniva tematizzata come ‘metafisica della persona’ in opposizione a quella ‘dell’essere’, e che, nel solco di una tradizione di pensiero distesa da Agostino a Gentile, già negli anni Trenta aveva avviato una ‘conversione dell’attualismo’84 mediante il trapasso dal ‘trascendentale’ dell’atto al ‘trascendente’ del soggetto di esso atto, lo spirito autocosciente dell’uomo appunto: di qui accennando, per vie diverse ma generalmente di tipo ‘esigenziale’, alla trascendenza religiosa; allusa, questa, di preferenza in termini assiologici, di valore, che non logico-ontologici. Naturalmente, altra cosa era calcare a inizio secolo le vie battute da Rosmini e Blondel, tutt’altra valersi di esse quando, stabilito il ‘metodo d’immanenza’ su basi e finalità autonome dal Gentile, si trattava di piegarlo a un’opzione di fede cui corrispondeva, fuori pericolo ormai e ininterrogata, la formula dogmatica. Il fatto poi che questi autori non producessero in genere ‘dimostrazioni’ ma esibissero quasi solo un itinerario possibile, mentre apriva le loro pagine a qualche languore di retorica, alimentava d’altra parte una vena di umanesimo accorato e al fondo ottimistico, che meglio si interfacciava con filosofie seconde (della storia, del diritto, dell’educazione) e con pratiche extrafilosofiche; perfino con la teologia, se, come si è suggerito, esso prefigurava o sollecitava ciò che in quest’ultima si sarebbe manifestato di lì a non molto come la ‘svolta antropologica’85. Una funzione mediatrice ad extra lo spiritualismo poteva disimpegnare inoltre per la contiguità a quel personalismo politico e giuridico che, sulla scorta di modelli d’Oltralpe, veniva fornendo una base o una copertura ideale alla maggioranza parlamentare conquistata dai cattolici. Mediazione, in definitiva, perché, col suo radicamento nel pensiero moderno e nella più recente filosofia italiana, esso «faceva ravvisare nell’affermazione della continuità culturale la condizione per evitare quella fine del cristianesimo che appariva come il tramonto definitivo di ogni civiltà e l’avvento della notte assiologica»86.
Non stupirà pertanto se in seno al Movimento di Gallarate fu questa componente ad emergere via via come la vera deuteragonista, e poi come l’intonazione egemone; e se la crisi della koiné spiritualista verso la fine degli anni Cinquanta, con la morte di Stefanini e Carlini, il rifiuto di quella stessa denominazione da parte di coloro che vi si erano in precedenza riconosciuti (in modi diversi il Guzzo, lo Sciacca, il Battaglia, il Pareyson) e a monte, l’impatto delle scienze umane sulla cultura italiana con la loro cifra eminentemente anti-umanistica – determinerà per l’intero Movimento una crisi, se non di attività, certo di identità e prospettive. Dagli anni del concilio in poi i convegni diverranno soprattutto momenti di confronto, filtraggio e infine assimilazione di stimoli provenienti dall’esterno della filosofia, per lo meno di quella italiana, e cattolica in specie. Ma in certo modo era questo l’esito più lineare di un’esperienza di auto-organizzazione intellettuale il cui profilo, come si è accennato, era di carattere originariamente difensivo, essendo dopotutto in discussione modelli apologetici consolidati, per i quali Hiroshima o Auschwitz non rappresentavano una provocazione impellente. Onde non varrà imputarle il demerito di aver mancato l’occasione propizia per sparigliare il campo, elaborare una visione religiosa dell’esistenza storica, proporla o imporla alla riflessione comune. Non su questo piano va cercato il ruolo dinamico del cenacolo gallaratese: sì nell’esser stato palestra di un dibattito che ricomprendeva, se non tutti, certo una notevole varietà di orientamenti del pensiero a dominante religiosa. Non troppo diversamente da quanto si potrebbe dire del partito cristiano al potere, è la pluralità stessa delle posizioni, la ‘poligonalità’ dell’ispirazione cattolica messa all’opera in virtù del libero confronto, il contributo migliore, e in certo modo la preparazione meno caduca, da esso provveduta a una nuova stagione87.
Non stupirà nemmeno, per altro verso, che a breve distanza dall’annuncio di un concilio ecumenico vi fosse chi prefigurava un «Centro di filosofi cristiani» inteso per prima cosa a «evitare una seconda Gallarate»88. Era il maggio 1960, ma l’impresa maturava da tempo nelle riunioni del «seminario in casa» di Enrico Castelli, cui almeno dal 1956 prendevano parte alcuni pensatori a lui vicini (Paolo Filiasi Carcano anzitutto, quindi Felice Balbo, Ugo Spirito, Andrea Emo, occasionalmente Lazzarini o Pareyson o Alberto Caracciolo, di stanza altrove), alcuni giovani come Franco Bianco e Pietro Prini, alcuni religiosi «non molinisti» (vicini alla scuola fenomenologica, o simpatizzanti per la nouvelle théologie, di fresco condannata da Pio XII) attivi tra Gregoriana e Lateranense: Virgilio Fagone, Paolo Valori, Johannes Lotz, gesuiti; i salesiani Vincenzo Miano e Giulio Girardi; i sacerdoti Giorgio Giannini e, ospite frequente, Raimundo Panikkar. Sono i nomi di coloro che costituiranno, con alcune poche aggiunte o defezioni, il nucleo stanziale dei colloqui internazionali tenutisi tra il 1961 e il 1977 all’Università di Roma, venuta meno l’ipotesi che a promuoverli fosse il Centro di Documentazione sorto a Bologna nei primi anni Cinquanta per iniziativa di Giuseppe Dossetti89. Ipotesi caduta per le medesime ragioni che avevano ispirato un sentimento di prossimità e la prospettiva di una collaborazione: l’essersi Dossetti posto in rotta di collisione con il ‘semipelagianesimo’ della prassi cattolica, orientamento che adesso lo spingeva a disimpegnarsi anche dal lavoro culturale come già in precedenza da quello politico90. Sarà del resto da notare, in questa cerchia di relazioni, la nutrita rappresentanza di percorsi politici, o impolitici, cui Castelli riconosceva un rango di testimonianza già per il solo fatto di essersi assentati dalla logica della prestazione adeguata ed efficiente: ciò che sarà valso per un Balbo come per il socialista Lazzarini o per il Girardi, in seguito fondatore in Italia dei ‘Cristiani per il socialismo’. Alla disputa teoretica contro la tirannia dell’‘incontrovertibile’ corrispondeva infatti, sul piano pratico, l’apprezzamento di forme asimmetriche di azione e relazione, tipicamente l’esistenzialistica ‘carità nel vuoto’, ma anche l’incontro tra religioni e persuasioni diverse, nella rinuncia a ‘convincere’ o prevalere, e in un gratuito riconoscimento della buona fede dell’altro. Da inquadrare così un’iniziativa che d’altra parte si voleva indirizzata alla Chiesa ‘costantiniana’ (‘cesarea’, la diceva il Castelli) in vista dell’imminente concilio.
