I cenacoli intellettuali/1: ricerca religiosa e crisi modernista
Proponendo panoramiche sue Riflessioni sulla cultura religiosa in Italia sul «Ragguaglio dell’attività culturale letteraria e artistica dei Cattolici in Italia» nel decennale del periodico e della Conciliazione (1939: sul discrimine dei 140 anni che ci separano da Porta Pia; e non solo questo, naturalmente), don Emilio Guano stilava, da operatore e osservatore di prima fila, un bilancio ponderatamente polemico. Registrava all’attivo una tradizione radicata e ramificata di studi storici anche locali, la voga recente delle ‘collezioni’ di classici purché non antiquiores, una prudente ripresa della critica biblica, perfino un insediamento extra moenia come la storia delle religioni. In senso opposto contabilizzava la cospicua incidenza della voce traduzioni sul totale dell’edito circolante; il prevalere dell’approccio erudito, e in genere di una produzione riservata al pubblico colto; soprattutto, lo stallo delle scienze teologiche, temi e testi, a livello sia speculativo cioè, che esegetico. A conclusione una sentenza, all’epoca si può dire già passata in giudicato, di «poca vitalità degli studi di religione e della cultura religiosa in Italia». Le ragioni, anch’esse ormai abbastanza ben stabilite, riandavano a «circostanze di storia religiosa» nazionale: anzitutto «l’assenza di stimolo polemico o bisogno di difesa», ossia di pluralismo religioso (delegato alla filosofia, di cui si rilevava infatti la vitalità recente, il confronto apologetico con la cultura laica); quindi un presunto «pacifico possesso della verità rivelata», quasi questa non avesse bisogno di «approfondimento positivo» anche in assenza di dispute e conflitti; a corollario, una «vita religiosa spesso troppo superficiale e formalista». Meno prevedibile questo ulteriore doppio ordine di fattori addotti: «troppo pochi nel clero italiano quelli che potessero dedicarsi e si dedicassero a una vita di studio metodico, costante, scientifico di problemi religiosi» (la memoria associa qui automaticamente le figure di don Giuseppe De Luca e di Giuseppe Dossetti: che carezzarono entrambi, e anzi mossero primi passi nel progetto di gruppi di consacrati e consacrate a un servizio di studio); e finalmente, «troppo staccata la massa del clero italiano dalla vita culturale del laicato, coll’effetto di rendere meno viva e attiva la cultura religiosa del clero, e meno religiosa la cultura dei laici». In controtendenza, frattanto, il Concordato, col riavvicinamento «[del]la cultura religiosa alla vita civile», quanto meno a quella officina che ne era la vita scolastica; la riforma degli studi ecclesiastici voluta da Pio XI; l’ascesa del movimento liturgico, con la possibilità di «una più cosciente partecipazione ai riti sacri» e la necessità per questo «di rimeditare i dogmi a contatto colla vita quotidiana»; da ultima, non certo per importanza, l’Azione cattolica, implicante anch’essa un nuovo «accostamento tra il clero e il laicato», e già allora impegnata in tutti i suoi rami in «uno sforzo notevole di cultura religiosa»1. Sono osservazioni, queste ultime in particolare, in cui appare più direttamente implicata la bella biografia intellettuale e spirituale dell’allora vice-assistente della Fuci, in una dialettica di affinità e distanze dal collega e conterraneo don Franco Costa, che insieme ad altre coappartenenze dialettiche coeve o successive (Siri e Lercaro caratteristicamente, Baget-Bozzo e Benvenuto più tardi), invita a ricordare qui, in limine a una mappatura pur parziale di circoli e circuiti intellettuali, quel singolare laboratorio che fu la Chiesa genovese, e in particolare il suo seminario diocesano negli anni dell’arcivescovo Dalmazio Minoretti.
Don Guano non mobilita qui, e non è strano, un elemento del quadro che, per esser presente molto per tempo al dibattito e alla pubblicistica non solo italiani2, non per questo è penetrato nel senso comune, nemmeno della sola popolazione colta. D’altronde, quando il Parlamento licenziò, appunto, la legge che aboliva le facoltà teologiche nel territorio del Regno (1873), gli studenti iscritti non erano ormai più di una dozzina su dieci sedi: una quantità che giustifica la qualità del dibattito registratosi nelle aule parlamentari, e anche fuori da esse, se si considera lo sprezzante assenso de «La Civiltà cattolica», peraltro nel momento di massimo attrito tra il nuovo Stato e la società perfetta. Siamo cioè al cospetto di un sintomo, o al più di un simbolo, d’un problema di più lungo periodo, che la nuova Italia ereditò e se possibile inasprì: consegnando, per così dire in guarentigia, al monopolio della istruzione e predicazione cattolica tutto il sapere religioso, e mostrandosi a esso semplicemente estranea, quando non violentemente allergica, nella propria componente laica; né il paesaggio si modifica rovesciando la prospettiva, focalizzando cioè sul processo di requisizione della verità religiosa all’autorità infallibile sancita dal Vaticano I, e sul disdegno accordato, lungo tutta la stagione intransigente e oltre, agli aspetti qualificanti del pensiero ‘moderno’. È uno stato di cose, e di rappresentazioni delle cose soprattutto, che malgrado sommovimenti anche non di superficie ha poi costituito di fatto una permanenza nei centocinquant’anni dell’Italia unita; e mentre non ha particolarmente giovato alla Chiesa italiana, di cui anzi ha contribuito a comprimere l’interna dinamica, anche coscrivendone il laicato su una tortuosa trincea politica (poco importa se dalla posizione iniziale di segregazione, o in quella di integrazione competitiva lungo la parabola del ‘Progetto storico’, o infine di emarginazione graduale, secondo le scansioni a prima vista riconoscibili; e senza pregiudizio per la ricchezza teorico-pratica di questa esperienza), corrispondentemente ha scoraggiato la formazione di una cultura religiosa come patrimonio di esperienze e conoscenze, di tensioni anche e di contraddizioni che, per elaborarsi dall’interno di una comunione determinata, non per questo fosse di meno retaggio comune a credenti di confessione diversa o di nessuna confessione, di altra o nessuna religione; e ciò, fino a derubricarne il problema stesso dalla coscienza dei più.
Si può ben dire che a questo problema esattamente, intese reagire quello sciame di relazioni e aggregazioni prevalentemente intellettuali che si usa ricomprendere alla voce ‘rinnovamento cattolico’, variamente intrecciato alla ‘crisi modernista’ a cavallo tra Otto e Novecento3; e che la condanna ecclesiastica, con la pronta solidarietà della cultura laica più accreditata, così che tertium non daretur, abbia determinato con la dispersione dei novatori l’arretramento e lo stallo di una figura diversa di sapere religioso. Di qui prende le mosse la presente ricognizione: assumendo cioè come il proprium di un cenacolo intellettuale (di cristiani in questo caso, ma appunto, non esclusivamente) l’esercizio di un sapere (religioso) di cui esso sia o si consideri titolare per competenza acquisita o maturata esigenza; esercizio s’intende libero, di preferenza agerarchico, condiviso in forme private o almeno ‘reservate’, ma le cui valenze essoteriche, in quanto volontà e capacità di incidenza o autotestimonianza all’esterno – per rapporto a un non-sapere ad esempio, o a un sapere già codificato –, vanno a comporne l’indice di significatività storica allo scrutinio di uno sguardo retrospettivo4. Il menzionato ‘rinnovamento’ ha del resto il non casuale vantaggio di coincidere cronologicamente con la nascita del moderno ‘intellettuale’ come figura pubblica, ossia come un agente sociale consapevole di sé e opportunamente organizzato entro il processo di formazione della opinione e della decisione collettive, in società almeno tendenzialmente di massa. Ciò non toglie evidentemente che qualcosa come una funzione intellettuale, del resto intrinseca a ogni forma di leadership, sia stata disimpegnata lungo tutto l’arco della civiltà; né che lo sia stata anche nei modi separati e ‘specializzati’ che, come è il caso del simposio/cenacolo, accompagnano si può dire l’intero sviluppo della sua storia, e quasi come un suo mito fondativo. Ma è appunto l’incrocio tra forme tradizionali di socializzazione intellettuale, da una parte, necessità inedite di organizzazione nello spazio pubblico dall’altra, a caratterizzare un secolo che ai suoi molti titoli ha visto aggiungersi quello ‘delle riviste’ ad esempio, o ‘degli intellettuali’. Andrebbe anzi ricontrollato su un simile quadrante storico e sociologico anche quel rapporto di simpatia e repulsione, concorrenza e collaborazione, che corse tra modernisti e ‘vociani’ ai prodromi della poi ricorrente figura di un ‘partito degli intellettuali’: un revenant che si evoca qui a segnalare la funzione o vocazione più direttamente politica (non escluso in qualche caso il terreno ecclesiale) di alcune di queste forme del sapere organizzato. Funzione che certo si appone o sovrappone quasi costantemente all’altra, più ristrettamente culturale; ma che qui si lascerà in ombra, anche a prezzo di qualche forzatura, per aderire alle pieghe di una controversia che ha visto non di rado, e talvolta anzi radicalmente, opposte tra loro le vie della cultura religiosa e dell’impegno politico, quello ‘centripeto’ in particolar modo.
Prima che specificamente intellettuali e cattolici, il sommovimento fin de siècle ha connotati sociali e spirituali più vasti e incerti, compendiabili come risorgenza del ‘problema religioso’:
«un’area di ricerca, libera in apparenza dalla ortodossia e soprattutto libera, o non immediatamente riconducibile, alla chiesa, un’area il cui confine non era dettato dai dogmi, ma dall’esperienza: problema religioso ed esperienza religiosa sembravano avere dimensioni più ampie della stessa fede e certamente della appartenenza confessionale. A questo campo, che appariva vastissimo potevano accedere tutti: uomini e donne, colti e sprovveduti, ricchi e poveri, ed esso era aperto alla filosofia, alla psicologia, anche alle scienze occulte: teosofia e spiritismo non erano immediatamente respinti, potevano anch’essi produrre frutto. Lo stesso sacerdote quasi sempre presente dove si discuteva di ‘religione’ smetteva l’abito dell’esorcista e del confessore e talvolta dava qualche notizia della disciplina arcani»5.
Del «cenacolismo di nuovo tipo o modernizzante che compare a Roma alla fine dell’Ottocento» a lato delle associazioni clericali, è stato compilato il seguente identikit:
«innanzi tutto la mancanza d’una direzione ecclesiastica che rende libera la discussione nella quale più che l’autorità gioca il peso dei valori scoperti nel dibattito; la noncuranza dell’ortodossia non come rifiuto di essa ma come condizione alla ricerca della verità attraverso le personali esperienze o i singoli apporti; un grande irenismo verso posizioni religiose non necessariamente confessionalistiche; un’attitudine al lavoro di gruppo; infine un bisogno realizzatore che porta poi a un impegno sentito e partecipato da tutti nonostante le differenze ideologiche»6.
La stilizzazione pare ricalcata sull’esperienza dell’‘Unione per il bene’, l’associazione sorta in casa della scrittrice valdese Dora Melegari nel 1894 sulla suggestione dell’Union pour l’action morale del filosofo Paul Desjardins, e domiciliata per le incombenze organizzative, tra le quali la redazione del foglio «L’Ora presente» (1895-1897), nel mezzanino di largo Arenula dove era l’abitazione di Antonietta Giacomelli. Questa ne riferirà nel diario romanzato A raccolta (1899) e ne tradurrà l’esperienza a Venezia e poi a Milano, qui intorno a Contardo Ferrini e al periodico «In cammino» (1900-1904). Dopo la sua partenza da Roma alla fine del 1897, le riunioni continueranno per qualche tempo in casa di Giulio Salvadori, con un più accentuato carattere di meditazione biblica, il padrone di casa spiegandovi i vangeli festivi, Luigi Costantini le lettere paoline, primi laici a farsi esegeti e divulgatori del testo sacro, anche con il parallelo sodalizio degli ‘Operai della parola’ eretto insieme all’ingegnere Aristide Leonori. Tra i membri dell’Unione, la cui lista si allungherebbe per diverse decine di nomi, compaiono uomini di chiesa, in particolare il sacerdote umbro don Brizio Casciola e il giovane barnabita Giovanni Semeria, la cui ordinazione a Roma nel 1890 sembra coincidere con l’avvio del moto di rinnovamento; studiosi di vario orientamento come De Gubernatis, Petrone, il lombrosiano Sighele, il giovane de Sanctis, e uomini politici quali i parlamentari Luzzatto e Canonico; inoltre militari, professionisti, studenti, ospiti di passaggio come Antonio Fogazzaro e Paul Sabatier e infine, ma non per rilievo, alcune altre signore, tra esse più tardi la lituana Eva Kuhn, il cui marito Giovanni Amendola rievocherà l’associazione come ambiente ove «circolava certamente uno spirito religioso superiore a quello che ordinariamente si trova in Italia»7.
