I cattolici e il sindacato: dall'estraneita alla partecipazione
Trattare del sindacato nel quadro di una generale, vastissima riflessione sui ‘Cristiani d’Italia, vuol dire evocare una delle più significative esperienze indirizzate al miglioramento delle condizioni non solo economico-sociali ma anche culturali, civili e, latamente, politiche della società italiana condotte, per quanto concerne la collocazione nel tempo, tra la fine dell’Ottocento e gli anni Settanta del Novecento. Un’esperienza fatta di idee e azioni ispirate, visibilmente ed esplicitamente prima, e implicite nelle loro manifestazioni poi, ai valori della fede cattolica, un’esperienza di uomini e donne, religiosi e laici, mossi dalla consapevolezza di appartenere a una realtà ecclesiale che richiedeva d’impegnare le proprie capacità per il bene di tutti, singoli e comunità.
Poche parole di avvio, solo per richiamare qualche specificità del tipo di esperienza di cui si parlerà: il sindacato, appunto, espressione della libera volontà dei lavoratori di associarsi a difesa dei propri interessi ma anche forza sociale chiamata a entrare in rapporto con le istituzioni, le forze politiche ed economiche e le altre forze sociali per contribuire alla formazione delle decisioni necessarie a far progredire sotto tutti i profili l’intera collettività nazionale, nel convincimento che «la classe politica […] non è […] la sola depositaria del destino» di quella collettività e che il sindacato «non è un semplice organismo di tutela di interessi ristretti di gruppo» ma un soggetto collettivo impegnato ad agire sul fondamento di «una visione globale degli interessi della società»1.
Nel corso dell’Ottocento, in Italia e altrove, ad alleviare vecchie situazioni di bisogno e nuove ‘povertà’ emergenti in conseguenza dei grandi cambiamenti a noi noti come rivoluzione industriale, provvedevano, accanto alle strutture caritative della Chiesa e agli enti privati e pubblici, statali e non, le società di mutuo soccorso. E furono proprio queste a svolgere funzioni parasindacali, occupandosi di retribuzioni, di condizioni di lavoro, specie minorile e femminile, di durata del lavoro.
Ma le società di mutuo soccorso e gli altri soggetti della stessa natura non potevano operare con efficacia perché troppo grandi erano le differenze fra la vecchia e la nuova economia e perché troppo radicale era il cambiamento nei rapporti fra i lavoratori e i datori di lavoro determinato dall’industrializzazione.
L’esigenza di contrastare la tendenza a fissare le paghe al più basso livello possibile; a ‘costruire’ ambienti di lavoro adatti ai beni impiegati nel processo produttivo piuttosto che alle persone che, lavorando in quegli ambienti, passavano la maggior parte della loro vita; a rendere meno precaria l’occupazione e, quindi, a rendere meno facili i licenziamenti perché la disoccupazione significava, quasi sempre, miseria, era diventata permanente. E permanente era diventato il conflitto fra lavoratori e imprese, un conflitto che richiedeva di essere costantemente controllato e regolato, mentre il mutuo soccorso operava secondo una logica di puro intervento correttivo e di puro sostegno dei lavoratori ma ex post e, comunque, non nei confronti dell’impresa2.
Le accennate trasformazioni stavano avvenendo nei diversi paesi in tempi diversi. In Italia, esse ebbero luogo verso la fine degli anni Settanta del XIX secolo. Le prime forme di lotta organizzata esercitate attraverso nuove forme associative si registrarono fra gli operai tessili del biellese e furono a guida prevalentemente socialista. Successivamente si estesero agli operai dello stesso settore in altre province e poi fra i lavoratori di altri settori produttivi, come i tipografi, i metallurgici, i ferrovieri e, quasi contemporaneamente, gli ‘agricoli’. Coinvolgendo questi ultimi, un’esperienza tipica del lavoro industriale si trasferì nella quasi immobile realtà contadina. In tal modo essa interessò i braccianti senza terra, i salariati delle grandi aziende agricole della Val Padana ma anche i mezzadri, i coloni, i piccoli affittuari che non erano propriamente lavoratori dipendenti ma che avevano, come questi, posizioni vitali da difendere e, diversamente da questi, problemi di conflitto con i proprietari fondiari e i loro intermediari, e con i conduttori dei fondi3.