I colloqui romani verterono su temi annualmente messi a fuoco entro la generale cornice di «Ermeneutica e demitizzazione»91. Il primo termine della diade, nel solco della ben stabilita antitesi tra ‘spiegare’ e ‘comprendere’, traduceva la programmatica ostilità alla ragione ‘separata’ propria del pensiero di Castelli, che nella deriva solipsistica del moderno ‘gnoseologismo’ vedeva solo l’ultima tappa di un processo di ‘caduta’ fuori dalla ‘rivelazione originaria’ ancora custodita dal ‘senso comune’, e di nuovo guadagnabile attraverso una fenomenologia dell’esistenza quotidiana. La parabola di quel primo essenziale fuorviamento, ricapitolata nel ‘mito di Adamo’, acquistava per questa via una centralità di luogo teologico, nel cui orizzonte ‘precomprendere’ un’analitica esistenziale. Era questo inquadramento di teologia della storia, nonché il recupero di una dimensione anche di fattuale ‘storia del sacro’ (necessaria, benché qualitativamente distinta dalla ‘storia sacra’), a costituire l’originalità di approccio al programma bultmanniano di ‘demitizzazione’ , in linea del resto con un analogo ripensamento in corso all’interno della stessa scuola esegetica della Formengeschichte. Da ‘demitizzare’ erano ora semmai quella ragione ‘disincantata’, quell’universo della tecnica, a cui Bultmann aveva inteso adeguare la recezione del kerygma, ma che in tempi di ‘neocapitalismo’ trionfante apparivano altrettanto mitopoietici, di se stessi, quanto iconoclasti rispetto alla tradizione dei simboli religiosi:
«nell’età della tecnica, che è essenzialmente l’età dell’oblio del divino, l’ermeneutica del mito funge da pensiero che problematizza l’assenza del divino e pone tale assenza come chiave interpretativa della presente condizione del mondo»92.
È evidente come, in questo telaio concettuale, i convegni dell’Università di Roma dovessero strutturalmente incrociare filosofia, teologia, scienze religiose: fasci di competenze rivendicate fin lì, ed effettivamente esercitate, in sedi reciprocamente estranee. Precisamente in questo sta la novità dell’iniziativa in ambiente italiano, sia pure nella contiguità spazio-temporale a un ‘evento’ come quello conciliare, il suo dibattito a tutto campo, cosmopolitico e di fatto liberalizzato93. Impressiona in tal senso il catalogo internazionale, interdisciplinare e interreligioso delle presenze ai Colloqui, sia quelle in ogni senso eccezionali (Bultmann nel 1961 ad esempio, Gadamer quell’anno e poi nel 1971 e 1972, Daniélou sempe nel 1961 e poi nel 1963 con de Lubac;Lacan e Hyppolite nel 1964, Loewith quell’anno e il successivo, Widengren nel 1966 e poi 1973, Scholem nel 1967, Starobinski nel 1969,Jeremias e Jüngel nel 1970, Rahner quell’anno e nel 1972, Congar nel 1971, Gabriel Marcel sempre nel 1972, Pannenberg nel 1975), sia e soprattutto quelle ricorrenti, giusta «una stabilizzazione» delle adesioni che «avrebbe consentito […] il configurarsi degli incontri romani come di un foro annuale di continuata discussione e di reciproco confronto della evoluzione del pensiero degli interlocutori»94. Tra i quali vanno ricordati almeno Ricoeur,Kerényi, Fessard, Theunis, Tilliette, Vahanian, e a partire dagli anni Settanta Ellul, Levinas, Leuba, La Potterie tra altri. A confronto, la pattuglia degli italiani appare più ristretta e più chiusa, a indizio o a giustificazione del modesto impatto che i Colloqui esercitarono sulla nostra cultura – fatto salvo il risarcimento postumo di quel tanto di idealizzazione che volentieri si concede alle occasioni mancate. Accanto a poche nuove acquisizioni (il pastore valdese Renzo Bertalot, ad esempio, o Sergio Cotta, succeduto a Capograssi alla cattedra romana di filosofia del diritto e dal 1967 ospite dei convegni stessi nella Facoltà di Giurisprudenza; un religioso come Germano Pattaro, il critico e filosofoGillo Dorfles), spiccano soprattutto le assenze: malgrado i legami stretti che intercorrevano col promotore, ad esempio, non furono mai presenti né padre Fabro né Augusto Del Noce, che pure molto si era prodigato nei contatti conDossetti; non Luigi Pareyson né Gustavo Bontadini: sì però la più giovane leva dei loro discepoli, rappresentata nell’un caso da Vittorio Mathieu e Gianni Vattimo, da Emanuele Severino e don Italo Mancini nell’altro.