Tutto appare significativo di questo precoce crogiolo. La preminenza dei laici anzitutto, e tra i laici, delle donne. Ma non più secondo i circuiti della tradizionale sociabilità femminile, com’è ancora il caso, tra altri esempi possibili, delle ‘recensioni parlate’ di libri d’attualità religiosa allestite a scadenza fissa dalla marchesa Maddalena Patrizi per le ospiti del suo salotto, relatori alternativamente don Brizio e don Faberj; ciò che vale comunque da indizio di un proselitismo numeroso e poco appariscente, ‘conduttore’ tra i più efficienti è da credere, nello spazio e nel tempo, delle nuove correnti di sensibilità religiosa – insieme col clero giovane delle regioni già pontificie, ma di esso ben più difficilmente controllabile8. D’altra parte, non saranno state solo esigenze di copione a far sì che, assenti dalle riunioni di piazza Rondanini in casa del giornalista Pio Molajoni (1899-1907), di taglio più ‘ideologico’ e ormai quasi cospiratorio9, le signore vi venissero reintegrate dal buco della serratura nella trasfigurazione datane da Antonio Fogazzaro con le ‘catacombe’ di via della Vite del suo Santo10. Nell’‘Unione’ l’elemento femminile ha piuttosto un ruolo di trascinamento, evidente soprattutto in quel primato della preoccupazione pedagogica, cui certo condiscendevano anche insegnanti come Salvadori e Costantini, e per specifico carisma i padri barnabiti, ma che avrebbe ricevuto una risposta teorica e pratica coraggiosamente innovativa da parte di una Alice Hallgarten, amica e alleata di Maria Montessori, una Pezzè Pascolato, attiva nell’Unione veneziana, o una Adelaide Coari, erede a Milano dell’attività della Giacomelli11. Di quest’ultima è appena il caso di anticipare, qui, l’impegno per l’istruzione religiosa testimoniato dal suo manuale liturgico Adveniat regnum tuum12.
Vien fatto di associare a questi nomi, come per affinità elettiva, quello di don Brizio, l’apostolo itinerante nella cui figura si richiamano e si confondono il Benedetto del romanzo di Fogazzaro, il Francesco rivelato a un’intera generazione da Paul Sabatier, il Tolstoj che ispira molte delle sue comunità educative. Il rapido turn over delle quali, in varie zone d’Italia, unito al fascino della testimonianza e predicazione di lui, e alla sintonia privilegiata con l’animo femminile appunto, fanno sì che «non si [sia] lontani dal vero dicendo che la sua presenza compare misteriosamente ovunque c’è un nucleo di coscienze pensose»13. Il ruolo di don Brizio nell’Unione emerge da un suo appunto autobiografico: «tra il ’95 e il ’96 ci raduniamo in casa Melegari. Dopo un bel discorso di L. Luzzati, io prorompo: “Dunque facciamo qualcosa”»14: donde si evince anche come, quantunque ‘per il bene’, l’Unione non avesse per sé propositi pratici troppo ambiziosi. Ma l’intervento che nacque da quella battuta di don Brizio, seguita dal suo trasferimento fisico sul posto, portò al risanamento autogestito il quartiere dei ‘buzzurri’ di recente immigrazione nella capitale, ammassati sulla Tiburtina in condizione abiette (lo stesso quartiere S. Lorenzo da cui partì, qualche anno dopo, l’esperienza montessoriana degli asili). Seguì la colonia agricola (e vegetariana) sulla Flaminia per gli orfani e gli sbandati del quartiere, con l’aiuto determinante della Hallgarten15, e poco oltre (1902), lo «scandalo enorme» che lo costringerà a lasciare Roma, quando a Monte Mario, con un gruppo di amici, don Brizio diede vita a «una specie di cenobio misto, interconfessionale, di uomini e donne, una Colonia tostoiana»16, di spirito anarchico-cristiano.
Ma la componente interconfessionale, e quindi lo svincolamento dall’autorità ecclesiastica, erano una vocazione nativa per l’Unione; sicché è da chiedersi per quali vie dei cattolici vi fossero acceduti. Sarà qui da ricordare il circolo San Sebastiano, fondato verso la fine degli anni Ottanta da Francesco Faberj non ancora sacerdote, Filippo Ermini poi valente medievista, don Ruggero Rossetto primo assistente ecclesiastico17. Organizzava l’intelligentsja cattolica anzitutto universitaria, secondo un proposito di testimonianza culturale che accoglieva il moderno inquadramento dei saperi e schivava le questioni politiche; in tal senso, sia la Fuci di Romolo Murri, che ne rampollò direttamente verso la metà degli anni Novanta, sia la ‘Società cattolica italiana per gli studi scientifici’ del Toniolo, che ne raccolse il testimone alla fine dello stesso decennio, ne tradivano in parte l’eredità. Certamente l’ispirazione del circolo era quella leonina di presenza e presidio sociali generalizzati da parte cattolica ma, come suggeriva il santo della dedicazione, l’apertura all’ambiente declinava qui ogni carattere polemico o conquistatore: «raccoglimento per intanto; autopreparazione umile, assidua» secondo la testimonianza di padre Semeria18, esponente di una generazione post-risorgimentale ormai, per la quale Porta Pia o il non expedit erano soprattutto eredità ingombranti. Anima del circolo il laico Giulio Salvadori, letterato di buona reputazione allora già quasi trentenne, tornato alla fede nel 1885 dopo aver attraversato, anche interiormente, lo sparigliamento delle identità promosso dal giornalismo sommarughiano, della «Cronaca bizantina» ad esempio, di cui era stato protagonista coi coetanei D’Annunzio e Scarfoglio; e avendone contratto, con l’abito di terziario francescano, e un qualche anticipo sul clima del Giovanni Episcopo o del Poema paradisiaco, un contravveleno di pudore, di mitezza quasi penitenziale nell’esercizio della parola pubblica19. Di casa Salvadori, ove si tenevano «le più belle sedute del Circolo S. Sebastiano» Semeria ricorda che fu «durante quel quinquennio [1890-1895] [...] meta costante per parecchi mesi invernali-primaverili, di un convegno domenicale dei più bizzarri e interessanti», dove «religione, filosofia, arte, politica grande e politica spicciola, Parlamento, Ministero, giornalismo, tutto veniva sul nostro tappeto». Erano presenti anche Giuseppina e don Enrico Salvadori, e tra gli assidui il padre Paolo Savi pure barnabita, Francesco Maria Pasanisi passato poi al protestantesimo, due terziari francescani di particolare prestigio quali il marchese Filippo Crispolti, all’epoca caporedattore de «L’Osservatore romano» nonché autore del discusso Il laicato cattolico (1890), e la predetta Giacomelli, pronipote di Rosmini, già molto nota come scrittrice dopo l’esordio con Lungo la via (1889); tutto ciò «avendo parecchi dei convenuti, non tutti, le stesse fondamentali convinzioni religiose»20.
È questo il gruppo che di lì a poco aderirà compatto e animerà l’‘Unione per il bene’, della parallela esperienza francese accogliendo, si può congetturare, l’avvertimento di una diversa ma in parte analoga crisi nelle ragioni ultime della convivenza civile, e l’esigenza d’una rigenerazione di essa radicale, che mobilitasse a fondo le risorse dell’interiorità e insieme riconvertisse in senso solidaristico una matrice liberale che, sotto questa duplice pressione, veniva colorandosi di un marcato spiritualismo21. Il soggiacente ‘primato della ragion pratica’ incoraggiava a fare appello agli uomini di buona volontà senza pregiudizio delle diverse persuasioni religiose, o anche non religiose, con la benedizione di Leone XIII tra l’altro22, e in più con l’intuizione di un orizzonte di comunione possibile al di là dei confini confessionali: al quale avrebbero avvicinato tanto una religiosità purificata e interiorizzata (il Bulletin della casa-madre diffondeva le prediche di dom Huvelin e i propos del pastore Wagner, oltre alle speculazioni del ‘simbolista’ dom Hébert) quanto un ‘libero pensiero’ rimasto estraneo al materialismo (oltre al Desjardins, val la pena di ricordare almeno il Lagneau, maestro di Alain). L’insegna dichiaratamente pratica dell’’Unione per il bene’ incrociava in tal senso l’allentamento in corso del Kulturkampf e d’altra parte l’emergenza impetuosa della ‘questione sociale’, a breve distanza dalla Rerum novarum: si collocava cioè alla frontiera più avanzata di quel possibile accordo tra forze conservatrici di fronte alla minaccia dissolutrice della modernità industriale e del movimento operaio in essa, che è parte non infima degli osservati sommovimenti tra identità ideologiche già contrapposte23. Ma in certo modo cercando di spostare la linea del fronte, tentando la via di una rifondazione ben più che della mera conservazione; di una rilegittimazione morale e democratica del giovane Stato piuttosto che di delegittimazione di esso dal basso; di un’infusione a lievito dello spirituale nel temporale piuttosto che di confusione o sovrapposizione dei piani, giusta l’ottica intransigente.
Così, quel che a Parigi era il tentato connubio di Kant col Vangelo, rito romano si celebrava tra Mazzini e san Francesco24: matrimonio precario, ma gravido di discendenza. Onde sarà forse pertinente ma non penetrante, quanto all’umanitarismo dell’Unione, il sottolinearne certa arretratezza rispetto agli standard dello stesso cattolicesimo sociale in regime di intransigenza, oltreché del mutualismo socialista; e per contro, la contiguità a un filone cattolico-liberale di misericordia borghese25. Perché è un’istanza di perfezionamento spirituale, personale e di gruppo, a muovere queste anime privilegiate, e a far dir loro consuntivamente di aver voluto ‘riformare se stessi piuttosto che il mondo’; ed è un proposito educativo, di «bonifica morale e religiosa» soprattutto, a indirizzarli verso i loro beneficati26, certo in vista di riscattarne l’umana dignità e renderli, anche, parte attiva e responsabile del consorzio civile: ma in una diffidenza previa per l’azione direttamente politica, sentita come astratta e paralizzante, tanto quanto per una elaborazione intellettuale non destinata. Si può anzi anticipare come, giusta il motto del Semeria: «a far del bene non si sbaglia mai», una delle vie di esodo dalla grande ‘crisi’, ricalcherà queste piste primitive del movimento, ad esempio nella adesione dei ‘rinnovamentisti’ milanesi alla ‘Associazione per il Mezzogiorno’ di Umberto Zanotti Bianco e Giovanni Malvezzi, nata in corrispondenza col terremoto di Messina; o dopo la guerra, all’‘Opera nazionale per il Mezzogiorno d’Italia’ promossa dallo stesso Semeria con don Giovanni Minozzi27: esperienze incubatrici, queste, di molte altre ‘minoranze etiche’.
All’altro capo dello stesso ‘rinnovamento’, ma anche in questo caso a debita distanza dal fortilizio della teologia razionale, era il rilancio della scienza e della cultura bibliche. Su questo terreno di teologia positiva è possibile censire un grappolo di iniziative rivolte a ventaglio da un interlocutore almeno in parte specializzato, interno al clero (anzitutto con gli «Studi religiosi», la «Rivista critica e storica promotrice della cultura religiosa in Italia» del fiorentino don Salvatore Minocchi, 1901-1907)28, al pubblico laico selezionato, ma anche relativamente indifferenziato, cui si indirizzano le ‘scuole di religione’ (a Roma, palazzo Altieri, per iniziativa di Salvadori, Faberj, Semeria, don Brizio29; a Genova tra 1897 e 1907, presso i padri barnabiti, per volontà di Semeria30 e Ghignoni), fino al destinatario di massa quale intendeva raggiungerlo un’edizione popolare dei Vangeli diffusa al prezzo ‘politico’ di venti centesimi: a rischio, cioè, di trovarsi «sulle bancherelle delle fiere insieme a Barbanera», secondo l’iniziale malumore del vecchissimo Leone XIII31.
In Roma un ‘movimento biblico’ aveva già un discreto retroterra, da quando nel 1889, quattro anni innanzi la Providentissimus Deus, era stata fondata la ‘Società per gli studi biblici’, sul presupposto di una piccola cerchia di amici raccolti per lo studio delle lingue orientali intorno a Orazio Marucchi, il direttore del Museo egizio vaticano docente anche al Seminario romano; cofondatore e primo presidente monsignor Isidoro Carini, chiamato nel 1884 all’Archivio segreto vaticano da poco aperto agli studiosi. Le attività accademiche consistevano in ‘tornate’ addette alle comunicazioni dei membri e dei corrispondenti, per lo più celebrate in ambienti del Vicariato, e in conferenze pubbliche «lette in una sala in via Tata Giovanni 20 […] frequentate non solo dai cattolici più eruditi, ma anche dai protestanti». Nei primi anni «furono naturalmente dominate dalle personalità di archeologi e storici, quali De Rossi, Marucchi, Cozza-Luzzi e Carini»32, ove notevole è soprattutto il primo nome, un decano dell’erudizione vaticana ammirato in tutta Europa come archeologo cristiano ed epigrafista latino. Nel 1892, introdotti probabilmente da Faberj appena ordinato sacerdote, ora in forze al Vicariato e segretario della Società, vi troviamo i giovani Savi e Semeria, formatisi allo studentato barnabita di indirizzo teologico-positivo appunto, e poi nell’università laica sotto il magistero di Beloch, Monaci, Guidi. Il primo dei due, allievo prediletto di De Rossi, ricordato dal compagno di studi Gaetano De Sanctis come «il solo ecclesiastico che capisse veramente il valore della critica e sapesse servirsene con mano sicura»33, frequentava anche il villino di via Ludovisi ove, dal 1891, soggiornava in Roma il barone anglo-austrico Friedrich von Hügel, che attraverso di lui «estendeva la sua influenza sui giovani barnabiti da Semeria a Ghignoni a Madonnini»34. Quest’uomo, che per dignità di sangue, ampiezza di conoscenze e relazioni in tutto il continente, oltre che per religiosità personale e serietà di studi, fu consacrato più tardi, da Paul Sabatier, «vescovo laico dei modernisti» – e attorno a quest’uomo quella sorta di seminario biblico che si teneva a casa sua la domenica pomeriggio all’ora del tè, erano diventati centro di irradiazione della nuova scienza, e ancor più, di prima alfabetizzazione alla riflessione teologica e filosofica che in rapporto a quella venivano svolgendo Loisy, Blondel, Laberthonnière in Francia, Tyrrell in Gran Bretagna. Tutto ciò aiuta a immaginare il ruolo dinamizzatore di Savi e Semeria all’interno della Società biblica, ascrivibile sia ai loro interessi scientifici, portati direttamente sul testo sacro, sia alla consapevolezza degli sfondi teologici tratti in questione, sia infine alla capacità di coinvolgere un pubblico più ampio del tradizionale circuito erudito (il pubblico della prima, sperimentale scuola di religione, che essi venivano organizzando al loro convento di via dei Chiavàri, o delle prediche del secondo dei due in S. Carlo ai Catinari, all’inizio di una straordinaria fortuna oratoria).