A questa fase di avvio dell’esperienza sindacale non furono estranei i cattolici. Anzi non va dimenticata, per motivazioni e contenuti dell’azione di tutela dei lavoratori e, in genere, delle classi popolari, l’originalità dell’operato delle congregazioni religiose maschili e femminili fondate nell’Ottocento in tutta Italia ma con prevalenza al Nord e in particolare in Lombardia4. Infatti, alle nuove finalità che esse si proponevano di conseguire – come «[l’]educazione delle bambine e delle ragazze, [la] cura dei malati a domicilio e negli ospedali, [l’]assistenza degli orfani, [la] cura dei sordomuti, [l’]assistenza a prostitute, pericolanti, carcerate, [le] cucine economiche» – si aggiunsero, «a mano a mano che si avanza nel secolo», l’istruzione professionale, le scuole di lavoro, le scuole serali, le colonie agricole5 ossia una serie di iniziative chiaramente orientate a favorire l’ingresso dei giovani in una realtà in progressiva, ancorché un po’ caotica, trasformazione.
È vero però che, per spiegare le origini del sindacato ‘bianco’, occorre fare riferimento alla svolta costituita dalla nascita dell’Opera dei congressi e, del pari, al progressivo rafforzamento e sviluppo delle iniziative affidate alla sua II sezione, specialmente quando questa passò sotto la direzione di Stanislao Medolago Albani e poté attingere al pensiero di Giuseppe Toniolo.
Non è questa l’occasione per richiamare una vicenda ampiamente conosciuta, ricostruita in modo approfondito da uno studioso indimenticato come don Angelo Gambasin6. Sappiamo che le esperienze più significative, accumulate anche per impulso diretto dell’organizzazione, a parte quelle legate al grande fenomeno delle migrazioni in Europa e nelle due Americhe, riguardavano la cooperazione, l’alfabetizzazione, l’istruzione professionale, l’assistenza alle giovani occupate nelle fabbriche tessili, l’organizzazione di uffici per il disbrigo delle pratiche burocratiche, sovente inaccessibili a una popolazione in gran parte analfabeta. Ma sappiamo anche che, ben presto, dalla II sezione dell’Opera vennero impulsi molto significativi per la creazione e lo sviluppo di strutture autenticamente sindacali e che la Rerum novarum vi contribuì non poco.
La strada che portò all’emanazione della grande enciclica è nota, come altrettanto note sono del resto le molteplici ragioni che spiegano la decisione del papa di lanciare al mondo un grande segnale della volontà della Chiesa di intervenire con un documento organico sulla questione operaia, fatta coincidere con la questione sociale tout court.
La dottrina di Leone XIII insegnava che una trasformazione dei rapporti economici e sociali che liberasse «l’infinita moltitudine dei proletari [da un] giogo poco meno che servile»7 sarebbe avvenuta solo sul fondamento di un’autentica conversione delle anime. D’altra parte, essa insegnava anche che esistevano gli strumenti concreti di quella trasformazione, che si chiamavano: cooperazione, istruzione, organizzazione, diffusione di associazioni «sia di soli operai sia miste di operai e padroni» che il papa vedeva «con piacere formarsi ovunque»8.
Ora, nella sua espressione letterale, il richiamo alle unioni miste «di operai e padroni» esprimeva un’implicita preferenza per un tipo di associazione lontanissimo dalla concezione, ormai ampiamente consolidata e condivisa in Italia e altrove, del sindacato come organismo formato di soli lavoratori. Non di meno, collocare l’enciclica fra gli atti del magistero dei pontefici che molto hanno contribuito a integrare ulteriormente la Chiesa nella società italiana a tutti i livelli è giustificato dall’interpretazione che della medesima enciclica fu data. Nessun organizzatore di leghe, infatti, pensò mai di mischiare «operai e padroni» nelle strutture di base ma tutti, quando s’impegnarono nell’azione, diedero vita ad associazioni di soli lavoratori.
Ne è buon esempio Filippo Meda, nel 1902, quando scriveva che «nessuno di noi dirà che si debba tornare alle leghe medievali. L’associazione dei lavoratori è un fatto utile e socialmente benefico, scuola di partecipazione al processo produttivo, mezzo ordinario per rappresentare ragioni e necessità. A essa corrisponde, per il padronato, un dovere di ascolto e di comprensione: perché abituare i lavoratori ad aspettarsi tutto dalla loro forza e a non confidare affatto nel comune senso di giustizia che impone insieme larghezza e freni?»9.