Il caso di quest’ultimo pensatore è degno di nota non solo per l’evoluzione di un esercizio teoretico che dalla madrepatria neoclassica, del resto mai rinnegata, lo farà approdare ai lidi di una ‘filosofia della religione come ermeneutica del kerygma’; ma anche, e quasi in parallelo, per la parte avuta dopo il rientro a Urbino nel 1965, d’intesa con Carlo Bo, nella ‘storica’ iniziativa di reintrodurre la teologia in un’università pubblica, cent’anni dopo la legge Scialoja-Correnti. Difficile dubitare della consapevolezza dei due a proposito del passo che venivano intraprendendo: «il pensiero italiano avrebbe tutto da guadagnare, anche in fatto di liberazione e di autonomia, da questo contatto e da questa interazione con la cultura teologica. E la reciproca vale, anche, per i troppo sublimi ‘santuari’ in cui sembra essere confinata una pur forte cultura, troppo asetticamente insediata nei perimetri ‘sacri’: [...] la cultura degli ecclesiastici, non solo romani»95. Non sarà da trascurarsi nemmeno la concomitanza per cui già nel 1964 Bo aveva incoraggiato don Lorenzo Bedeschi a fondare in seno all’Università un Centro di studi per la storia del Modernismo, che sarebbe cresciuto di prestigio nei decenni successivi, soprattutto per l’opera di rinvenimento, custodia e pubblicazione delle fonti96. È nel maggio 1968 – ciò che si segnala come qualcosa di più che una mera indicazione cronologica – che comincia la storia dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose, con l’insediamento di una commissione di progetto «dosata nelle sue componenti ideologiche»97 e incaricata di disegnare un organismo in cui fossero tutelate le due istanze storicamente divergenti, «quella del rispetto trepido e responsabile per la coscienza cristiana e del suo diritto ad essere genuinamente interpretata e quella di rispettare lo statuto autonomo delle scienze e la subordinazione, nella vita universitaria, di ogni atto all’autorità accademica»98 non confessionale; il che non riuscì senza «sussulti e crisi». Del marzo 1969 è l’approvazione da parte del Consiglio d’Amministrazione, ove sedeva anche il sindaco comunista della città; di dieci anni più tardi, dopo un quadriennio sperimentale, l’avvio ufficiale dei corsi, col doppio obiettivo di iniziare i giovani ai metodi della ricerca scientifica e di formare docenti di religione per le scuole pubbliche (il riconoscimento dell’autorità ecclesiastica interverrà nel 1987, parallelamente al varo formale degli Iissrr da parte della Congregazione per l’Educazione Cattolica, col conseguente sorgere di questi istituti in molte diocesi, in collegamento con Facoltà Teologiche extra Urbem generalmente non molto più antiche). Con una presenza che cominciava nella sua biblioteca domestica, aperta agli studenti, si distribuiva un po’ per tutta la città-palazzo e si compiva nell’omelia domenicale in Duomo, di cui Carlo Bo ha ripetutamente testimoniato, Italo Mancini resse l’Istituto che ora porta il suo nome fino al 1993, anno della morte, con l’aiuto dei suoi collaboratori più stretti: Piergiorgio Grassi, sociologo delle religioni e suo successore nel ruolo di direttore, Gastone Mosci, francesista, Ennia Temellini originariamente; quindi i docenti via via chiamati ai diversi insegnamenti, tra i quali si possono ricordare – almeno per la lunga fedeltà all’incarico, che sottintende una qualche sintonia con le linee di fondo del progetto – Paolo De Benedetti (Antico Testamento), monsignor Settimio Cipriani (Nuovo Testamento), monsignor Luigi Sartori (Storia e sistematica dei dogmi, dizione originaria mutata dopo il 1987 in Teologia dogmatica, col passaggio nel 1991 alla docenza di Andrea Milano), don Giannino Piana (Etica cristiana), don Giampiero Bof (Teologia protestante), don Aldo Natale Terrin (Storia delle religioni), Graziano Ripanti (un allievo di Mancini, suo erede a Filosofia della Religione), Carlo Fantappiè (Istituzioni ecclesiastiche)99. Esula dalle ambizioni di questo scritto la pretesa di giudicare come e quanto l’Istituto urbinate abbia onorato la sua ‘doppia fedeltà’ – per usare una formula caratteristicamente manciniana – e quale incidenza il suo esempio abbia avuto negli interstizi di un sistema accademico che era, e resta tuttora sostanzialmente, incardinato sul dualismo istituzionale tra scienze sacre e scienze profane. Il suo è stato probabilmente un ruolo simbolico, l’indicazione di una possibilità e di una necessità, per entro un contesto che, d’altra parte, al di sotto del rigido inquadramento che si è appena ricordato, veniva mutando radicalmente di segno agli stessi termini del problema, e ciò proprio a far data dagli anni del concepimento e nascita dell’Istituto.
Del significato ‘teologico’ di quel decennio, Italo Mancini aveva una percezione distinta, giusta una sensibilità maturata in lui fin da quando, nel 1959, aveva accettato in Cattolica la cattedra di Filosofia della Religione, una ‘filosofia seconda’ per entro le Geisteswissenschaften, il cui oggetto era offerto dalla storia appunto, e in essa chiedeva di essere ‘riconosciuto’ – non potendosi semplicemente ‘pensarlo’ secondo un’intenzionalità pura come quella della matematica o della metafisica. Nel 1965 aveva spostato il suo insegnamento a Urbino, in una ‘fedeltà alla terra’ sua d’origine che si allargava a includervi l’umiltà della propria estrazione sociale e la solidarietà con le tradizioni del movimento operaio. Nel 1969 aveva introdotto nella cultura italiana, donde si può dire non siano più usciti, l’Etica di Bonhoeffer e, soprattutto, i materiali di Resistenza e resa. Di seguito avrebbe praticato i terreni della ‘nuova teologia politica’, non solo quella a più alta gradazione teorica e accademica, ma anche quell’altra, ‘compromessa’ con la tumultuosa esperienza latino-americana e col riscatto della négritude100. La filosofia impattava qui l’oggetto ‘religione’ non già nell’impalcatura festiva della storia sacra, sì nella concreta vicenda di ‘enormi masse di vita religiosa’; e non come sapere intorno a una caduta originaria, ma precisamente come bisogno escatologico di salvezza: né la dimensione storica si frantumava tra mito (di Adamo) ed esistenza singola (alienata), ma premeva nella sua densità di imminenza, immanenza del male, e di lotta per l’emancipazione. Passa di qui, dalla presa d’atto della storia novecentesca come locus theologicus, la differenza tra la filosofia della religione come professata da Mancini e come dal Castelli. Per il quale ultimo il senso di quel genitivo era per lo meno equivoco, se non risolutamente soggettivo; mentre nell’altro, proprio la corposa storicità del fatto umano e religioso preservava l’oggettività, e con essa la differenza dei piani101.