Più avanti, scomparsi molti degli iniziatori, il cardinale vicario monsignor Parocchi credette poter rilanciare la Società valendosi di un uomo appena rientrato in Roma (1897) dai lunghi soggiorni missionari e di studio in Oriente, il padre Giovanni Genocchi dei Missionari del Sacro Cuore. Ma la conferenza che questi accettava di tenere per conto della Società nel febbraio 1898 Sul presente stato degli studi biblici: il Pentateuco35, con l’esposizione e la difesa delle tesi sostenute da von Hügel e dal padre Lagrange al IV Congresso scientifico internazionale cattolico di Friburgo (la distinzione e non-contraddizione tra lavoro critico sul testo biblico e fedeltà alla dottrina dell’ispirazione, esemplificate sul Pentateuco e sulla non autenzia mosaica di esso), provocava ipso facto le dimissioni di vari membri; e «in una seduta successiva le discussioni furono tanto accese che il presidente, cardinal Parocchi, credette opportuno aggiornare i lavori e la “Società per gli studi biblici” praticamente ebbe fine»36. Si sarà forse giudicata inopportuna la sede pubblica di quella comunicazione, o addirittura incompatibile la problematica sollevata con le premesse culturali su cui riposava il sodalizio. La grande erudizione ecclesiastica fioriva allora, e sarebbe fiorita in seguito, magari tormentosamente, fino a De Luca, al riparo di un presupposto ultimamente concordista, per il quale la verità è una, e la verità è Cristo, e non c’è mestier lusinghe di apologetica, vecchia o nuova37. Forzare dall’interno, quotidianamente e millimetricamente, quel paradigma si poteva; metterlo in discussione, no: lo dimostra la rimozione di Genocchi dall’insegnamento di Sacra Scrittura all’Apollinare, affidatogli e sottrattogli dal papa nel giro di un anno accademico (1897-1898), dietro insinuazione di fonte gesuitica che quell’insegnamento, addirittura, ‘scristianizzasse’ la gioventù.
Archiviata la Società biblica, rientrato a Genova Semeria e a Venezia la Giacomelli, assente per lunghi periodi il barone dalla scena romana, ‘centro di raccoglimento’ – secondo si esprime Minocchi – dell’intelligenza riformatrice non solo locale divenne, sull’estremo scorcio dell’Ottocento e poi nel nuovo secolo, la casa dei Missionari del Sacro Cuore in via della Sapienza 32, dirimpetto alla regia università – o, semplicemente, ‘la Sapienza’, cioè l’indirizzo di padre Genocchi. Le fonti convergono nel rappresentare il refettorio e la biblioteca dei Missionari quasi come una Curia parallela, per nulla protocollare, in cui senza orari inviti programmi si teneva una sorta di seminario permanente: alti prelati in trasferta diplomatica presso il Vaticano vi si mescolavano a giovani sacerdoti inquieti, studiosi ai vertici del prestigio internazionale vi incrociavano studenti dell’università governativa in cerca di testi reperibili solo dall’altra parte della strada; vi diede un passo persino Roosevelt, nell’universale costernazione di Roma. «Conversazione improvvisata e libera di uomini vivaci», ha efficacemente sintetizzato il Bedeschi,
«su motivi del giorno riguardanti la vita della Chiesa; atmosfera fraterna nella sala della biblioteca alla presenza di quasi tutta la comunità, studenti e superiori; analisi spregiudicate e linguaggio critico; tematica varia ma sempre orientata al rinnovamento culturale e spirituale; trattamento democratico per cui ognuno si trova a proprio agio e nessuno si impanca a maestro; clima affettuoso che induce agli sfoghi fraterni o alle “causeries”, come le chiama Sabatier, contro le deprecate intransigenze ufficiali. Houtin ha definito tale cenacolo spontaneo “un foyer permanent de libéralisme religieux” e sembra la definizione più giusta […]. A dare il tono a quegli incontri era la personalità genocchiana (il “Mago”) che si ergeva su tutti per esperienza di vita, saggio equilibrio, competenza culturale, conoscenza di lingue, lealtà di rapporti e spirito religioso»38.
Certo era la personalità di un intellettuale, quanto misurato e discreto, altrettanto raffinato e complesso39, cui gli studi biblici avevano ispirato una idea di ‘storia della rivelazione’ quanto mai remota dal ‘fissismo’ della teologia ‘romana’; di una «pedagogia divina – cioè – che lo Spirito Santo esercita nell’umanità elevandola fino a portarla alla pienezza della rivelazione e della vita spirituale in Gesù Cristo e che egli continua ancora nella Chiesa»40; ciò che, coerentemente, lo animava di spirito missionario verso l’organismo ecclesiale nel suo insieme e ai diversi livelli.
È proprio alla convergenza di scienza biblica e apostolato che l’azione del Genocchi si precisa e si mostra nella sua potenziale incidenza: in particolare, con la detta iniziativa di una versione popolare dei Vangeli criticamente aggiornata, in una duplice ‘dissacrazione’, linguistica e scientifica, che traduceva un disegno complessivo di riforma della pietà cattolica. Quel progetto era nato alla sua tavola, nell’ottobre 1900, quando un sacerdote di ritorno dalla Prussia, don Giuseppe Clementi, ebbe a narrare l’episodio che gliene ispirava la proposta:
«mi accorgevo che quei rozzi pastori ed agricoltori facilmente intramezzavano nel loro linguaggio abituale, frasi tratte dalla Bibbia e specialmente dal Vangelo. Così uno dei questi, mentre spingeva i suoi buoi aggiogati, sentivo incitarli al lavoro con queste parole: Su – e chiamava per nome le bestie – perché non chi ha incominciato a metter mano all’aratro e a tracciare il solco, ma chi l’avrà terminato, godrà la ricompensa. Tutto quello era bello e mi faceva pensare per contrasto ai nostri poveri operai, abbandonati, senza un’idea religiosa e attanagliati in una crassa trascuratezza»41.
A distanza di una settimana, grazie a una somma messa a disposizione dal commensale don Giovanni Mercati allora Scrittore presso la Vaticana, il progetto era esecutivo: la traduzione a Clementi, che l’avrebbe condotta sul testo della Volgata e sull’originale greco, secondo una nobile tradizione specificamente italiana42; l’annotazione a Genocchi stesso, che riuscirà a sposarvi «l’ultima parola della scienza con la semplicità dei fanciulli», secondo un giudizio ammirato e sorpreso corso tra le due sponde dell’Atlantico43; il lavoro redazionale all’altro missionista padre Giuseppe Valdambrini, con gli indici, e tra gli indici quello dei lezionari romano e ambrosiano, per servire da strumento di partecipazione al culto cattolico. Poi, per strada, la pregevole prefazione di Semeria, che riconosceva nei Vangeli «una vetustissima predicazione ecclesiastica», ricongiungendo in tal modo le ‘due fonti della fede’ – Scrittura e tradizione – di fatto separate nella vigente teologia dogmatica44 così come, per altra via e con opposto segno, e soprattutto in forma inescusabilmente esplicita, nel Loisy degli imminenti ‘libretti rossi’; infine, la revisione del Maestro del Sacro Palazzo, il domenicano monsignor Alberto Lepidi, che sull’altare di questa iniziativa, cui prese parte appassionata, sacrificherà la propria carriera ecclesiastica. Ultimata nel maggio successivo, ma rallentata dall’inframmettenza dei gesuiti, capaci di imporre una doppia ulteriore tornata di revisioni, l’opera sarebbe stata messa in distribuzione nel maggio 1902, raggiungendo alla fine dello stesso anno le cinque edizioni e le 150.000 copie vendute. Saranno venti milioni nel 1950: ciò che dimostra, anche, quanto poco possa la sola diffusione di un libro in assenza del contesto di recezione pertinente. Previamente consapevoli di ciò, i promotori avevano subito affiancato una ‘Biblioteca scritturale’, con testi di pietà calibrati sui diversi ‘stati di perfezione’ e redatti su base rigorosamente biblica, a firma di prelati illustri quali Ferrari, Scalabrini, Capecelatro.
La proprietà letteraria, la distribuzione, la scelta delle strategie editoriali e commerciali (ad esempio, già nel 1902, la decisione di pubblicare a parte il Vangelo di Matteo al prezzo di 5 centesimi) spettavano alla ‘Pia Società di san Girolamo per la diffusione dei Vangeli’ all’uopo fondata il 27 aprile di quell’anno presso la Segreteria di Stato – la sede operativa essendo ubicata naturalmente in via della Sapienza –, presenti i fondatori: il cardinale Mario Mocenni, presidente d’onore (sostituito dopo la sua scomparsa nel 1904 dal cardinale Francesco Cassetta), monsignor Giacomo Della Chiesa, allora sostituto alla Segreteria di Stato, presidente effettivo (dal 1914 monsignor Federico Tedeschini); i padri Genocchi, Lepidi, Adolfo Conrado (somasco), i sacerdoti Clementi e Mercati (quest’ultimo segretario, ma rilevato in tale ruolo dal Valdambrini l’anno successivo); inoltre Edmondo Puccinelli, Maestro di casa del papa, Giovanni Pasquale Scotti, direttore della tipografia vaticana, Bartolomeo Nogara direttore del museo vaticano etrusco; infine Francesco Donati e Ferdinando Federici. Sono uomini di chiesa e di curia, come si vede, in uno spaccato che dal sacro collegio digrada fino all’officina tipografica e agli uffici di computisteria, e mostra un orientamento interno alla chiesa leonina all’atto di organizzarsi sotto forma d’associazione di scopo, con una plancia di comando Oltretevere e quasi duecento terminali diocesani. Si riunirà per 53 ‘adunanze’ mensili fino al gennaio 1908 quando, in un clima tesissimo di lotta contro l’eresia di tutte le eresie, la partenza del presidente effettivo per l’arcidiocesi di Bologna lascerà il sodalizio facile preda dell’intimidazione inquisitoriale, determinandone la pratica dissoluzione; mentre l’elevazione dello stesso Della Chiesa al soglio pontificio nel 1914, se comporterà una discreta ripresa d’iniziativa, non potrà resuscitarne lo spirito ormai spento.
La crisi era esplosa nell’ottobre del 1906 con una lettera di Pio X che esigeva il trasferimento della sede da via della Sapienza «per ragioni imperiose» che facilmente si indovinano, e soprattutto la limitazione dell’attività libris vulgandis Evangeliorum solis. Il papa non poteva e non voleva proibire il Vangelo, reso edotto dalla sua esperienza pastorale del fatto che
«quando si racconta al popolo la storia evangelica tutti stanno attenti e ne ricavano profitto. Se il predicatore non racconta bene il fatto storico o la parabola nei più minuti particolari, per quanti o quanto dotti commenti ci faccia poi sopra, la gente dirà: È un predicatore che non sa bene il Vangelo e non vale niente»45;
il che, se vendica l’onore della cultura religiosa veneta rispetto a quella brandeburghese, spiega anche quali fossero le mediazioni e destinazioni sottintese; e perché il vangelo della Pia Società – storpiato e fin stravolto negli apparati dagli interventi del Sant’Uffizio – dovesse in seguito circolare col Catechismo in allegato, cioè col suo opposto, il testo non sacro che nei secoli aveva prudenzialmente soppiantato l’altro. Col catechismo, e non con i testi della ‘Biblioteca scritturale’, soprattutto non con l’Adveniat regnum tuum, uscito (anonimo, ma di Giacomelli) in tre volumi nel 1904, e seguito l’anno dopo da un Libro di preghiere per la gioventù recante tra l’altro la prima versione italiana dell’ordinarium Missae. Questa sorta di ‘manuale del cristiano’ conteneva istruzioni di scienza liturgica e sacramentaria, preghiere rituali e brani scritturistici voltati in italiano, altre preghiere private tolte dalle Scritture e proposte per le diverse condizioni e situazioni di vita. Si ispirava a un ideale di loghiké latrèia che prescriveva sobrietà e consapevolezza nel ‘culto interno’ ed esigeva il suo prolungamento in un ‘culto esterno’, cioè la riplasmazione della vita religiosa secondo carità e giustizia. Il ritorno alla Scrittura come fonte di una ‘tradizione vivente’, l’ecclesiologia pneumatica e la relativizzazione dei confini giuridici delle confessioni di fede in ordine alla salvezza ultraterrena, l’interpretazione essenzialmente morale della liturgia erano quanto poteva allarmare il censore ecclesiastico; ma probabilmente meno che la vicinanza dell’autrice a Murri e alla Lega Democratica, nel cui entourage il libro era oggetto di diffusione militante. Verrà iscritto all’Indice nel 1912.