Così come dell’indirizzo concreto assunto dal cattolicesimo sociale è manifestazione ancora più convincente la relazione svolta da Mario Chiri durante la Settimana sociale di Assisi del 1911, quando affermava che «le classi lavoratrici» sarebbero uscite dalla condizione di emarginazione nella quale erano collocate «solo per mezzo di forti organismi professionali». Solo attraverso questi ultimi, infatti, si sarebbe potuto «giungere ad una posizione di libertà, di parità di contratto di lavoro». In tal modo, assicurata «la difesa dei propri legittimi interessi», assunta «una sicura coscienza delle proprie responsabilità» e rispettati «i diritti delle altre classi [e] collaborando con esse al benessere comune», i lavoratori avrebbero occupato «quel ruolo che a loro spetta nella compagine sociale»10. Infine, Achille Grandi, uno dei massimi esponenti del sindacalismo ‘bianco’, offre un’ulteriore testimonianza di questa precisa attitudine. Al riguardo, egli scriveva:
«[…] ricordo: era l’anno 1901. Un fremito, una parola sola correva da qualche tempo in tutta Italia vivificata dall’entusiasmo di anime ardenti e studiose. Era d’uopo scendere dal campo teorico nel campo pratico […]. Il programma era già tracciato dal Sommo [pontefice] Leone XIII, nell’immortale enciclica Rerum novarum sulla questione sociale […]. E sorsero molteplici nostre unioni professionali e leghe del lavoro»11.
Del resto, Vincenzo Saba, nella sua biografia di Giulio Pastore, scrive, a proposito della questione sopra ricordata, che «colpisce la chiarezza e la semplicità con cuiPastore, interpretando la Rerum Novarum fuori da ogni accostamento scolastico, va subito al cuore del problema. L’enciclica leonina è innanzitutto la solenne affermazione “del diritto degli operai di riunirsi per la tutela e la difesa dei loro interessi”». E poi, rileva ancora Saba, Pastore vedeva espressa nell’enciclica «un’idea di giusta libertà per gli operai» i quali «attraverso le proprie associazioni riconosciute pari di forza e di dignità agli altri fatti della vita economica e sociale» e in piena autonomia rispetto allo Stato «agiscono per la tutela degli uomini del lavoro»12.
Negli anni Novanta dell’Ottocento, l’irrobustimento della componente ‘industriale’ dell’apparato produttivo determinò l’allargamento e la relativa stabilizzazione dell’associazionismo di tipo autenticamente sindacale che si distinse sempre di più dalle altre forme tradizionali di aggregazione (mutuo soccorso e cooperazione).
Tuttavia, in conseguenza del carattere fortemente disomogeneo del processo di industrializzazione e, soprattutto, della sua diseguale distribuzione sul territorio, il nerbo più consistente del nascente sindacato – ‘rosso’ o ‘bianco’ che fosse – fu costituito dalle ‘leghe’: organismi a base locale, formati da lavoratori di uno stesso ‘mestiere’ e portati ad agire in piena autonomia, anche perché, proprio per le ragioni già accennate, mancavano i presupposti per una direzione unitaria del movimento.
Quello della fine dell’Ottocento e degli inizi del Novecento era un sindacato con alcuni punti deboli, che andavano da un’azione improntata alla pura resistenza alla notevole ritrosia a pagare con la necessaria continuità le quote associative – circostanza, questa, che paralizzava ogni possibile, ancorché minima, iniziativa. Inoltre, era quello un sindacato che tendeva a limitare la propria azione «ad una preparazione di agitazioni e di lotte di conquista quasi mai caratterizzate da fine comune» sicché la sua «efficacia ai fini della vera e reale difesa dei contratti di lavoro e delle ingiustizie patite dai propri iscritti, è del tutto inadeguata»13.
Si trattava però di una situazione destinata a mutare rapidamente, perché la diffusione dell’industrializzazione, anche se debole e squilibrata, determinava l’estensione del ‘sistema di fabbrica’ e di conseguenza accentuava l’esigenza di una qualche forma di guida e coordinamento delle ‘leghe’.