Ma ciò non era senza conseguenze nemmeno per il paradigma neoclassico di provenienza. Se un Severino lo aveva svolto con allucinata coerenza fino ad ‘esorcizzarne’ interamente il divenire, e cioè la storia, proprio quest’ultima Mancini veniva enfatizzando rispetto all’incontraddittorietà dell’essere e a quel ‘principio di Creazione’ con cui il maestro comune aveva concluso la sua dimostrazione; che anche da questa porta usciva depotenziata. Se infatti il religioso stesso veniva sradicato dal plesso natura-ragione e assegnato ai territori del contingente, alla gratuità indeducibile del kerygma e della scommessa di fede, il prologo in cielo della metafisica si riduceva, da fondamento razionale ‘incontrovertibile’, a mero «schema di possibilità»: era semmai dalle sue risorse meontologiche che si apriva il varco all’intervento di una Rivelazione e alla libertà della prassi (l’umana prassi di liberazione) come risignificazione incessante e apertissima del dato di senso evangelico. In questa chiave ermeneutica, la filosofia della religione poteva allora interpretare il suo oggetto alla luce del ‘doppio pensiero’ dell’assoluta alterità di Dio e della conseguita adultità dell’uomo, l’homo irreligiosus del testamento bonhoefferiano102. Questa doppia, reciproca, non riducibile contingenza, solo una ‘teologia crocifissa’ poteva poi tenerla assieme: e al recupero di un cristianesimo ‘del paradosso’ – oltre e contro le declinazioni correnti e concorrenti del fatto di fede – è intesa la stagione ultima della predicazione di Mancini103, giusto coincidente con l’entrata a regime dell’Issr, quando ormai l’avvento della ‘società radicale’ variava i termini della secolare controversia.
Nel Natale del 1971, un gruppetto di persone saliva al monastero semidiruto di Montebello, anch’esso territorio di Urbino, «per aspettare la fine del mondo»104. Il Messia non tornò, ma attorno a quel rudere avvilito, e a questo nuovo fallimento della ‘speranza cristiana’, una piccola comunità si organizzò per qualche anno come testimonianza dell’attesa di una vita liberata, che essa cercò comunicare ad altri con la pubblicazione di alcune Lettere105. Si cita questo come un esempio precoce della crisi di quelle filosofie della storia e di quell’umanesimo cristiano che nel decennio precedente avevano toccato l’apogeo della loro fortuna. Questi giovani, tra essi Gino Girolomoni, Piero Stefani, le loro compagne, i loro amici Fiorenzo Fontana e Rodolfo Quadrelli, i religiosi Theobald Kneifel e Pierre-Antoine Paulo, mostravano di non credere più alle sue promesse, di non aspettarsi anzi nulla dalla storia, e di voler riattingere un grado zero della fede, in certo senso della vita, che le molte ostruzioni ideali e sociali rendevano indisponibile. Su questo avrebbero potuto, nel corso del tempo, confrontarsi con unCeronetti e un Lanza del Vasto, un Ivan Illich e un Alex Langer; ma la loro convocazione lassù era custodita primamente nello scrigno de L’incoronazione (1971), un libro il cui autore, Sergio Quinzio, operava la riduzione di tutti i luoghi teologici a uno solo, la morte della persona cara. La sua esulcerata fedeltà alla littera delle promesse messianiche, mentre configurava una crisi ‘interna’ a quella eredità modernista, da Buonaiuti a Tartaglia, nella quale sia pur originalmente egli si collocava106, insieme dava scacco al tradizionalismo simia traditionis di altri interlocutori a lui prossimi (Elemire Zolla e Quirino Principe ad esempio) e nutriva anzi una qualche disillusa tenerezza per quella modernità che un assalto al cielo aveva pur tentato, nel ritardo della parusia, e con più vasto contraccolpo di macerie. Forse per questo alla fine degli anni Settanta, quando uscivano i testi della sua maturità, La fede sepolta (1978) e Dalla gola del leone (1980), essi trovavano udienza presso l’intellettualità di massa tenuta a battesimo dalle università e dai movimenti del decennio, e insieme a questo inghiottita dagli ‘anni di piombo’. Per lo meno in una scheggia di essa, coltivatasi nei laboratori un poco elitari di un marxismo antistoricista, ed esercitatasi alle grammatiche filosofiche del ‘tragico’, del ‘mistico’, o alle ‘categorie del (teologico-)politico’. Può essere alluso così, sinteticamente, il tracciato che porterà ai primi incontri di Montebello, 1980 e 1981, su temi come ‘Tempo e apocalisse’107, e da lì ad alcuni confronti protratti nel tempo, con Massimo Cacciari anzitutto, inoltre con Gabriella Caramore o Giuseppe Trotta, in grado di rilanciarne la suggestione su altri quadranti108. Sono i medesimi anni in cui sulle Tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin, manifesto di un marxismo ‘esoterico’ che innervava il materialismo storico sul tronco dell’apocalittica giudaica, e alla fiducia nel futuro opponeva la salvezza del passato, si riuniscono a seminario altri giovani pervenuti, anche dalle aporie del ‘dissenso’, alla loro prima maturità di studiosi: Paolo Bettiolo, Gianfranco Bonola, Giancarlo Gaeta, Enrico Norelli, Lorenzo Perrone, Mauro Pesce, nei cui successivi itinerari di ricerca può talvolta rintracciarsi ancora attiva la cifra di quel passaggio critico, culminato nell’abbandono dell’Istituto per le scienze religiose di Bologna presso cui si erano formati e ancora si riunivano, convocati da Pier Cesare Bori e Michele Ranchetti (ospitiCacciari, ,Fabrizio Desideri Gerardo Cunico)109. All’Istituto diretto da Giuseppe Alberigo essi rimproveravano l’ispirazione e la destinazione ecclesiali della ricerca scientifica; si trattava peraltro dell’‘officina’ che aveva messo a tema in quegli anni, anzi problematizzato radicitus, l’idea di ‘cristianità’ (forse per suggerimento di Dossetti ancora, peraltro sottrattosi ora interamente alla vita pubblica e alla stessa Europa cristiana), di questa leva servendosi per rileggere le dinamiche del ‘cristianesimo nella storia’ antica e recente, e soprattutto per immaginarne una diversa figura, liberata dalle ipoteche della religio civilis110. Ed era, appunto, solo oltre il dramma uno e bino della cristianità e della modernità, quale in Italia si era ricapitolato nel giro breve di alcune poche generazioni, e nel chiuso di passioni contrastanti, che il sapere religioso – storia, scienze umane, filosofia, teologia – poteva cominciare a ridislocarsi entro una geografia diversa e più libera. Un sapere che si sarebbe irrobustito e diffuso come forse non mai in precedenza, varcando i confini delle chiese e delle accademie, secondo fulcri di interesse e forme di aggregazione intellettuale inediti, grazie al mutato contesto e ad alcuni interpreti d’esso capaci di muoversi a scavalco delle partizioni tradizionali.