Una seconda generazione di novatori, nati intorno al 1880, si affaccia alla ribalta del nuovo secolo nella fase propriamente controversistica del movimento, tra la prima condanna di Loisy (1903) e la promulgazione della Pascendi (1907). È probabilmente questa accelerazione storica, entro cui si compie, dispari alla bisogna, la loro adolescenza, ad accentuarne i caratteri e le interne differenze, che vengono polarizzandosi su base territoriale (la Milano del profitto e della rendita, la Roma politica ed ecclesiastica), sociale (con l’estrazione per lo più altolocata dei lombardi), ecclesiale (condizione di laici degli uni, ‘cricca di pretini’ gli altri); e che tratterranno entro un perimetro moderato, nel solco dell’eredità cattolico-liberale, o spingeranno su posizioni estremizzanti, fino alle soglie di un ‘socialismo cristiano’.
Del gruppo promotore del «Rinnovamento» (1907-1909), i patrizi milanesi Tommaso Gallarati Scotti e Alessandro Casati avevano studiato a Genova, il primo dei due ancora con Francesco Ruffini; vi avevano potuto frequentare la scuola di religione dei barnabiti alla Salita degli Armeni e conoscere von Hügel, allora impegnato nei suoi studi su santa Caterina dei Fieschi. A Genova, qualche anno dopo, si erano parimenti formati i poco più giovani Stefano Jacini e Antonio Meli Lupi di Soragna, entrati anch’essi nella cerchia di Semeria e poi nel gruppo redazionale; dalla Liguria era invece salito a Milano Giovanni Boine, per gli studi all’Accademia scientifico-letteraria in cui avrebbe avuto maestri Volpe e Martinetti (autori entrambi sul periodico), e per compagni Banfi e Rebora. Milanesi erano Uberto Pestalozza e Giuseppe Gallavresi, e di famiglia lombarda il terzo dei condirettori Antonio Aiace Alfieri, «natura attivistica e tecnica»46: nato a Roma, lo aveva introdotto nell’‘Unione per il bene’ don Brizio, e ricondotto al cattolicesimo Giacomelli. Giacomelli e don Brizio erano ora agente catalizzatore, nell’ambiente milanese, di un’area di inquietudine religiosa distribuita in molti salotti, e solita raccogliersi la domenica in S. Alessandro47; nel ristretto cenacolo che qui si riuniva in «modernistiche chiacchierazioni» (Boine) attorno al barnabita padre Piero Gazzola dopo la funzione, quei giovani avrebbero attinto, se non direttamente l’ispirazione, certo un viatico appassionato alla loro impresa: proibita a quest’uno come a molti altri religiosi dai vincoli disciplinari ed economici che venivano soffocando gli aneliti riformatori del clero. Altrettanto generosi di incoraggiamenti erano i ben più maturi Fogazzaro, Sabatier, von Hügel, quasi che i loro pupilli, perché giovani e dotati, fossero al riparo dalla disciplina ecclesiastica cui si proclamavano ossequienti. Così questo gruppo di laici, nessuno dei quali aveva passato i trent’anni ad eccezione dell’umbratile Pestalozza, primo sodalizio di intellettuali ‘puri’, seppur tali più per vocazione che per professione, scese a battaglia culturale e religiosa nella società e nella Chiesa, assumendo pubblicamente questa come la propria Lebensaufgabe: tale risulterà in effetti, malgrado la breve durata e i contraddittori sviluppi, nel consuntivo delle rispettive biografie. D’altronde, abituati a considerare prerogativa di nascita l’attività politica nei ranghi dell’elite dirigente, essi, alcuni di essi in particolare, erano tuttavia politicamente isolati, come bene ha messo in evidenza Jemolo. Cattolici e liberali per tradizione o per legame familiare, estranei alla dimensione di partito pur nell’adesione eventualmente octroyée alla Lega democratica nazionale, ostili all’evoluzione in senso conservatore e bellicista del superstite conciliatorismo, ma avversi anche al giolittismo per motivi soprattutto morali, «facevano parte di per sé, anche per quell’accentuazione del lato religioso che [...] aveva così esiguo posto nelle considerazioni dei partiti e dei gruppi politici italiani»48. In seguito avrebbero ben figurato al servizio della patria nei comandi militari, nell’astensione virtuosa dal regime fascista, nella carriera diplomatica; e questa alleanza giovanile resta la sola forma loro di militanza organizzata.
All’origine sta la presa di consapevolezza del fatto che la chiesa di Pio X, con un dispositivo strategico rovesciato rispetto alla stagione leonina, sceglieva di normalizzare la sperimentazione sociale e culturale tra le proprie file, onde presentarsi più forte e compatta all’appuntamento politico dell’alleanza coi moderati. «Di questa trasformazione», scrive Gallarati Scotti nel primo numero del «Rinnovamento»,
«possiamo trovare il migliore degli indici nella Civiltà Cattolica, la quale ha saputo con una abile metamorfosi mutare la sua intransigenza politica in intransigenza religiosa, diventando mite come per incanto cogli “usurpatori” e severa cogli “intellettuali”. D’altra parte la cultura nelle cose religiose è così scarsa in Italia, che è ancora possibile una mutazione radicale di indirizzo nella Chiesa senza che la maggior parte degli stessi uomini colti se ne accorga»49.
A questo stato di cose il «Rinnovamento» reagisce secondo la convinzione, sintetizza il Bedeschi, «che non si può dare una coscienza politica autonoma ai cattolici se prima non si dà loro quella religiosa in grado di saper criticare e magari disobbedire alle disposizioni ecclesiastiche»50, o, con le parole di Alfieri, se prima non li si è fatti passare «attraverso l’angoscia della fede riconquistata con spirito moderno», attraverso una «crisi intellettuale e morale»51. «Una lotta di pensiero», dice retrospettivamente lo Scotti: ciò che indica pur qualcos’altro da un ripiegamento ‘mistico’ o ‘prepolitico’, come si è proposto; si trattasse di intento consapevole o di inevitabile retroazione, la militanza intellettuale ‘pura’ interferiva sugli scacchieri ecclesiale e politico concreti, quasi che «l’introspezione, il chiarimento delle idee, l’esperienza mistica [dovessero portare] di per sé inevitabilmente alla riforma pratica degli uomini e della società, del cristianesimo e della filosofia, della Chiesa e dello Stato»52; ovvero a rischio, in senso contrario, che un simile intervento risultasse del tutto asimmetrico rispetto ai conflitti politici reali e al relativo dispiegamento delle forze53.
È in questa rosa di venti obliqui che la scomunica fulminata nel Natale 1907 intervenne a disunire la direzione nel profondo, e cioè non tanto nelle coscienze singole dei responsabili, quanto nel precario equilibrio di ricerca intellettuale aconfessionale e rivendicato radicamento nel cattolicesimo: di cultura cioè e religione. La condanna imponeva così di appartenere alla Chiesa senza voce in proprio, o a parlare bensì, ma senza appartenere a un contesto vivo di ascolto e di dialogo. Per chi scelse l’identità ‘intellettuale’, incerta ancora (e nemmeno il più solido tra costoro, per formazione culturale e sicurezza economica, Casati, andò esente dal crollo emotivo che porrà poi termine all’esperienza), non restava che la prospettiva di un rapido ricambio di pubblico (fin lì assicurato soprattutto dagli abbonati alle cessate «Pagine religiose» del Ghignoni e «Athena» del Murri, per lo più interni al clero) e di una torsione in senso più tecnico ed eclettico dei contributi accolti; di una perdita di presa sull’attualità inoltre, parallela a un progressivo accumulo di tensioni interne. Con tutto ciò il «Rinnovamento» resta la voce più significativa del periodo, ed esperimento notevole di cross over culturale, per aver agitato problematiche religiose in campo aperto, riunito sulle sue pagine molti autori dalle prospettive molto e forse troppo diverse, mediato in Italia temi e testi della ricerca scientifica, filosofica, spirituale estera. Non sarebbe agevole però rintracciarvi quel ‘terzo focolare di cultura’ – tra l’idealismo della «Critica» e il pragmatismo del «Leonardo» – cui Casati aspirava, né riassumere con precisione i termini della sua ‘lotta di pensiero’, di là dal motivo per sé ‘formale’ di un primato dell’interiorità. In nome della stessa coscienza si erano pronunciate sia la resistenza all’autorità che la scelta di sottomettersi, come più tardi l’approvazione o riprovazione degli storici54; vi si esprimeva in fondo un sostanziale déplacement dei termini del conflitto.
«Può esserci imputato a colpa», si chiedevano i recidivi, «il fatto che noi amiamo il Cattolicesimo soprattutto come centro e nucleo della Chiesa universale delle anime che vivono del Vangelo? e che la fede in questo avvenire sia per noi così viva che in quello che è sentiamo di dover lavorare per quello che deve essere?»55.
Un altro spazio e un altro tempo della fede era quanto la coscienza opponeva nella controversia con l’autorità; e si può pensare che l’indisponibilità al terreno, o del terreno, politico-ecclesiale concreto, costringesse questo esercizio di cultura religiosa ai margini della storia, agli antipodi cioè, in certo modo, delle proprie premesse.
Dei giovani sacerdoti romani che primi assumeranno attivamente il nome di ‘modernisti’ – coniato, sembra, dal loro professore di storia ecclesiastica, loro confidente, e poi sinistro persecutore loro: monsignor Umberto Benigni – è noto che furono allievi in prevalenza del Seminario Romano e del Seminario Pio a esso aggregato, siti entrambi al palazzo dell’Apollinare dove aveva sede, anche, l’allora esile struttura del Vicariato di Roma. Sotto gli occhi del Vicariato, proprio nell’istituto a cui Leone XIII aveva voluto esemplarmente applicata la sua svolta teologica in senso neo-tomista, era cresciuta la nuova covata di riformatori. Di ciò si sono date interpretazioni diverse56, ma in nessun caso è stato possibile sottrarsi alla suggestione di un’autotestimonianza come questa dell’ex-allievo Mario Rossi:
«il Seminario Romano specialmente dall’80 al 1900 è stato un vero cenacolo pietista. Il gruppo modernistico romano è uscito di lì; con una concezione veramente tragica della vita e con uno spirito religioso profondissimo. Questi uomini, che avevano dovuto combattere fin da principio una lotta tragica sul fondo stesso della loro anima, dovevano naturalmente essere portati più che gli altri, preoccupati principalmente di problemi esteriori, a compiere una revisione totale della vita religiosa e dei suoi presupposti filosofici e storici»57.
Vi si è letta la cifra di «una religiosità sprezzante di ogni formalismo, molto al di là di tutti i banali accomodamenti cui era sottoposta la religiosità del tempo»58; anche e meglio, grazie a un inatteso riferimento interno allo Schleiermacher, un rinvio «al kratos del pneuma, e non del demos, nell’autentica comunità religiosa, nella quale la legge della comunicazione è rappresentata dal convincimento [...] e non dall’imposizione intollerante»59. L’opposizione a «gli altri» cioè, una volta di più, sarebbe di ricerca religiosa a opzione politica; bersaglio polemico il più anziano Murri, e per esso il seminario di estrazione, con la sua «aria di mondanità e di modernità che non permettono lo sviluppo dell’ascesi» come aggiunge tendenziosamente la stessa testimonianza. Ma erano equamente divisi tra l’Apollinare e il Capranica, come poi tra due destini ecclesiali opposti, trasversali però alla provenienza, i quattro seminaristi, tra loro Angelo Roncalli, che «all’inizio del secolo andavano tutte le sere [alla chiesa del Gesù] a fare la visita al Sacramento [...]. Terminata la loro silenziosa preghiera si trattenevano a lungo all’esterno discorrendo tra di loro con una certa animazione [...] disputando di critica storica»60: un appuntamento quotidiano di devozione e discussione, tra presbiterio e sagrato, che pare restituire soprattutto la pervasività di un clima. La differenza appare cioè meno di estrazione seminarile che non di epoche e di generazioni appunto; questa più giovane entrava nei collegi romani in una fase di ripiegamento del pontificato leonino, agitata da forti contrasti intraecclesiali, quando un ciclo di turbolenze sociali di violenza inedita aveva ormai archiviato il quadro politico-culturale postunitario.