Una prima risposta a una tale esigenza venne dalle Camere del lavoro (nel 1892 le prime, quelle di Milano e Piacenza), organismi che, ispirati al ‘modello’ francese, incorporavano sezioni rappresentative dei diversi mestieri in un dato territorio. Nate dal movimento socialista marxista, le Camere del lavoro erano soprattutto espressione dell’unità della classe operaia piuttosto che dei lavoratori occupati nei molteplici settori dell’economia, e di quell’unità rappresentarono, per lungo tempo, la dimensione territoriale.
Una seconda risposta fu determinata dalla configurazione che il sistema di produzione e scambio, dell’industria soprattutto, stava assumendo, e che comportava la presenza, in una stessa unità produttiva, di numerosi, diversi e nuovi mestieri. Di conseguenza, il sindacato ‘doveva’ articolarsi in modo coerente con tale configurazione ossia per settore produttivo o ramo d’industria. Contemporaneamente stava emergendo la necessità di sostenere l’azione delle associazioni con un forte coordinamento, non solo per dar forza alle rivendicazioni ma anche per trovare una comune linea di azione a fronte di problemi comuni. Di qui il moltiplicarsi delle federazioni di categoria a base nazionale che si ponevano alla guida delle ‘leghe’, sparpagliate sul territorio e formate dai lavoratori occupati in uno stesso settore.
Gli accenni ai caratteri del nascente sindacato lasciano intravedere un’organizzazione non unitaria ma plurale, anche se «preoccupazioni, analisi, programmi, forma dell’organizzazione erano in sostanza gli stessi»14. Non di meno si «marciava divisi» perché «il cemento delle opzioni sindacali […] era allora costituito più da elementi ideali che dalle spinte legate alle condizioni strutturali del paese [e] da un alto grado di soggettività non meccanicamente riducibile ai rapporti di produzione»15. Si trattava della diversa concezione generale dell’uomo e della società, dell’idea di una condizione di lotta permanente fra le classi costituenti la compagine sociale, dell’insieme dei diritti civili ed economici, del ruolo della religione e della sua temuta (o auspicata) influenza sui caratteri dell’azione sindacale.
Va detto però chiaramente che concezioni tra loro incompatibili sul sindacato, sulle sue finalità e sui suoi metodi di lotta esistevano non solo tra cattolici e socialisti ma anche fra gli stessi socialisti, tra il sindacato ispirato alle idee di Rinaldo Rigola e Bruno Buozzi e quello di Enrico Ferri e Arturo Labriola, e tra tutti questi e i soreliani16.
Non è difficile immaginare quanto esigui dovessero essere i margini di collaborazione fra questi ultimi e coloro che guardavano invece a Filippo Turati. Gli uni convinti che «il nuovo sindacalismo cresciuto sotto le ali tutelatici della frazione rivoluzionaria del partito socialista, combatte da noi le federazioni, le alte quote, la mutualità la disciplina sindacale; sdegna le conquiste graduali; fa l’apologia delle Camere del Lavoro, combatte l’azione parlamentare, propugna lo sciopero generale»17. Gli altri altrettanto convinti che
«vi sono due modi di condurre l’azione, due diverse politiche […] l’una di queste ripudia dalla partecipazione di ogni politica che non sia la politica del cataclisma e della insurrezione, compiacendosi di un verbalismo antiquato, confidando in un rimescolamento che debba avvenire non per opera assidua e paziente di graduale trasformazione; l’altra invece non crede ai miracoli delle palingenesi sociali, relega le insurrezioni e i colpi di mano fra i ferrivecchi del lontano passato, rifugge dalla posa istrionica e dall’atteggiamento demagogico, ma guarda con pacata obiettività al complesso delle questioni e ricerca e approfondisce ed elabora con la tenacia che gli deriva dal convincimento profondo che soltanto così il quarto stato compie la sua rivoluzione. A tale azione si uniforma la grande maggioranza del proletariato italiano. […] a questa seconda azione chiediamo continui ad uniformarsi la Federazione italiana dei lavoratori del legno»18.
Per quanto concerne i cattolici, a ostacolare anche la semplice prospettiva dell’unità d’azione con le altre organizzazioni vi era il fatto che iscritti e dirigenti delle strutture sindacali socialiste a tutti i livelli rifiutavano di accogliere nelle loro fila o di collaborare anche negli organismi di base con i lavoratori cattolici. Decisivo era, infatti, il rifiuto di considerarli possibili alleati nelle battaglie del lavoro, essendo fermamente convinti di una loro genetica incapacità a partecipare, con la necessaria determinazione, alla difesa degli interessi dei lavoratori.