A riprova, si possono ricordare due momenti emblematici, seppure su scala assai diversa. Abbracciano entrambi il quindicennio tra 1987 e 2002, e nell’arco di esso il crollo del Muro, e quello delle Torri, periodo di crisi certo, di transizione forse, in tal caso ad assetti che non sembrerebbero verificarne gli auspici. Dei due, il minore si avviò a Roma, in casa di Romana Guarnieri, all’insegna nuovamente deluchiana del «Bailamme», in una programmatica volontà di confronto senza accordo possibile tra ‘diversamente credenti’ nel ripensamento parallelo delle rispettive ‘passioni di verità’. Passarono da quel crocevia di amicizie, accolti in esso e da esso talvolta stimolati, la provocazione anti-intellettuale di Quinzio in campo religioso e quella di Mario Tronti sul terreno politico contro il senso comune secolarizzato; il tentativo di rifondazione del linguaggio teologico di Edoardo Benvenuto e l’ermeneutica a zolle di Salvatore Natoli, nella faglia tra postcristianesimo e neopaganesimo; il ritorno alle fonti del cattolicesimo politico, Sturzo eDossetti segnatamente, condotto da Trotta e Giovanni Bianchi (allora al vertice delle Acli e poi del Ppi), e, infine, per l’ autorità di Guarnieri, un incrocio fecondo tra pensiero femminile e storia della pietà, cui contribuirono in momenti diversiLuisa Muraro, Rosetta Stella, Adriana Valerio, Lucetta Scaraffia, Emma Fattorini e che rappresenta probabilmente il lascito più cospicuo di quell’esperienza111. L’altro corrisponde alla più nota ‘Cattedra dei non credenti’ eretta nella diocesi ambrosiana dopo lenta maturazione, ma non perciò meno unheimlich al suo apparire, nella Chiesa milanese e italiana in genere. Inaugurata da tre lezioni di Carlo Maria Martini e Massimo Cacciari su «Le ragioni della fede» (seguirono nel 1988 Natoli e Pierangelo Sequeri su «Il senso del dolore», poi Fulvio Scaparro e il cardinale su «Lo spirito dell’infanzia», e così via), si tenne dapprima nelle stanze dell’Arcivescovado per un pubblico folto ma selezionato degli inviti, e fu aperta dal 1992 alla città, con vasta risonanza e tesa partecipazione. «A un certo punto, dopo tanti anni di predicazione in Duomo, occorreva escogitare altre forme», spiegò in quell’occasione il cardinale.
«Tra le tante possibili ho pensato a coloro che non sono immediatamente presenti nel fanum, nel tempio, e ho sentito il desiderio di ascoltare altri, quanto più possibile diversi da noi. Diversi da noi, ma dotati di una tensione spirituale, carica di forza […]. Evidentemente, sarebbero state necessarie alcune condizioni: la volontà sincera di confrontarsi; l’accoglienza, umile, benevola di ciascuno verso l’altro; il desiderio di lasciarsi interrogare dall’altro, senza bisogno subito di rispondere rimbeccando o correggendo o chiarendo, ma lasciando che le interrogazioni prendessero la forma del proprio corpo e della propria esperienza»112.
«Si danno oggi le condizioni di questo tipo non di dialogo, non di discussione, ma di comunicazione? oppure l’esperienza proverà che questo non è possibile?», si chiedeva ancora. E concludeva: «lascio aperta la domanda».
1 Cfr. su ciò la sintesi di F. Traniello, L’Italia cattolica nell’era fascista, in Storia dell’Italia religiosa, III, L’età contemporanea, a cura di G. De Rosa, A. Vauchez, G. Barone, Roma-Bari 1995, pp. 278-288.
2 Cfr. L. Demofonti, La Riforma nell’Italia del primo Novecento. Gruppi e riviste di ispirazione evangelica, Roma 2003, pp. 218-236 e passim.
3 Devo qui rinviare alle precedenti pagine in questo volume sui Cenacoli intellettuali/1: ricerca religiosa e crisi modernista.
4 J. Evola, Saggi sull’idealismo magico, Todi-Roma 1925; il passo cit. a p. 19. Ibidem e alle successive pp. 20-29 i brani di seguito riportati; su Michelstaedter in partic. pp. 136-142.
5 M.M. Rossi, Spaccio dei maghi, Roma 1929, p. 65.
6 Cfr. V. Cecchetti, Il ‘socialismo magico’ in G. Noventa e A. Olivetti, Roma 2006.
7 Per queste e altre informazioni cfr. R. Del Ponte, Evola e il magico ‘Gruppo di Ur’, Borzano 1994.
8 Su tali ambienti e movimenti cfr. M. Rossi, L’avanguardia che si fa tradizione: l’itinerario culturale di Julius Evola dal primo dopoguerra alla metà degli anni trenta, «Storia contemporanea», 6, 1991, pp. 1039-1090.
9 G. Comi, Aristocrazia del cattolicesimo, Modena 1937, p. 81.
10 G.M., Guénon, De Giorgio et la réorentation de Julius Evola, in G. De Giorgio, L’instant et l’éternité, Milano 1987, p. 40. La ‘riorientazione’ di Evola si sarebbe compiuta, ma in «contraddittoria continuità» con le sue premesse, nella nota sua Rivolta contro il mondo moderno, (1934): cfr. M. Rossi, L’avanguardia che si fa tradizione, cit.