Il primo decennio del secolo coincide con la parabola di questi ‘pretini’, dalle prime inquietudini quando, ancora in seminario, «la cricca redigeva un bollettino segreto nel quale, sotto specie di resoconti bibliografici, si esponevano le dottrine più radicali sulla Bibbia, sulla teologia ecc. Ciò fu verso il 1901: e fu la base della futura intesa di quei modernisti» (il bollettino era però noto per lo meno a monsignor Faberj; ne erano autori Ernesto Buonaiuti, Nicola Turchi, il Rossi, Antonino De Stefano, Olinto Marella ed altri)61, fino all’inchiesta del Sant’Uffizio e al processo del 1910, che non li colpirà nelle persone ma ne segnerà tuttavia la dispersione ai quattro angoli del portolano ideologico. In mezzo c’era stato il momento pubblico e in certa misura ancora tattico della «Rivista storico-critica delle scienze teologiche» (1905-1910), nata per la verità in via della Sapienza, per iniziativa del padre Bonaccorsi, e passata in breve tempo sotto la direzione di Buonaiuti; e poi, in parallelo al procedere di questa più prudente dopo la Pascendi, quello dei raduni di nuovo clandestini, ora in corso Vittorio Emanuele 276, il venerdì pomeriggio con «i soliti intimissimi amici». È questa la fase oltranzistica della pattuglia modernista romana, del cui organigramma sappiamo anche per l’insolita via del processo celebrato davanti a un tribunale civile nel 1912, istruito a partire da una dubbia ‘confessione’ di Gustavo Verdesi al gesuita padre Bricarelli. Essa faceva i nomi dei sacerdoti Rossi, Turchi, Piastrelli, inoltre Giovanni Pioli e Ottorino Coppa, dell’ospite di passaggio Sabatier e del padrone di casa Buonaiuti; riferiva di aver sentito, in queste riunioni, negare l’infallibilità del papa, la divinità di Gesù Cristo e perfino l’esistenza di Dio, annettendosi alla religione non più che un valore di perfezionamento morale individuale62. «Mi ci trovai disorientato – annota molto più tardi don Luigi Piastrelli, che aggiunge alla breve lista il nome del filosofo Giovanni Vailati – per il tono che queste riunioni presero, e non ci tornai più. Mi scandalizzarono, perché di cattolicesimo e di cristianesimo avevano abbandonato ogni ispirazione»63. Nelle sue memorie lo stesso Buonaiuti sorvola, come su un «peccatum iuventutis meae», su questa fase della sua attività, che corrisponde al quindicinale «Nova et vetera» (gennaio-dicembre 1908) e alle molto vituperate Lettere di un prete modernista (aprile 1908)64.
Grazie alla retrodatazione fittizia, le Lettere non contestano più, come un precedente Programma dei modernisti (1907), le accuse dell’Enciclica; sembrano anzi anticiparle e giustificarle, quasi per ‘il necessario tendere verso l’estremo’ di un pensiero che si elabori nell’isolamento e nella clandestinità. Da questa postazione affatto particolare, che occultava il sacerdote ma sbrigliava l’intellettuale, e nell’anonimato lo sintonizzava, chissà?, a una vibrazione profonda del suo tempo, veniva delineata l’identità di un «neocristianesimo» possibile e forse necessario:
«Poiché oggi, fra il turbinio della vita industriale, noi sentiamo nelle nostre anime fremere un più alto senso di fratellanza, e nascere un più puro bisogno di benessere, noi ci sentiamo naturalmente cristiani: perché cristiano è per noi chiunque religiosamente spera nell’intervento benefico di una causa superiore per alleviare i mali della vita: non importa se questa causa sia Dio o l’umanità, considerata come forza collettiva»65.
Il movimento operaio (e per esso la democrazia, il progresso sociale etc.) segnava il riemergere storico dell’attesa apocalittica, cioè dell’‘essenza del cristianesimo’ primitivo ed eterno, che a sua volta altro non aveva realizzato, ma in modo sovreminente, se non l’essenza della religione in generale, dacché tale essenza consisteva in un ‘principio speranza’ germogliante, sia pure per intermittenze o variazioni storiche di intensità, «dagli strati più profondi della psiche»66. L’esperienza religiosa si era resa dunque di nuovo possibile, anzi un’‘accumulazione originaria’ di entusiasmo messianico andava pazientemente promossa e favorita nel soggetto (collettivo) di tale esperienza stessa, prima che una nuova codificazione dottrinaria e rituale intervenisse a diluirla e trattenerla nel tempo. Ma si sarebbe trattato della sistemazione non tanto di un ‘rivelato’, quanto di un ‘vissuto’: «il vero consisterà nella corrispondenza perfetta del pensiero puro agli istinti sani e alle volontà più o meno subcoscienti, da cui siamo mossi nelle nostre esperienze vitali»67. Quel che negli anni del Seminario romano non aveva potuto la filosofia scolastica, collegare tra loro scienza e pietà, sembra permetterlo questo innesto di una filosofia della religione d’impianto pragmatista – non senza qualche prezzo, evidentemente.
Invece un ‘socialismo cristiano’ e anche ‘cattolico’ non era una novità a quest’epoca; poco meno di vent’anni prima il Nitti ne aveva anzi potuto offrire una rassegna già variegatissima68; ciò che caratterizza però la prospettiva delle Lettere è meno il proposito etico e politico di declinare sul terreno della questione sociale un patrimonio di dottrine in sé definito quanto, inversamente, quello religioso di reinterpretare tale patrimonio alla luce di un contesto sociale avvertito come profondamente nuovo. È questa novità, col dinamismo storico che suppone e insieme promuove, a fungere da criterio ermeneutico, almeno quanto le scoperte esegetiche di un Weiss o di un Loisy, per l’identificazione del kerygma cristiano, e anzi del religioso in genere. Essa d’altra parte incrociava, in direzione opposta, la fermentazione in corso di tutti gli immanentismi ottocenteschi verso i territori dell’ideale, nel mese stesso in cui, con la votazione alla Camera sulla mozione Bissolati contro l’insegnamento religioso nelle scuole elementari, si concludeva il dibattito che per alcuni mesi aveva diviso e appassionato l’Italia intera69. In questo movimento ‘chenotico’, benché appena accennato e presto sconfessato, consisteva il tentativo di Buonaiuti e degli altri ‘pretini’ di coniugare il Verbo al presente storico, tentativo inabile a mutare lo squilibrio delle forze sul piano ecclesiale e politico, ma non privo affatto di possibili complementi nella cultura contemporanea. «La cultura contemporanea» del resto, la rivista allestita da due tra gli ‘intimissimi amici’ di Corso Vittorio, i laici Quadrotta e Perroni, a partire dal 1909, avrebbe avuto in redazione tra altri Ivanoe Bonomi, Giovanni Amendola, Silvio D’Amico, Giovanni Costa, Bernardino Varisco, collaboratori Angelo Crespi e Giuseppe Rensi, Luigi Salvatorelli e Giuseppe Antonio Borgese.
Nel seguito Buonaiuti avrebbe ridotto quest’intonazione apocalittica, forse anche nella presa d’atto che la corrispondente esperienza religiosa di massa non si dava, o si canalizzava nelle trincee della guerra mondiale. Una diversa esperienza maturava per lui con l’approdo (1915) alla cattedra universitaria di Storia del cristianesimo in Roma, una delle due superstiti all’abrogazione, e anche per questo dotata del valore simbolico di avamposto possibile tra scienza laica e tradizione dogmatica. Ma un primo tentativo di aprirsi un varco tra i contrapposti schieramenti era tempestivamente represso allorché il Sant’Uffizio condannava il nuovo «Bollettino di letteratura critico-religiosa» in cui alcuni sacerdoti (Buonaiuti, Turchi, Motzo, Vannutelli) si erano mescolati con studiosi a vario titolo ‘laici’ (Salvatorelli, Pettazzoni, Pestalozza, Gabrieli) nel comune proposito di fomentare gli studi religiosi; la rapida capitolazione degli uni, costretti a giudicare se stessi con la pronuncia del giuramento antimodernista, aveva disilluso anche gli altri quanto alla possibilità di una reale comunanza d’intenti e prospettive. E in effetti Buonaiuti, membro della Chiesa docente oltre che della comunità accademica, concepiva la cattedra come occasione di proselitismo non meno che di insegnamento, sebbene ispirandosi a principi e verità discari al Magistero cattolico; né d’altra parte i suoi colleghi potevano facilmente consentire a quel suo «caposaldo metodologico e pedagogico» secondo cui era «impossibile dedicarsi allo studio della storia del cristianesimo senza in pari tempo sforzarsi di tradurre in atto le tipiche, basilari consegne cristiane»; e che autorizzava Buonaiuti «ad introdurre sempre più e ad accompagnare con [sé] nello studio e nella imitazione delle originarie forme di vita cristiana, i giovani che affluivano sempre più abbondantemente alla [sua] scuola»70: poco importa se la crisi del positivismo aveva rimesso in onore l’Einfüh-lung metodica, e questa incrociava evidentemente le attese della generazione più giovane. La ‘koinonia’ che in questo modo si venne a creare intorno a Buonaiuti, cui partecipavano studenti non meno che amici devoti e che si coltivava all’Università nelle lezioni e nei seminari, in case private con la lettura domenicale dei Vangeli, all’Augusteo per i concerti sinfonici, nella Campagna Romana per le escursioni frequenti allietate da conversazioni spirituali, tutto questo allo scopo «di cogliere e di assimilare, nella comunione fraterna, lo spirito dei vecchi documenti cristiani» – costituisce appunto la diversa esperienza religiosa che, stando all’autobiografia, è sottesa al riassetto del suo pensiero71. Buonaiuti lo espresse nelle conferenze di Palazzo Altieri (1921), indette da un ‘Circolo universitario di studi storico-religiosi’ da lui stesso promosso e dai suoi accoliti, ritornando sulla ‘essenza del cristianesimo’ dal punto di vista però della chiesa primitiva, quale ora egli veniva assumendo e sperimentando in seno alla koinonia appunto, dopo un’altra, e sua personale, ‘delusione apocalittica’. Con un recupero della lezione paolina che è d’altronde caratteristico di quegli anni in Europa, l’elemento escatologico della originaria predicazione del Cristo gli si mostrava ora tradotto in «profonda esperienza soteriologica», primizia del Regno donata alla comunità dei fedeli nell’attesa e grazie all’attesa della sua venuta. Tale escatologia in atto si manifestava come «un’etica originalissima», ribaltamento di tutti i valori mondani nel vincolo carismatico della carità fraterna: fondamento di una missione universale della nuova comunità, in quanto corpo di Cristo nella storia72.
Tra il 1920 e il 1930 la koinonia si riuniva anche, in periodo estivo, in un eremo in abbandono sui monti Simbruini al di sopra di Subiaco. Non vi soggiornavano soltanto i giovani allievi, a proposito dei quali il Levi Della Vida ricorda come
«la vista di quei ragazzi, maschi e femmine, tutti quanti di poco sopra i vent’anni, che vivevano uno accanto all’altro senza un atto (e, ci giurerei, senza un pensiero) di concupiscenza, alternando le faccende domestiche alla preghiera, alla lettura in comune, alla discussione, [fosse] per me motivo di commozione, oserei dire di edificazione. E sulla messa detta da Buonaiuti prima dell’alba nella cappellina dalle pareti nude incombeva un’aura di religiosità così intensa e così intima da far quasi rimpiangere all’infedele presente di poter essere soltanto spettatore e non anche partecipe»73;
altrettanto vi «salirono [...] colleghi universitari, stranieri di passaggio per l’Italia, e ritornarono ripetutamente elettissime anime che portarono fedelmente per anni [...] il conforto e l’ausilio della loro solidarietà e della loro simpatia»; al punto che San Donato divenne «un’insegna e una tessera di riconoscimento»74. Non è possibile censire tutte queste presenze; sono noti però i nomi dei più assidui tra i discepoli e i frequentatori: Giovanni Bardi, Agostino Biamonti, Anna De Micco, Ambrogio Donini, Maria Fermi (talora col fratello Enrico), Alberto Ghisalberti, Isabella Grassi, Saul Israel, Arturo Carlo Jemolo, Renato Lazzarini, Cesare Magni, Maria Monachesi, Gennaro M. Monti, Adele e Raffaello Morghen, Mario Niccoli, Alberto Pincherle, Carolina Pironti, Adriano Tilgher, Maria Zappalà, Fausta Zucchetti75. Alcuni di costoro dobbiamo pensare, nella cruciale estate del 1924 – dopo la scomunica irrogata nel marzo a Buonaiuti per scritti suoi minori, nella speranza di indurlo ad abbandonare l’insegnamento universitario; e mentre era in corso la crisi politica provocata dall’assassinio di Matteotti – collettivamente impegnati in «una meditazione tanto più assidua intorno alle sorti della [loro] spiritualità e intorno agli oneri della [loro] missione»76. Erano un ‘manipolo’ di cristiani e intellettuali, e molto più che una rivista non potevano fare; ma in quella Masada del modernismo che furono le «Ricerche religiose», destinate a resistere per un quarto di secolo77, faceva ritiro quanto restava del tentativo di tenere insieme, per così dire in koinonia, ricerca scientifica e fede religiosa. Nel gennaio di quel 1924 Raffaele Pettazzoni aveva preso possesso della cattedra di Storia delle Religioni, la prima in Italia, creata per lui in Roma da Gentile, avviandovi su basi risolutamente agnostiche un magistero che più tardi, col nome di ‘scuola romana’ rivendicatogli da un gruppo di brillanti discepoli78, sarebbe sceso nell’agone internazionale quale campione eminente dello storicismo italiano – e sia pure in un tormentoso nec tecum nec sine te coi fondatori dello specifico disciplinare79, fenomenologi del ‘Sacro’ come Rudolf Otto, che proprio Buonaiuti in quei giorni brandiva contro i suoi detrattori idealisti. In tutt’altra direzione, può essere significativo che, in una lettera da San Donato dell’estate 1925, egli chiedesse provocatoriamente al giovane De Luca, più tardi titolare di un formidabile progetto apologetico e silentio (ma forse perché pretendente alla totalità della parola umana): «tu che ami lo spirito sacerdotale sopra ogni altra cosa, non ti accorgi che tendi a eliminarlo dal lavoro scientifico quale tu l’intendi [... non per altro che per] sacra paura di incorrere nel ginepraio del modernismo?»80. Dalla feritoia di questi distinguo, il figlio della tabaccaia e i suoi mostravano, di fronte alla cultura accademica ed ecclesiastica, anzi di fronte alla Chiesa, al fascismo, e alla loro ‘conciliazione’ imminente – che incombeva sul cenacolo del resto, con la scelta di una vittima propiziatoria –, di voler opporre una diversa intelligenza del nesso tra cultura religiosa e vita civile. E una ‘storiografia confessante’ avrebbe in seguito scritto altre pagine, non delle meno alte, nella cultura italiana del secolo.