A parte tutto ciò, credo che la ragione principale che spiega la nascita e il successivo sviluppo di un’organizzazione sindacale ‘bianca’ parallela sia da vedere da una parte, nella dichiarata inconciliabilità con il socialismo marxista, come insegnava chiarissimamente la Rerum novarum; dall’altra, nell’atteggiamento duramente ostile alla Chiesa, che, proprio relativamente alle questioni del lavoro e del ruolo del sindacato, era considerata alleata dei ‘padroni’. Di riflesso, ai lavoratori che non nascondevano la loro appartenenza a quella Chiesa, non si riconosceva legittimazione alcuna a intraprendere qualsivoglia azione in difesa del lavoro, e a essi era preclusa anche l’appartenenza alle strutture sindacali di matrice socialista, nonostante le ripetute affermazioni, chiaramente strumentali, secondo le quali l’iscrizione a quelle strutture sarebbe avvenuta a prescindere da ogni appartenenza religiosa, culturale o politica19.
D’altra parte, come osserva Vincenzo Saba, era davvero difficile che i lavoratori cattolici potessero accettare il dominio del pensiero marxiano e le prospettive di rivoluzione sociale (che era poi il traguardo da raggiungere, presto o tardi), perché avrebbe significato la subordinazione dell’azione sindacale all’azione politica e, soprattutto, la condivisione di una prospettiva tutta culturale «connessa al dottrinarismo con cui si pensava di applicare astrattamente e librescamente gli ideali permanenti e storici di ricomposizione sociale alla realtà emergente del conflitto industriale»20.
Il movimento sindacale italiano, dunque, era pluralista. Ma, se si guarda alla distribuzione del consenso fra i lavoratori, è più vicina alla realtà l’affermazione del carattere duale del movimento stesso: un robusto sindacato di matrice socialista con le sue varianti interne e un più esiguo sindacato ‘cattolico’. Sicché si può convenire con Alceo Riosa quando, con riferimento alle fondamenta ideali di ciascuna delle due componenti, scrive che «dottrina sindacale cristiana e ideologia socialista hanno parimenti svolto un ruolo di aggregazione, anche se ciascuna con esiti diversi»21.
In verità, le strutture di base del sindacalismo ‘bianco’ non erano poi tanto irrilevanti se si considera che, alla fine del 1904, erano in attività 166 leghe con 60.000 iscritti. Si trattava, però, di qualcosa di molto distante dal numero di leghe e di iscritti delle organizzazioni socialiste. Basterà infatti ricordare che nel 1901, al momento della costituzione della Federazione nazionale dei lavoratori della terra, furono presenti i delegati di 724 associazioni con 152.000 iscritti22.
Per spiegare la diversa consistenza dei due movimenti sindacali bisogna considerare una specie di autolimitazione dei cattolici a ritagliarsi una presenza e a concentrare le iniziative per la creazione di strutture sindacali nei luoghi e nei settori produttivi potenzialmente favorevoli a raccogliere le adesioni dei lavoratori lontani dalle posizioni dei socialisti. Ma neppure si possono ignorare le discriminazioni patite dalle organizzazioni cattoliche, escluse, di fatto, dalla partecipazione alle attività di alcuni organismi creati dallo Stato proprio per trattare la materia del lavoro.