11 Sono espressioni dell’editoriale Ai lettori, «Ur», gennaio 1927, p. IV.
12 Un’interessante rassegna di motivi in Ea [Evola], Esoterismo e cristianesimo, «Krur», settembre-novembre 1929, pp. 264-273.
13 G.B.M., Una nuova rivista, «Studium», 6, 1928, pp. 323-324.
14 Tra gli italiani i letterati Montale e Quasimodo, i musicisti Petrassi e Dallapiccola, gli artisti Messina e De Chirico, personalità cattoliche da Romano Amerio a Lanza del Vasto, o non cattoliche da Elena Croce ad Elemire Zolla; l’appello comparve sul «Corriere della sera» nel giugno 1966 e sul «Times» nel luglio 1971. Cfr. a inquadramento F. Ricossa, Cristina Campo, o l’ambiguità della Tradizione, Verrua Savoia 2005; più in generale G. Tassani, La cultura politica della destra cattolica, Roma 1976, pp. 141-212.
15 A. Capitini, Antifascismo tra i giovani, Trapani 1966, p. 159.
16 Ibidem, pp. 19-20.
17 Ibidem, p. 94.
18 Insiste su questo, tra le non molte voci utili sul pensiero capitiniano, G. Carchia nella Nota di edizione alla ristampa anastatica di A. Capitini, Vita religiosa [1942], Bologna 1985, pp. 119-125.
19 A. Capitini, Antifascismo tra i giovani, cit., p. 155.
20 Ibidem, pp. 55-63.
21 Così della Introduzione alla seconda edizione del testo, Bari 1947 (pp. 8 e 10), da cui si cita anche nel seguito.
22 A. Capitini, Elementi di un’esperienza religiosa, ed. cit., p. 48.
23 M. Dal Pra, Momenti di riflessione sull’esperienza religiosa in Italia tra idealismo e razionalismo critico, in La filosofia contemporanea di fronte all’esperienza religiosa, a cura di F. Bazzani, L. Rustichelli, Parma 1988, p. 51.
24 A. Capitini, Elementi, cit., p. 63.
25 Ibidem, pp. 54-57.
26 Ibidem.
27 Ibidem, p. 41.
28 Ibidem, p. 43.
29 Ibidem, p. 78.
30 N. Bobbio, Religione e politica in Aldo Capitini [1969], ora in Id., Maestri e compagni, Firenze 1984, pp. 261-299, in partic. p. 274.
31 C. Bo, La poesia a Firenze quarant’anni fa [1976], in Id., Letteratura come vita, a cura di S. Pautasso, Milano 1994, pp. 199-200.
32 Vedine la Commemorazione tenuta da C. Bo nel cinquantenario della morte, («Bollettino mensile di statistica del comune di Gorizia», Gorizia 1960). Altrettanto varrebbe per Serra e soprattutto Boine, unico auctor indiscusso essendo da subito il solo Campana.
33 Così ricorda Piero Bigongiari in G. Tabanelli, Carlo Bo. Il tempo dell’ermetismo, Milano 1986, pp. 94-95.
34 R. Jacobbi, “Campo di Marte” trent’anni dopo, 1938-1968, Firenze 1969, pp. 23-24.
35 C. Bo, La cultura europea in Firenze negli anni ’30 [1969], ora in Id., Letteratura come vita, cit., p. 189 e passim.
36 Rispettivamente Lanciano 1933 e Roma 1942.
37 Così Oreste Macrì, in G. Tabanelli, Carlo Bo, cit., p. 67.
38 Un penetrante ‘ritratto d’epoca’ di ciascuno (e di altri, come Giancarlo Vigorelli) in R. Jacobbi, “Campo di Marte”, cit., pp. 28-33.
39 Sono ancora parole di Bigongiari, in G. Tabanelli, Carlo Bo, cit., p. 93.
40 Così C. Bo, ibidem, p. 39. Per una vivace rievocazione del clima di lavoro e di relazioni del «Frontespizio» si vedano le pagine dedicate da un membro del gruppo, A. Hermet, in La ventura delle riviste 1903-1940, Firenze 1941, pp. 436-473; inoltre L. Bedeschi, Il tempo de “Il Frontespizio”. Carteggio Bargellini - Bo 1930-1943, Milano 1989, pp. 30 segg., 56-57.
41 M. Luzi, in G. Tabanelli, Carlo Bo, cit., p. 31.
42 Così P. Bigongiari, ibidem, rispettivamente alle pp. 110, 98, 97.
43 Così F. Ulivi, ibidem, p. 199.
44 R. Jacobbi, “Campo di Marte”, cit., p. 21.
45 Ibidem, p. 34.
46 A. Gatto, Congedo provvisorio, «Campo di Marte», 22, 1 agosto 1939.
47 Cfr. C. Bo, Letteratura come vita, «il Frontespizio», settembre 1938; quindi in Otto studi, Firenze 1939, pp. 8-23 (ora Genova 2000).
48 C. Bo, La poesia a Firenze, cit., p. 208; ibidem anche Che cosa è stata la NRF [1964], pp. 859-868.
49 C. Bo, Per la prima ragione, in Id., L’assenza, la poesia, Milano 1945 (ora Roma 2002); poi con il titolo Che cos’era l’assenza in Id., Scandalo della speranza, Firenze 1957, da cui qui si cita (pp. 41-42).
50 Cfr. C. Bo, La poesia a Firenze, cit., p. 209.
51 Valga per questo il riferimento alla lettura più analitica del movimento, quella di S. Ramat, L’ermetismo, Firenze 1969; più panoramicamente D. Valli, Storia degli ermetici, Brescia 1978.
52 C. Bo, Che cos’era l’assenza, cit., pp. 69-70.
53 C. Bo, Il dialogo è condannato [1957], in Id., Siamo ancora cristiani? Firenze 1964; quindi in Id., Letteratura come vita, cit., p. 1177.
54 Cfr. per queste categorie il classico H. Friedrich, La struttura della lirica moderna, Milano 1958.
55 C. Bo,Che cos’era l’assenza, cit., pp. 65-66.
56 C. Bo, Il Cristo di Dostoievskij [1970], in Id., Letteratura come vita, cit., p. 1223.
57 D.M. Turoldo, Omaggio ad Apollonio e agli amici, in L’uomo, pagine di vita morale, 8 settembre 1945 - 1 settembre 1946, ristampa a cura di S. Crespi, Brunello 1981, p. 700.