Del «carattere sacrale della vita associata», evocato anche nel nome di Mazzini81, la koinonia intendeva appunto essere testimonianza e anticipazione, nell’imminenza di una nuova barbarie che avrebbe reso necessarie esperienze comunitarie rette «unicamente dalle leggi non scritte della solidarietà fraterna e della comunicazione carismatica»82. Non era il solo tentativo in atto, e queste espressioni erano anzi dettate a Buonaiuti dalla memoria del ‘miraggio’ di cui lo aveva messo a parte una religiosa non più giovane, Maria Valeria Pignetti, e che fu poi da lei realizzato, a prezzo di molti stenti materiali ed ecclesiali, presso l’eremo già una volta francescano di Campello al Clitumno. Si trattava di una piccola comunità religiosa senza ‘religione’ – senza regola cioè, né voti, né configurazione canonica, sebbene le singole aderenti abbracciassero una confessione cristiana e le cattoliche provenissero per lo più da qualche famiglia religiosa riconosciuta –, ispirata a un ideale ‘pancristiano’, o meglio ‘panico’ di ‘cattolicità’, sovrastante i confini delle diverse tradizioni spirituali così come dei diversi regni naturali; sua vocazione l’‘insicurezza’, materiale e istituzionale, e l’ospitalità, come apertura incondizionata a ogni umana forma di ricerca di Dio. Intorno al nucleo delle sorelle residenti, con esse in contatto ora diretto, ora epistolare, ora solo d’intenti e di preghiera quotidiana, orbitava una corona di fratelli non conviventi, sparsi per le diverse regioni e confessioni del mondo cristiano, uniti da un legame di comunione inoperosa e ‘stellare’. Né a costoro soltanto si limitava la rete di relazioni tessuta da sorella Maria, di persona e in forma epistolare, ad alimentare il «foyer ecumenico» dell’eremo83 nell’arco di diversi decenni tra il 1926 e il 1961 (tra Mortalium animos, si potrebbe chiosare, e Unitatis redintegratio); e ai carteggi editi – in deroga alla sua volontà, com’è ovvio – con Schweitzer, Gandhi, don Mazzolari, padre Vannucci, altri ne vanno aggiunti, di cui si ha almeno la notizia: e che intercorrono, con varietà di addensamenti nel tempo e nei rapporti, con Friedrich Heiler ed Evelyn Underhill, Paul Sabatier e Giovanni Luzzi, Buonaiuti expresse vitandus e don Brizio ancora ramingo, Giovanni Costetti e Lanza del Vasto discepoli di Gandhi; e ancora, tra vari altri, con Giacomelli, Coari, Rebuschini, Bartalini, a sigillare un universo elettivamente femminile84.
La scelta e la somma di questi rapporti obbediscono a un criterio evidente, che riconduce a quella fioritura neocattolica da cui la comunità dell’eremo sporge, in definitiva, come il solo germoglio non tactus aratro. D’altra parte sorella Maria, pur provveduta di una cultura spirituale tutt’altro che trascurabile, non era o non voleva essere un’intellettuale; né i testi noti, spesso straordinari, contengono una qualsiasi elaborazione dottrinale. Certo sapeva rivolgersi a un papa chiamandolo a testimonio «come se in questo attimo dovessi rendere conto della mia coscienza dinanzi a Dio»85; ma per attribuirle una partecipazione riflessa al moto di ‘rinnovamento’ occorrerebbe accreditarla di un programma consapevole di rinuncia alla consapevolezza e alla riflessione stesse. Il suo francescanesimo ‘delle origini’, la sua chiesa ‘dei fanciulli e degli uccelli’, la ‘pura semplicità’ di una mistica beghinale alla cui tradizione Maria si ricongiunge con misteriosa sicurezza, comportavano la regressione a uno stadio elementare del sentimento religioso, e insieme la progressione alle sue estreme frontiere: quasi uno stato di innocenza primitiva, da cui spiccare il volo verso una regione fuori tiro nel cielo. Ma si trattava in fondo della direzione strategica stessa, in senso pre- non meno che post-razionale, pre- e post-istituzionale, propria di tutta quella stagione di cultura religiosa. Era probabilmente quanto quei molti intellettuali riconoscevano in lei e custodivano in sé come la lezione più edificante: la figura di una riconciliazione ‘cattolica’ – per ogni altra via, in ogni altra proporzione e mediazione, semplicemente impensabile – oltre le scissure della storia religiosa e civile, di quella moderna in particolare.
Si è sottolineato come la Pascendi (1907) reagisse a un clima eccitato e confuso, agitato dai relitti mistici, teosofici, metapsichici del naufragio del positivismo, alla deriva nelle acque territoriali delle identità religiose; meno caso si è fatto forse alle conseguenze di quello sbarramento dottrinale violentemente opposto ai gorghi delle correnti variamente ‘irrazionaliste’. Altre volte in passato la Chiesa era intervenuta a condannare o distinguere, ma sempre predisponendo un alveo ortodosso entro cui le nuove esigenze potessero rifluire; solo in seguito, e solo in piccola parte, a tale funzione avrebbe assolto l’Università Cattolica. Nelle adiacenze dirette dell’enciclica, la persecuzione degli erranti, l’indifferenza ostile dei liberali, la soddisfazione dei socialisti, corrispondevano ad altrettante ‘forme’ di un sistema di forze in equilibrio, destinato a essere travolto in breve giro di anni col convergere delle correnti marginali e escluse nel vortice dell’interventismo. Si può seguire l’accelerazione di questo processo a far data dal 1908 sulle colonne de «La Voce»; né sorprende che proprio la ‘metafora religiosa’ potesse fungere in quel frangente da supporto teorico all’attraversamento del processo stesso86. Momento rilevante di tale elaborazione in fieri fu una rivista appartata e minore come «L’anima», che «ebbe un solo anno di vita, ma che fu la più bella, la più solida delle riviste fiorentine di quel periodo»87. Confluivano in essa i (falliti) progetti di Casati, Amendola e Boine per una testata erede del «Rinnovamento»88, lo scontento di Papini per gli indirizzi neoidealisti de «La Voce»89, l’arrivo a Firenze dell’Amendola per dirigere le attività della Biblioteca Filosofica di piazza Donatello; più da lontano, l’esoterismo e spiritualismo di Reghini, Ferrando, Marrucchi animatori della Biblioteca stessa, l’attenzione di chi vi frequentava i cicli di lezioni di Minocchi sulla Bibbia e di Formichi sulle religioni orientali, o le conversazioni dell’affiliato Circolo filosofico con Gentile, Calderoni, Brentano, o i primi contatti che la cultura italiana vi andava stabilendo con Kierkegaard, tramite Ferlov, e con Freud, ‘via’ Roberto Assagioli.
«Dalle sue sale solitarie scendeva talora al Circolo la dama solenne in bianca veste e chiome d’argento, dal gesto imperioso, e i giovani filosofi la ricevevano con devota riverenza [...]. S’interessava alle discussioni più tumultuose, come quelle su Dio secondo Platone e Dio secondo Aristotile, e invitava poi quei giovani a casa sua, dove leggeva loro, con voce commossa, qualcuno de’ suoi misteriosi scritti medianici, da grandi morti dettati molt’anni prima al suo figliuolo fanciullo»90.
È un avvertimento fattosi drammatico della storia, della potenza disgregatrice insita nella modernità tecnica e ‘democratica’ (tale almeno per i soggetti socialmente più esposti della nuova intellettualità), e correlativamente un’attrazione-repulsione a fronteggiarne l’‘abisso’, a muovere le pagine migliori de «L’anima»91. Cominciava Amendola, sulla scorta del Blondel, con la sua Logica della vita religiosa92: del ‘religioso’ assumendo il côté mistico – identificato con quel «dominio dell’incoordinabile» secondo ragione, in cui si manifesta «un momento di discontinuità, indispensabile per una sintesi superiore» – come metafora del procedere, ma per salti, della vita dello spirito da un grado al grado ulteriore. In quanto possibilità trascendente l’ordine dei fatti dato, che tuttavia può tramutarsi in fatto a sua volta, l’esperienza religiosa rivela un tessuto connettivo di razionalità, nel reale, che sopravanza il reticolo chiuso degli schemi del pensiero astratto, e insieme resiste all’onda travolgente dei fatti stessi e all’apparente bizzarria del caso. In essa si mostrerebbe così «la logica più profonda della realtà [...] quasi, la logica stessa della logica»; onde risultano di carattere religioso «tutte quelle manifestazioni nelle quali la coscienza sopprime con uno slancio o una dedizione l’abisso pericoloso dell’incoordinato, e si trova poi ad avere arricchito una vita, ed ingrandito la vita stessa del mondo»93.
«Ti dirò che l’aggiunta e l’uso che tu fai della parola religioso, qui dentro mi pare un po’ inutile. Prova a toglierla dappertutto dove segue all’altra parola vita e vedrai che il discorso corre lo stesso», osservava ad Amendola il Boine94, nel momento forse più intenso del loro «esemplare sodalizio filosofico di autentico, reciproco arricchimento»95. Della lezione hegeliana Boine riteneva come ormai irrevocabile l’assunzione al pensiero del divenire, la storia, la vita; dal ‘rifacimento’ crociano (e anche contro di esso), derivava l’inconcludibilità di tale processo, il disfarsi e rifarsi incessante della sintesi, l’eccedere inesauribile del vitale. La sua conclusione era che ordine possibile non v’è più. «Un tempo per religione si intendeva [...] qualcosa di decisamente extraindividuale: di obiettivo; qualcosa di mio e di tuo ma di esternamente, obiettivamente, realmente comune», recitava al cominciamento il saggio suo memorabile su L’esperienza religiosa, ne «L’anima» dell’ottobre 1911;
«vivere religiosamente voleva dire annientare la mia empirica individualità, i miei impulsi, i miei effimeri voleri e bisogni (pratici, intellettuali), la mia particolare logica, per ciò che è più reale di me, più sicuramente, più provatamente reale di me. – La vita religiosa (la vita secondo religione) era dunque la vita logica (secondo la più reale logica); era il ripudio dell’empiria, di questa di quella particolare empiria, per la logica sicura, universale, comune; il ripudio della vaga, sentimentale soggettività per la obiettività tradizionale»96.
Era in nome di questa idea di tradizione religiosa che Boine, nell’agosto di quello stesso anno, aveva su «La Voce» dettato parole sanguinose a proposito Di certe pagine mistiche, ossia di certo estetismo religioso imputato al Gallarati Scotti, in tal modo problematizzando anche la propria adesione sia al «Rinnovamento»97 sia, d’altra parte, alla ‘vera’ fede:
«io non posso continuare a godere come d’uno spettacolo, a commuovermi, ad entusiasmarmi, a mettermi il cuore in sussulto (come ad uno spettacolo) dinnanzi a ciò che è profondamente serio, che, è tangibilmente vero che è la verità, l’obiettività sicura (come lo sono questi carri pesanti che si muovono ora per via, come lo è questo batter di martello sull’incudine qui accanto) che è la vita ordinaria, che è come la vita necessaria d’ogni giorno per coloro che credono e che accanto a me pensan ch’io creda. La religione non è per me, non è mio conforto; è per loro, è fatta da loro per loro»98.
A buon diritto Amendola giudicava «sorprendente» l’esito dell’Esperienza religiosa, che pareva ribaltare questi criteri di giudizio. «Ma non ho mica cessato d’essere un tradizionale ed un adoratore dell’ordine! – replicava l’altro. – Ho compiuto una dissociazione: Dio e storia son due cose diverse. Si può, si deve adorare la storia: dico che non si può adorare Iddio [...] Io sento così angosciosamente da un po’ in qua lo spavento amorfo che è sotto questa maschera di ordine fenomenico!»99. Perché permane una «ferita non chiusa», «qualcosa che s’appiglia al conoscere, che lo segue come ombra, che non è conoscenza»:
«di qui nella vita, più che di là nel concetto, pare albergare, par aver la sua natura Iddio. Iddio è strapotenza senza la legge [...] Iddio è abissale, è inacquetabile sgomento prima d’essere ordine e bontà, prima d’esser persona e tutte quelle altre cose, tutti questi altri logici attributi della tradizionale teologia scolastica. È sgomento, è spavento, è sbigottimento per questo prodigioso senza posa fluttuare di vita (da dove?) dal nulla, come nella cava immensità un mare notturno»100.