Tali discriminazioni furono attuate nel primo Novecento e nel primo dopoguerra in riferimento al funzionamento del Consiglio superiore del lavoro, un organo creato, come noto, nel 1902, per l’esame delle questioni concernenti i rapporti tra capitale e lavoro, per lo studio di provvedimenti atti a migliorare le condizioni dei lavoratori, per l’elaborazione di pareri su disegni di legge concernenti il lavoro. Nel primo Novecento la discriminazione ai danni della componente cattolica si manifestò con una manovra, peraltro riuscita, «tendente ad escludere da ogni forma di rappresentanza gli esponenti del movimento sociale cattolico» e, del pari, con una modifica della legge istitutiva del Consiglio, e del regolamento connesso, nella prospettiva che fosse demandato «alla Federazione delle Camere del Lavoro e alla Federazione delle Federazioni professionali di lavoratori [organismo inesistente con quel nome] il diritto di nomina dei propri rappresentanti nel Consiglio superiore del lavoro»: con la conseguenza, evidente, di perpetuare il monopolio della rappresentanza dei lavoratori in un consesso che avrebbe dovuto essere, invece, aperto a tutti. Sicché, come ha scritto Mario Abrate, il Consiglio superiore del lavoro anziché essere una specie di parlamentino del lavoro «si trasformò ben presto in una dépendance della Confederazione generale del lavoro»23. E nel dopoguerra la discriminazione si manifestò quando Francesco Saverio Nitti confermò ‘l’esilio’ dei cattolici perché Claudio Treves era contrario all’ingresso nel Consiglio del lavoro di un rappresentante del sindacato ‘bianco’24. Infine, una terza esclusione fu operata da Giovanni Giolitti nel 1920, quando rifiutò di inserire nella commissione incaricata di predisporre un disegno di legge per l’introduzione del controllo operaio nelle aziende un rappresentante della Confederazione italiana dei lavoratori (Cil), nonostante la consistente massa dei suoi iscritti25.
A spiegare, almeno in parte, tutto questo, vi è la questione della ‘confessionalità’, che continuava a ostacolare, più o meno pretestuosamente, l’azione dell’organizzazione ‘bianca’. Intesa come volontà di rapportare la politica sindacale alla dottrina sociale della Chiesa e di fare dell’appartenenza alla Chiesa stessa e, più in generale, della condivisione dei valori da essa affermati motivo di esclusione dei lavoratori, la posizione di autorevoli protagonisti del movimento cattolico era abbastanza chiara, anche se non condivisa da tutti. Se da un lato Giuseppe Toniolo ricordava, nel 1904, che «il fine ultimo inscindibile» era di «educare cristianamente il popolo», dall’altro egli però era del parere che, relativamente all’inclusione dei lavoratori nelle strutture, si dovesse agire «con tutta quella varietà e larghezza di accorgimenti e d’espedienti ed entro quei limiti di prudenza che la necessità e le circostanze di tempo e di luogo consentono ed impongono; e ciò negli stessi contatti con le Camere del lavoro socialistiche». E lo stesso Luigi Sturzo sosterrà, nel 1907, che «ove nessuna organizzazione professionale esiste» la si deve promuovere, ma «con la massima larghezza di criteri, in modo che accolga tutti i lavoratori e ne rappresenti tutti gli interessi»26.
Le difficoltà delle leghe ‘bianche’ di trovare un loro spazio d’azione erano, comunque, oggettive. Non di meno cresceva la loro capacità di acquisire consensi fra i lavoratori di molti settori produttivi, industrie comprese27. Si è detto delle 166 leghe con circa 60.000 iscritti nel 1904. Dieci anni dopo le leghe erano diventate 636 e gli iscritti 103.300. Particolarmente significativo il successo riscosso nelle campagne giacché, alla vigilia della guerra, la componente ‘agricola’ delle strutture sindacali bianche, con 298 leghe e 63.000 iscritti, costituiva il 13 % del totale dei lavoratori sindacalizzati, quando nell’industria la quota delle leghe ‘bianche’ sul totale non superava il 9% (338 leghe con 40.000)28.
Riosa conferma che «specialmente tra il 1910 e il 1914, il sindacalismo cattolico si diffuse in zone e in settori sociali appena scalfite dal sindacalismo socialista: nel settore industriale tra la manodopera maschile e femminile non qualificata adibita a lavori di manovalanza, più soggetta alla precarietà del posto di lavoro, in prevalenza costretta all’emigrazione stagionale tra campagna e città». E difatti una rilevazione, di pochissimo precedente a quella citata, evidenziava che dei circa 38.000 iscritti nelle leghe ‘industriali’, 29.700 erano occupati nelle industrie tessili, gli altri essendo ripartiti in una decina di settori29. Ed è lo stesso autore a rilevare che «il seguito più consistente il sindacalismo bianco lo conquistò nelle campagne, tra le categorie di lavoratori agricoli non bracciantili: alle roccheforti delle campagne lombarde e della Sicilia si aggiunsero il Veneto, dove nel 1910, fu dato vita al Sindacato veneto dei lavoratori della terra»30.