58 C. Bo, Commemorazione del trentennio dell’attività di Ugo Guanda editore. 17 novembre 1962, in Ricordo di Ugo Guanda, Bologna 1973, pp. 67-68.
59 G. Spagnoletti, Guanda scrittore, ibidem, pp. 42-43.
60 Così Ugo Guanda nel catalogo 1943 dell’editrice, cit. in A. Benini, Ugo Guanda editore negli anni difficili (1932-1950), Pescarenico 1982, p. 14.
61 «Il Contemporaneo», nn. 5 e 7 dell’ottobre e dicembre 1945.
62 G. Cattaneo, L’uomo della novità, Milano 20023.
63 In corsivo nell’originale.
64 F. Tartaglia, Chiarimenti al M.d.R, «Fondazioni», 2-3-4, 1948.
65 Rispettivamente F. Tartaglia, Nota, in J.H. Newman, Filosofia della Religione, Modena 1943, p. 381 e Id., Progetto di religione, Modena 1951, p. 9.
66 Id., Progetto di religione, cit., pp. 16-17.
67 Id., Passaggio agli amici di Bergamo, «La cittadella», 15, 1946.
68 Id., Tesi sulla fine del problema di Dio [1949], Milano 2002, pp. 62-63.
69 Ibidem, p. 88.
70 Cfr. F. Milana, Il vangelo del Dio nuovo, «L’Ospite ingrato», 1, 2004, pp. 129-141.
71 Su cui cfr. A. Tagliaferri, Una introduzione alle opere di Emilio Villa, in Emilio Villa poeta e scrittore, a cura di C. Parmiggiani, Milano 2008, pp. 85-86, ed E. Gazzola, Parole sui muri. L’estate delle avanguardie a Fiumalbo, Reggio Emilia 2003.
72 C. Giacon, Il movimento di Gallarate. I dieci convegni dal 1945 al 1954, Padova 1955, p. 55. Dal 1993 il centro ha sede a Padova.
73 Per queste notizie sulla preistoria dell’iniziativa, cfr. ibidem, p. 5 segg. Si tratta di una testimonianza del padre Giacon, molte volte citata, e ora leggibile anche sul sito del Movimento: http://www.fondazionecsfg.it/ (22 dicembre 2010).
74 M.F. Sciacca, El pensamiento catolico en Italia, Madrid 1953, p. 35.
75 Da subito A. Banfi, Filosofi in collegio, «Studi filosofici», gennaio-aprile 1948, p. 92; in seguito S.A. Efirov, La filosofia borghese italiana del XX secolo, Firenze 1970, p. 133 segg. e A. Masullo, La filosofia cattolica in Italia, «Critica marxista», 5/6, settembre-dicembre 1976, pp. 175-249.
76 Che può leggersi in Il primo convegno, 22-24 ottobre 1945, Padova 1950, alle pp. 45-60.
77 P. Prini, La filosofia cattolica italiana del Novecento, Roma-Bari 1996, p. 165 segg. Il riferimento è al Saggio di una filosofia della salvezza, Roma 1926.
78 Si veda AAS, agosto 1914, pp. 383-386; su di esse P. Prini, La filosofia cattolica, cit., pp. 40-46; sulle origini del movimento e suoi sviluppi successivi cfr. A. Babolin, Il movimento di Gallarate, Padova 1971; I. Mancini, La Neoscolastica, Roma 1966.
79 A. Babolin, Il movimento di Gallarate, cit., pp. 22, 24.
80 Che è il caso del Padovani, di cui dirà Battaglia che «nella neoscolastica aveva trasfuso una vena non saprei dire se di spiritualismo critico o di esistenziale pessimismo», cit., p. IX.
81 C. Giacon, La seconda scolastica, 3 voll., Milano 1944-1950.
82 Così I. Biffi, Filosofia neutra e teologia separata nella neoscolastica milanese, in La teologia italiana oggi, a cura della Facoltà Teologica dell’Italia settentrionale, Brescia 1979, pp. 271-305.
83 G. Santinello, Il pensiero cristiano del secondo dopoguerra, in La cultura filosofica italiana dal 1945 al 1980 nelle sue relazioni con altri campi del sapere, Atti del Convegno (Anacapri 1981), Napoli 1982, p. 274.
84 Cfr. su questi passaggi le pagine di E. Garin, Cronache di filosofia italiana (1900-1943), Bari 1955, pp. 447-461.
85 Cfr. A. Rigobello, Il problema della persona, in Il pensiero cristiano nella filosofia italiana del Novecento, a cura di E. Agazzi, Lecce 1980, pp. 81-102; G. Ferretti, Tematiche teologiche emergenti in alcuni autori rappresentativi del cosiddetto «spiritualismo cristiano», in La teologia italiana oggi, cit., pp. 307-355.
86 M.M. Olivetti, Gli influssi della tematica teologica, dell’esistenzialismo e dell’ermeneutica sul pensiero cristiano, in Il pensiero cristiano, cit. p. 131 (corsivo nostro), dove questa strategia è presentata in contrapposizione all’altra, della «frattura culturale» come condizione per quella stessa sopravvivenza del cristianesimo.
87 Analogamente P. Prini, La filosofia cattolica, cit., p. 161.
88 E. Castelli, Diari, Padova 1997, IV, p. 332. Ibidem, p. 303, anche questo frammento ‘gallaratese’: «Ho detto a Bontadini: – Perché non si è parlato del mondo come ne ha parlato S. Paolo? e S. Giovanni? – Mi ha risposto: – Perché qui è vietato parlare delle cose di Dio. – […] Allora mi è venuto sonno».