Ich habe keinen Namen dafür: alla costruttività dello spirito, alle ‘forme’ che esso strappa o contrappone al caos, infine al culto che doverosamente gli spetta – residua questo innominabile, la noche oscura del vitale, la demonicità di Dio; e «religioso [è] chi si sforza, chi si dibatte e permane in questa mostruosa esperienza, chi violenta le forme dello spirito, chi si agita in questa forma preformale, precategorica di attività spirituale, in questa antispirituale e antistorica agitazione»101 (ove è implicita tra l’altro la convertibilità semantica di ‘religioso’ e ‘poetico’). Amare la tradizione pur sapendone irrimediabilmente contingenti gli ordini, da che lo spirito consiste modernamente nell’adeguare pensiero e vita; affermare il necessario momento anarchico del ‘mistico’ pur aborrendone la mostruosità – tale è la ‘tragica’ lezione della ‘crisi modernista’ in Boine102.
Il Dio dell’ordine, delle forme così filosofiche come religiose, appare «negazione della natura, negazione della vita», che «non si ferma, è un fiume che sempre scorre», anche al Discorso del metodo di Vladimiro Arangio-Ruiz pubblicato nel successivo fascicolo de «L’anima». Ma, abbracciata anche qui la funzione critica del pensiero piuttosto che quella dommatica, e procedendo per la via della ‘riduzione’ al nucleo di norma impensato di ogni architettura concettuale, quest’unico fondamento vi si trova: l’insoddisfazione, «madre di Dio, radice della santità, radice della filosofia»103. Non elaborata, sullo sfondo, si ergeva a criterio di giudizio la prospettiva inversa: «avere in questo presente, in quest’ultimo presente, in sé la sua vita, è la soddisfazione, è la gioia, il Paradiso»: se non che una simile vita «cesserebbe d’esser vita»104. Arangio si confronta qui evidentemente con Carlo Michelstaedter, l’amico suo scomparso un anno prima, del quale con Gaetano Chiavacci veniva dando – e diffondendo nei circoli intellettuali fiorentini, cui quello era rimasto rigorosamente estraneo – le opere superstiti tra cui, nel 1913, La persuasione e la rettorica105. «Lei è uno dei pochi, dei pochissimi, che possono capirlo e amarlo» scriveva a Boine; «affrettati a leggerlo», gli intimava Amendola106. Il quale per parte sua lo aveva come presagito, dall’interno della propria ‘filosofia dell’attività’, intervenendo nel maggio del 1912 su «La Voce» a proposito del Libro non letto – il Vangelo in Italia, naturalmente. «Il Vangelo – scriveva – dice perpetuamente l’essenza, l’intensità, la profondità, la forza suprema di ciascuno»; Gesù infatti
«ama la rinunzia non già come perdita, ma come scelta e come decisione. [...] La vita ricerca l’uomo coi mille tentacoli del possibile; il desiderio – questo sangue dello spirito umano – si protende ad accoglierli tutti: ma ecco che la vita si disperde attraverso i mille rivoli divergenti, e laddove era miraggio di ricchezza e di potenza si ritrova poi dispersione, debolezza e miseria. Di qui scaturisce la legge essenziale della vita, consistente nella necessità dello scegliere, del fare, di mantenersi al timone del proprio essere. Questa legge distrugge nel cuore dell’uomo l’illusione metafisica ch’è alla radice di tutto l’albero del suo desiderio, e cioè quella falsa visione dell’infinito che lo porta a pascersi d’indefinito, a mutar cioè perpetuamente d’oggetto ad a riempirsi di numero, piuttosto che a saturarsi di vero e d’eterno»107.
Si intende come, su queste basi, Michelstaedter dovesse rivelarglisi «genio religioso», ierofania di quell’‘incoordinabile’ che si traduce poi, nella storia, in «creazione morale». «L’uomo dei primi anni del secolo ventesimo – avrebbe scritto qualche anno dopo circa La persuasione e la rettorica – non poteva più credere nella storia come in un Dio, ma non poteva nemmeno lasciarsi inebriare dal narcotico del tardo romanticismo mistico. Era intento [...] a ricercare una forma di consistenza morale che [...] restituisse [...] la possibilità di vivere e di operare – distrutta nel secolo decimonono dalla rivoluzione e dal criticismo»108. Qui, ancora, Amendola chiamava in causa Boine; ma non è strano che questi non intervenisse a soccorso. Perché non solo il ‘persuaso’ di Michelstaedter, l’autarchés, e cioè il Cristo, non ha possibile riscontro nella ‘terribile’ religione del Padre che è di Boine («nella Libertà, una Imposizione»109); né solo, per conseguenza, le forme di pietà in cui quest’ultima si depositava, e che Boine giudicava degne di venerazione, all’altro apparivano alla stregua di inganni del ‘dio della vita’ («... ci fabbricarono su la Chiesa»); ma le stesse antinomie boiniane (e tanto di più quelle amendoliane), che non potevano in definitiva sottrarsi al superamento dialettico per quanto inconcludibile, si spezzavano in Michelstaedter in un aut-aut non ulteriormente elaborabile, anzi nemmeno dicibile (Ich habe keinen Namen dafür!) se non per un paradosso destinato ad annientare se stesso – una testimonianza consegnata al silenzio110. In essa si consumava la secessione ultima da ogni storico ‘discorrere’ da parte di una cultura (naturaliter religiosa, in quel frangente) che aveva esperito l’impossibilità di un’interazione, altro che catastrofica, tra ‘l’anima’ e le ‘forme’.
1 E. Guano, Riflessoni sulla cultura religiosa in Italia, «Il Ragguaglio dell’attività culturale letteraria ed artistica dei Cattolici in Italia», X, 1939, pp. 79-87; per il contesto di tali riflessioni, utili le pagine di R. Moro, La formazione della classe dirigente cattolica (1929-1937), Bologna 1979, pp. 526-532, 561-564, e in Emilio Guano. Coscienza, Libertà, Responsabilità, a cura di L. Paronetto Valier, Roma 1998, pp. 137-156.
2 L.H. Jordan, The Study of Religion in Italian Universities, Oxford 1909, di cui era parte la traduzione inglese di B. Labanca, Difficoltà antiche e nuove degli studi religiosi in Italia (1890); per un eloquente sguardo sui contesti cfr. N. Spineto, Religioni. Studi storico-comparativi, in Dizionario del sapere storico-religioso del Novecento, a cura di A. Melloni, Bologna 2010, pp. 1257-1263.
3 Cfr. R. Aubert, La crisi modernista, in Storia della Chiesa, diretta da H. Jedin, X, La Chiesa negli Stati moderni e i movimenti sociali (1878-1914), Milano 1979, p. 545.
4 Una utile ‘astrazione determinata’ sui caratteri delle sodalitates intellettuali può operarsi sulla base di V. De Caprio, I cenacoli umanistici, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, I, Il letterato e le istituzioni, Torino 1982, pp. 799-822.
5 M. Ranchetti, Il cattolicesimo italiano del Novecento: un profilo, in Id., Scritti diversi, II, Roma 1999, p. 24.
6 L. Bedeschi, Circoli modernizzanti a Roma a cavallo del secolo, «Fonti e Documenti», 15, 1986, pp. 14-15; questo studio ha conosciuto redazioni diverse, di cui la più completa in Id., Il Modernismo italiano, Voci e volti, Cinisello Balsamo 1995, pp. 57-113. In questa sintesi ne utilizziamo largamente le notizie.
7 Fonte remota di queste notizie è A.A. Michieli, Antonietta Giacomelli (1857-1949). Una paladina del bene, Rovereto 1954; il passo di Amendola («La Voce», gennaio 1911) è riportato da L. Bedeschi, Il Modernismo italiano, cit., p. 75.
8 A. Houtin, Histoire du modernisme catholique, Paris 1913, p. 108. Sul tema cfr. i numerosi ritratti femminili stilati da L. Bedeschi, Profeti minori del ’900. Le avanguardie nascoste del rinnovamento cattolico, Milano 2004.
9 L. Fiorani, Modernismo romano, 1900-1922, «Ricerche per la storia religiosa di Roma», 8, 1990, pp. 88-90.
10 Cfr. A. Fogazzaro, Il santo [1905], alle pp. 174-190 della corrente edizione mondadoriana, Milano 1985.
11 Su questo tema, e sulla complessa coalescenza di spiritualismo e femminismo cfr. L. Scaraffia, A.M. Isastia, Donne ottimiste. Femminismo e associazioni borghesi nell’Otto e Novecento, Bologna 2002, in partic. pp. 91-99.
12 Si vedano su di lei, C. Brezzi, introduzione al Carteggio Giacomelli-Sabatier, «Fonti e documenti», 2, 1973, pp. 296-324, e il profilo biografico in DSMC, II, 1982, pp. 233-240; una rilettura dei romanzi in A. Scattigno, L’educazione della donna nella cultura modernista: A.G., in L’educazione delle donne. Scuole e modelli di vita femminile nell’Italia dell’Ottocento, a cura di S. Soldani, Milano 1989, pp. 531-549.
13 L. Bedeschi, Modernismo a Milano, Milano 1974, p. 22.
14 «Documento autobiografico», edito in F. Aronica, Don Brizio Casciola. Profilo bio-bibliografico, Soveria Mannelli 1998, p. 243, dal quale sono desunte molte informazioni del paragrafo.
15 Si veda su di lei R. Fossati, Alice Hallgarten Franchetti e le sue iniziative alla Montesca, «Fonti e documenti», 16-17 (1987-88), pp. 269-347; più in generale Id., Élites femminili e nuovi modelli religiosi nell’Italia fra Otto e Novecento, Urbino 1997.
16 F. Aronica, Don Brizio Casciola, cit., p. 44.
17 Notizie utili e testimonianze dirette in G. Carillo, Mons. Francesco Faberj. Profilo della sua vita e della sua spiritualità, Città del Vaticano 1976, pp. 31-38.
18 G. Semeria, I miei tempi, Milano 1929, p. 75; sul «programma di studi» del circolo, si legge altrove, p. 91, che «si cercava di sceverare l’arbitrario e il legittimo nel campo della storia sacra, e della critica ad essa applicata; di mostrare che il contrasto tra fede e scienza non è né può essere sul campo dei fatti debitamente accostati, ma tra le concezioni filosofiche».
19 Su Salvadori, che concluderà il suo impegno spirituale e scientifico nei ranghi dell’Università cattolica, cfr. N. Vian, introduzione a Lettere (1878-1906), a cura di N. Vian, Roma 1976.
20 G. Semeria, I miei tempi, cit., pp. 79-81.
21 F. Chaubet, L’Union pour l’action morale et le spiritualisme républicain (1892-1905), «Mil neuf cent», 17, 1999, pp. 67-89.
22 Nella lettera al vescovo di Grenoble Nous ne voulons pas del 22 giugno 1892, cui faceva seguito, nel settembre, la benevola udienza concessa al Desjardins; cfr. A. Houtin, Histoire, cit., pp. 16 segg.
23 Cfr. per questo D. Menozzi, La chiesa cattolica e la secolarizzazione, Torino 1993, in partic. i capp. III e IV.
24 Si consideri al riguardo la singolare concomitanza della Vie de Saint François d’Assise del Sabatier (1894) e delle Lettres intimes de Joseph Mazzini edite dalla Melegari nel 1895.
25 L’osservazione è di F. Molinari, Il periodico milanese «In cammino» di A. Giacomelli tra femminismo ed ecumenismo» in Cultura, scuola e società nel cattolicesimo lombardo del primo Novecento, Brescia 1981, pp. 273-302; al riguardo cfr. anche O. Confessore, Conservatorismo politico e riformismo religioso. La «Rassegna Nazionale» dal 1898 al 1908, Bologna 1971, pp. 115-147. Le notizie reperibili in F. Aronica, Don Brizio Casciola, cit., non sembrano peraltro giustificare queste valutazioni limitative.
26 Si esprime così il padre Semeria a proposito dell’opera delle prime Comunioni da lui estesa ai fanciulli di Campo Verano, insieme con Giulio Vitale (più tardi autore sul «Rinnovamento») e al confratello padre Cesare Tondini, apostolo della riconciliazione con gli Ortodossi (cfr. I miei tempi, cit. pp. 92-118).
27 P. Scoppola, Crisi modernista e rinnovamento cattolico in Italia, Bologna 1961, pp. 88-89, 360-361.
28 Su cui cfr. ibidem le ponderate pagine di P. Scoppola, pp. 95-105, col riconoscimento del merito «di aver affermato il primato del rinnovamento culturale e religioso su quello politico, rovesciando quella subordinazione della cultura alla politica, che è una caratteristica dominante […] in tutto un secolo di storia religiosa in Italia» p. 99.
29 Per altre notizie cfr. G. Carillo, Mons. Francesco Faberj, cit., pp. 69-75.
30 Una bella ‘istantanea’ del Semeria genovese nei primi anni del Novecento in G. Levi Della Vida, Fantasmi ritrovati, Venezia 1966, pp. 88-95.
31 F. Turvasi, Padre Genocchi, il sant’Uffizio e la Bibbia, Bologna [1971], p. 43, e passim sull’argomento di questi paragrafi.
32 Queste notizie e molte altre in F. Turvasi, Giovanni Genocchi e la controversia modernista, Roma 1974, pp. 52 segg.
33 Nella lettera alla madre del 4 ottobre 1893, citata in S. Accame, Critica storica e modernismo nel pensiero di Gaetano De Sanctis [1971-72], in Id., Scritti minori, II, Roma 1990 p. 796.
34 L. Bedeschi, Il modernismo italiano, cit., pp. 61-66.
35 V. un ampio sunto in F. Turvasi, Giovanni Genocchi, cit., pp. 64-77.
36 Ibidem, p. 77.
37 Cfr. C. Violante, Il significato dell’opera storiografica di Giuseppe Toniolo nell’età di Leone XIII, in Aspetti della cultura cattolica nell’età di Leone XIII, a cura di G. Rossini, Roma 1961, pp. 739-750; ripreso, a proposito di De Luca, da L. Mangoni, Aspetti della cultura cattolica sotto il fascismo: la rivista “Il Frontespzio”, in Modernismo, Fascismo, Comunismo. Aspetti e figure del movimento cattolico del ventesimo secolo, a cura di G. Rossini, Bologna 1972, pp. 366-376.
38 L. Bedeschi, Il modernismo italiano, cit., p. 84.
39 Altro efficace profilo di G. Levi Della Vida, Fantasmi ritrovati, cit., pp. 107-127.
40 F. Turvasi, Giovanni Genocchi cit., p. 110.
41 Così il «Memoriale G. Clementi», riportato ibidem, pp. 41-42.
42 Ibidem, pp. 14-16, dove si sottolinea il primato della produzione italiana (benché riservata ai dotti, quale ancora era la versione data alle stampe dal Minocchi nel 1900) almeno fino al 1902, e il grave arretramento seguito alla ‘crisi modernista’.
43 Il giudizio è riferito da monsignor Hanna, allora arcivescovo di San Francisco (ibidem, p. 73, con rinvio a V. Ceresi, Padre Genocchi, Città del Vaticano 1934, p. 391).
44 Questo il suggerimento interpretativo essenziale di F. Turvasi, Padre Genocchi, cit., pp. 208-210.
45 Così Pio X nel discorso alla Pia Società riportato da «L’Osservatore romano», cit. ibidem, p. 82.
46 L. Bedeschi, Modernismo a Milano, cit., p. 31; da questo testo, molte delle notizie di seguito utilizzate.
47 Sull’ambiente milanese v. anche M. Guasco, Le esperienze religiose dei gruppi novatori nel primo ’900 [1979], in Id., Dal Modernismo al Vaticano II. Percorsi di una cultura religiosa, Milano 1991, pp. 99-126.
48 A.C. Jemolo, introduzione, in Tre cattolici liberali, a cura di A. Pellegrini, Milano 1972, p. 50.
49 Il Vaticano e il cattolicesimo intellettuale, «Il Rinnovamento», 1 gennaio 1907, pp. 69-70.
50 L. Bedeschi, Modernismo a Milano, cit., p. 42.
51 Cit. ibidem, p. 35.
52 A. Monticone, Alessandro Casati, in Tre cattolici liberali, a cura di A. Pellegrini, cit., p. 157.
53 Insiste su questo U. Carpi, Riflessi milanesi del vocianesimo, «Giornale storico di letteratura italiana», 494, 1979, pp. 265-286.
54 Rispettivamente P. Scoppola, Crisi modernista, cit., pp. 216-220, e M. Ranchetti, Cultura e riforma religiosa nella storia del modernismo, Torino 1963, pp. 217-222.
55 Dopo un anno, «Il Rinnovamento», 11-12, novembre-dicembre 1907, p. 617.
56 L. Fiorani, Modernismo romano, cit., pp. 116-117; V. Paglia, Gli studi al Seminario Romano negli anni della crisi modernista, «Ricerche per la storia religiosa di Roma», 8, 1990, pp. 207-208, 220; G. Battelli, Note sulla formazione spirituale del giovane Angelo G. Roncalli [...] in Fede, tradizione, profezia. Studi su Giovanni XXXIII e sul Vaticano II, Brescia 1985, in partic. pp. 85-99; caratteristico anche il racconto del Buonaiuti sulla sua incomprensione col rettore monsignor Bugarini (Pellegrino di Roma. La generazione dell’esodo, Bari 19642, pp. 34-36).
57 Nella lettera ad A. Houtin del 20 febbraio 1912, riportata in «Fonti e documenti», 1, 1972, p. 261.
58 L. Fiorani, Modernismo romano, cit., pp. 116-117.
59 G. Moretto, Sulla traccia del religioso, Napoli 1987, p. 44, che attribuisce però la testimonianza a un tutt’altro Mario Manlio Rossi.
60 Oltre che di Roncalli, trattavasi di Buonaiuti, suo compagno al Seminario Romano, di Giulio Belvederi e Alfonso Manaresi: cfr. G. Andreotti, I quattro del Gesù, Milano 1999.
61 Cfr. V. Paglia, Gli studi al Seminario, cit., p. 216; L. Bedeschi, Il modernismo italiano, cit., pp. 172-173, parla di «quaderni intitolati Esercizi di critica storica che poi costituiscono le esercitazioni assegnate in un primo tempo da monsignor Benigni ai suoi allievi del Seminario Romano».
62 A. Houtin, Histoire, cit., pp. 365-366. L. Bedeschi (Il gruppo radicale romano, «Fonti e Documenti», 1, 1972, pp. 9-14) aggiunge i nomi di don John Hagan, vicerettore del Collegio Irlandese, dei sacerdoti Primo Balducci e Pietro Parrella, presto defroqués, dei laici Guglielmo Quadrotta e Giulio Farina; menziona inoltre collegamenti coi sacerdoti siciliani Giorgio La Piana e Antonino De Stefano, e coi milanesi don Luigi Bietti e don Luigi Fontana.
63 Cit. in L. Fiorani, Modernismo romano, cit., p. 122.
64 E. Buonaiuti, Pellegrino di Roma, cit., p. 97.
65 E. Buonaiuti, Lettere di un prete modernista, a cura di M. Niccoli, Roma 1948, p. 149
66 Ibidem, p. 159.
67 Ibidem, p. 165.
68 F.S. Nitti, Il socialismo cattolico, Roma 1891.
69 Cfr. M. Torrini, Religione e religiosità nei primi anni del ’900, in Angelo Fortunato Formiggini. Un editore del Novecento, a cura di L. Balsamo, R. Cremante, Bologna 1981, pp. 363-389.
70 E. Buonaiuti, Pellegrino di Roma, cit., p. 156.
71 Ibidem, pp. 156-159.
72 Id., L’essenza del cristianesimo, Roma 2008, pp. 65 segg.; Id., Pellegrino di Roma cit., pp. 180-186. Su questo fortunato e problematico sintagma, cfr. di G. Bonola, P.C. Bori gli Editoriali in A. Harnack, L’essenza del cristianesimo, Brescia 1980.
73 G. Levi Della Vida, Fantasmi ritrovati, cit., p. 137.
74 E. Buonaiuti, Pellegrino di Roma, cit., pp. 161 segg.
75 La koinonia è documentata da varie fonti, tra epistolari, memorie e diari; su quello di Isabella Grassi si fonda la ricapitolazione recente di A. Zambarbieri, La koinonia di Ernesto Buonaiuti. Echi e ricordi, «Humanitas», 56, 2001, pp. 212-230.
76 E. Buonaiuti, Pellegrino di Roma, cit., pp. 213-228.
77 Col nome di «Religio» tra 1934 e 1944, poi tra 1947 e 1949 con la primitiva denominazione e la conduzione di Ambrogio Donini.
78 Trattasi di Angelo Brelich (di cui si veda Verità e scienza. Una vita in Id., Storia delle religioni: perché?, Napoli 1979, in partic. pp. 44-45), Ernesto De Martino, Dario Sabbatucci, Vittorio Lanternari, Ernesta Cerulli; ma anche di credenti quali Alessandro Bausani, seguace della fede Baha’i, e Ugo Bianchi, cattolico e consultore del Segretariato vaticano per i non cristiani negli anni Settanta. Su Pettazzoni cfr. l’ampio materiale raccolto da M. Gandini tra 1989 e 2009, «Strada maestra», Quaderni della biblioteca comunale ‘G. C. Croce’ di San Giovanni in Persiceto.
79 L’espressione, di De Martino, è in verità riferita a Mircea Eliade. Di R. Otto, Il sacro. L’irrazionale nell’idea del divino e la sua relazione al razionale [1917], si legge tuttora nella versione di Buonaiuti (Bologna 1926, Milano 2009).
80 Lettera del 27 agosto 1925, vedine il testo in G.M. Viscardi, Buoniauti, D’Elia, De Luca e il modernismo in un piccolo carteggio, «Ricerche per la storia religiosa di Roma», 8, 1990, pp. 339-340.
81 E. Buonaiuti, Pellegrino di Roma, cit., p. 114.
82 Ibidem, p. 165.
83 Cfr. R. Morozzo della Rocca, Maria dell’eremo di Campello. Un’avventura spirituale nell’Italia del Novecento, Milano 1998, p. 67 segg.
84 Cfr. per queste e altre notizie in particolare M. Maraviglia, L’esperienza ecumenica dell’eremo di Campello, in L’ecumenismo di don Primo Mazzolari, a cura di M. Margotti, M. Maraviglia, Genova-Milano 2009, pp. 163-193.
85 È la lettera a Pio XII del giugno 1942 riprodotta in più luoghi, da ultimo in S. Maria di Campello, P. Mazzolari, L’ineffabile fraternità. Carteggio (1925-1959), a cura di M. Maraviglia, Magnano 2007, pp. 145-151.
86 Cfr. N. Raponi, Correnti spiritualiste e problemi religiosi nella cultura e nella società italiana del primo Novecento, in Cultura e società in Italia nel primo Novecento (1900-1915), Atti del Convegno (Milano 1981), Milano 1984, pp. 115-146.
87 E. Garin, La biblioteca filosofica di Firenze, «Filosofia», 3, 1961, p. 737. «L’anima. Saggi e giudizi» uscì da gennaio a dicembre del 1911, con redattori Giovanni Amendola e Giovanni Papini. Sulle Biblioteche filosofiche di Firenze e Palermo cfr. Id., Cronache di filosofia italiana (1900-1943), Bari 1995, pp. 41-44, 48-51.
88 A. Monticone, Alessandro Casati, cit., pp. 170-174.
89 Per la vicinanza tra Papini e Boine cfr. U. Carpi, Boine intellettuale vociano, in Giovanni Boine, Atti del Convegno nazionale di studi, a cura di F. Contorbia, Genova 1981, p. 155.
90 A. Hermet, La ventura delle riviste, Firenze 1941, pp. 89-90. Sulla Biblioteca Filosofica e la sua mecenate, la teosofa americana Julia H. Scott, cfr. anche L. Martini, Arrigo Levasti, in Id., Chiesa e cultura cattolica a Firenze nel Novecento, Roma 2009, pp. 95 segg.
91 Cfr. su questo U. Carpi, Amendola e Boine: prospettive di etica vociana, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», 1964, pp. 223-250.
92 «L’Anima», 4, aprile 1911, pp. 99-109.
93 Su questi temi e testi cfr. A. Capone, Giovanni Amendola e la cultura italiana del Novecento, Roma 1974, pp. 211-238.
94 Lettera del 7 dicembre 1911, in G. Boine, Carteggio, IV, Giovanni Boine - Amici della «Voce» - Vari, 1904-1917, a cura di M. Marchione, S.E. Scalia, Roma 1979, p. 283.
95 A. Bondi, Giovanni Amendola e il «Rinnovamento», in Aspetti religiosi e culturali della società lombarda negli anni della crisi modernista, 1898-1914, a cura di C. Marcora, G. Rigamonti, Como 1979, p. 420.
96 Cito dall’edizione garzantiana del 1948: i passi citati alle pp. 9-10; il testo è stato riedito di recente in G. Boine, L’esperienza religiosa e altri scritti di filosofia e letteratura, a cura di G. Benevenuti, F. Curi, Bologna 1997.
97 Ma si veda su questo L. Bedeschi, Giovanni Boine e il «Rinnovamento», in Giovanni Boine cit., pp. 109-127.
98 Comparso su «La Voce» del 17 agosto 1911, il testo è riedito in G. Boine, L’esperienza religiosa e altri scritti, cit., pp. 81-98 (87).
99 G. Boine, Carteggio, cit., rispettivamente alle pp. 269 e 274.
100 G. Boine, L’esperienza religiosa cit., pp. 51-52.
101 Ibidem, pp. 58-59.
102 Su questa strutturale ambiguità dell’‘esperienza religiosa’ in Boine cfr. E. Gioanola, Il mistico senza estasi. Saggio sul religoso e il poetico in Giovanni Boine, in Giovanni Boine cit., pp. 129-148.
103 «L’anima», novembre 1911, p. 339.
104 Ibidem, p. 332.
105 Per l’inquadramento e l’analisi di quest’opera si veda la presentazione di A. Asor Rosa in Letteratura italiana cit., Le Opere, IV, Il Novecento, 1, L’età della crisi, Torino 1995, pp. 265-332.
106 G. Boine, Carteggio, cit., pp. 310 e 334.
107 G. Amendola, Il libro non letto, «La Voce», 9 maggio 1912.
108 Id., Carlo Michelstaedter, in Etica e biografia [1915], Milano-Napoli 1953, p. 168.
109 G. Boine, La ferita non chiusa, «La Voce», 23 marzo 1911; ora in Id., L’esperienza religiosa, cit., pp. 72-77 (73).
110 Nella folta letteratura michelstaedteriana (per la quale si veda la Bibliografia di A. Michelis, in Eredità di Carlo Michelstedter, a cura di S. Cumpeta, A. Michelis, Udine 2002, pp. 257 segg.), merita una menzione M. Cacciari, Interpretazione di Michelstaedter, «Rivista di estetica», 22, 1986, pp. 21-36.