89 Cfr. su questo G. Giustozzi, Enrico Castelli. Filosofia della vita ed ermeneutica della tecnica, Napoli 2002, in partic. pp. 227-232. Diventato operativo nell’autunno del 1953, il Centro di documentazione (dal 1964 Istituto per le Scienze Religiose) di Bologna riuniva all’epoca attorno a Dossetti, con propensioni diverse, i giovani studiosi Angelina e Giuseppe Alberigo, Efrem Cerlini, Augusto Del Noce, Maria Gallo, Franca Magistretti, Bruno Minozzi, Paolo Prodi: cfr. D. Menozzi, Le origini del Centro di documentazione (1952-1956), in «Con tutte le tue forze». I nodi della fede cristiana oggi, Omaggio a Giuseppe Dossetti, a cura di A. e G. Alberigo, Genova 1993, pp. 333-369.
90 «Non crede più in un centro di documentazione. Credervi sarebbe ancora far credito ad una fenomenologia della denuncia. Non rimane che l’esperienza mistica, la preghiera, l’abbandono nelle mani della Divina Provvidenza, cioè l’azione del giorno per giorno. [...] L’avventura dell’ubbidienza è l’avventura della speranza. La storia degli errori gerarchici è corretta dalla storia di coloro che pregano, l’insecuritas dell’azione trova la sua securitas nell’invocazione»: Diari, cit., IV, pp. 137-138.
91 Gli Atti si leggono in una serie di 22 volumi dell’«Archivio di filosofia». Per una ricostruzione ragionata dell’esperienza cfr. M.M. Olivetti, I convegni romani sulla demitizzazione e l’ermeneutica (1961-1977), «Archivio di Filosofia», 1, 1979 (recante gli Indici degli Atti), pp. VII-XXX.
92 G. Giustozzi, Enrico Castelli, cit., p. 254.
93 M.M. Olivetti, Cristianesimo e filosofia nell’Università statale di Roma nel ’900, in La comunità cristiana di Roma, a cura di M. Belardinelli, P. Stella, III, La sua vita e la sua cultura tra età moderna ed età contemporanea, Città del Vaticano 2002, pp. 391-392.
94 M.M. Olivetti, I convegni romani, cit., p. XIII.
95 I. Mancini, Cultura della riconciliazione, «Il Nuovo Leopardi», 14, 1984, p. [25].
96 Del relativo gruppo di studiosi, solito riunirsi a Bologna in casa Bedeschi, erano parte tra altri Alfonso Botti, Rocco Cerrato, Maurilio Guasco, Annibale Zambarbieri.
97 Oltre a Mancini ne facevano parte il giusinternazionalista Alessandro Migliazza come presidente, l’italianista e novecentista Mario Petrucciani, lo storico delle religioni Dario Sabbatucci, e lo storico dell’arte Walter Fontana.
98 I. Mancini, Cultura della riconciliazione, cit., p. [26].
99 Per notizie ulteriori cfr. L’Istituto Superiore di Scienze Religiose “Italo Mancini” 1979-1999. Vent’anni di teologia nell’Università, a cura di S. Miccoli, Urbino 2000.
100 I. Mancini, Cristianesimo e cultura. Intervista a cura di Leo Lestingi, Lecce 1984.
101 Per un inquadramento generale di questa discussione, cfr. A. Aguti, Filosofia delle religioni moderne e contemporanee, in Dizionario del sapere storico-religioso del Novecento, a cura di A. Melloni, Bologna 2010, pp. 908-919.
102 I. Mancini, Filosofia della religione [1968], Milano 19995; cfr. A. Milano, Italo Mancini. L’ermeneutica della rivelazione, in Filosofia della religione. Storia e problemi, a cura di P. Grassi, Brescia 1988, pp. 363-391; cfr. inoltre, gli interventi di Grassi, Rigobello, Ripanti, Lo Surdo in Italo Mancini. Dalla teoresi classica alla modernità come problema, a cura di G. Crinella, Roma 2000.
103 Mancini ne parla per la prima volta, salvo errore, in Presenza, mediazione, paradosso, «Hermeneutica», 1, 1982, pp. 249-255; poi più per esteso in Id., Tornino i volti, Genova 1989, pp. 3-31 e passim.
104 S. Quinzio, Lettere agli amici di Montebello, Isola del Piano 1997, p. 25.
105 I due voll. di Lettere dal Monastero di Montebello uscirono in corrispondenza della Pasqua 1973 e dell’Epifania 1974.
106 G. Trotta, Intransigentismo, modernismo, apocalittica. Appunti sulla preistoria di “Diario profetico”, «Bailamme», 20, 1997, pp. 51-67, poi in Sergio Quinzio. Apocalittica e modernità, a cura di G. Trotta., Melzo 1998, pp. 11-30.
107 Gli Atti in Tempo e apocalisse, a cura di S. Quinzio, Milazzo 1985.
108 Vedine, con quelle di vari altri, le riflessioni e testimonianze in Gli Amici, A Guido Ceronetti e Sergio Quinzio, Urbania 1987.
109 Una ripresa e sistemazione dei materiali di quel seminario in W. Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola, M. Ranchetti, Torino 1997.
110 Cfr. i materiali raccolti in Chiese nella società. Verso un superamento della Cristianità, Torino 1980, con gli scritti, tra altri, di G. Alberigo e G. Miccoli; quindi quelli del Convegno su Forme e problemi attuali della Cristianità (Bologna 1983), «Cristianesimo nella storia», V, 1984, 1, pp. 29-166; infine la documentazione riunita in L’«officina bolognese», 1953-2003, a cura di G. Alberigo, Bologna 2004 (in partic. pp. 197-198).
111 «Bailamme, Rivista di spiritualità e politica» era diretta da Giovanni Bianchi e coordinata da Giuseppe Trotta. Migrarono dalle sue pagine in volume gli scritti di E. Benvenuto (Il lieto annunzio ai poveri, Bologna 1997, e Fede e ragione, Genova 1999), M. Tronti (Con le spalle al futuro, Roma 1992), S. Natoli (Gentile europeo, Torino 1989, I nuovi pagani, Milano 1995, Dio e il divino, Brescia 1999 ), R. Guarnieri (Una singolare amicizia. Ricordando don Giuseppe De Luca, Roma 1998), L. Muraro (Lingua materna scienza divina. Scritti sulla filosofia mistica di Margherita Porete, Napoli 1995), G. Trotta (Un passato a venire. Saggi su Sturzo e Dossetti, Melzo 1997).
112 C.M. Martini, La cattedra dei non credenti, Milano 1992, p. 7.