In conseguenza del fatto che l’economia italiana stava attraversando una fase di espansione e di trasformazione strutturale e che l’organizzazione sindacale aveva assunto una notevole consistenza e si era consolidata, le retribuzioni avevano ottenuto importanti incrementi ed era aumentata l’occupazione industriale. Si stima che le retribuzioni giornaliere dei salariati agricoli e degli operai delle fabbriche siano cresciute, nel primo decennio del Novecento, del 30-40%31.
Così anche al pur minoritario sindacato ‘bianco’ va accreditato un suo specifico contributo al miglioramento delle condizioni economiche dei lavoratori dipendenti, ignorando il quale sarebbe difficile spiegare il successo degli anni successivi, sino alla Prima guerra mondiale e oltre.
Una spinta considerevole all’irrobustimento di tutta l’organizzazione venne, negli anni del conflitto, dall’eccezionale aumento della produzione industriale, determinato dal formidabile incremento della domanda di materiale bellico. Una condizione, questa, comune a tutti i paesi impegnati direttamente o indirettamente nel conflitto, ma particolarmente impegnativa per l’Italia.
Per il nostro paese, infatti, si trattò non soltanto di una forte crescita quantitativa ma anche di un allargamento della preesistente gamma dei prodotti, allargamento favorito dal venir meno delle forniture dall’estero, che impose una pronta risposta dell’industria nazionale chiamata a cimentarsi nella fabbricazione di merci la cui domanda era sempre stata soddisfatta dalle importazioni. Attraverso questa via, si realizzò un cambiamento dell’apparato produttivo che ne modificò i caratteri così profondamente che nemmeno la grave crisi della transizione dalla guerra alla pace riuscì a cancellare.
Di conseguenza, per quanto concerne l’occupazione, vi fu un imponente aumento dell’occupazione industriale, specialmente della componente femminile nei settori tradizionalmente coperti da lavoratori, aumento che influì a sua volta sulla consistenza numerica dei lavoratori organizzati.
Un contributo importante alla ‘maturazione’ dell’esperienza sindacale fu esercitato dalla legislazione di guerra, perché ne uscirono allargate le attività propriamente sindacali, e non solo in termini quantitativi. Infatti, l’assoluta necessità di non ostacolare la produzione con astensioni dal lavoro, se non bloccò totalmente il ricorso allo sciopero32, moltiplicò, in misura mai sperimentata sino ad allora, il ricorso alle procedure di conciliazione, che, in un modo o in un altro, mobilitarono le rappresentanze dei lavoratori chiamate ad affrontare questioni del tutto estranee al tradizionale lavoro sindacale, se non altro come modo di affrontarle.
Lo testimonia il discorso del segretario generale della Fiom al congresso di Roma del 1918. Si riconobbe, infatti, che i comitati per la mobilitazione industriale «hanno fatto fare agli industriali e agli operai un buon passo […] hanno dato a noi una più profonda conoscenza delle ragioni degli industriali, ci hanno abituati a considerare più seriamente il problema della gestione dei mezzi di produzione e hanno infine obbligato gli industriali a non valutare più il lavoro come un elemento secondario e trascurabile della produzione stessa»33.
Ma, negli anni della guerra, erano avvenuti due fatti destinati ad assumere grande rilevanza negli anni della transizione e a incidere profondamente sull’azione sindacale e sui rapporti di lavoro, oltre che sulla situazione politica. Il primo aveva interessato il mondo rurale, dal quale, come sappiamo, proveniva gran parte dell’esercito combattente. È ben noto come ai soldati-contadini, dopo il disastro di Caporetto, fosse stata promessa una riforma attesa da decenni, quella della proprietà fondiaria, da pensare nella prospettiva della formazione di una proprietà diretto-coltivatrice e a ‘spese’ della grande e grandissima proprietà, latifondista e non. Il secondo aveva riguardato prevalentemente i lavoratori dell’industria, i cui salari reali avevano subito una decurtazione consistente, ancorché diseguale fra i lavoratori dei diversi settori produttivi, perché, al crescere dei prezzi dei generi e specialmente di quelli di base, non era corrisposto un aumento delle retribuzioni che lo compensasse. Inoltre, l’andamento dei profitti, dei redditi e delle rendite delle altre categorie economiche in confronto alla dinamica dei prezzi era stato di segno opposto a quello del lavoro dipendente, e questo aveva creato sacche di privilegio sostanzialmente immuni dai sacrifici patiti dalla moltitudine.
Con la fine della guerra si aprì una fase di transizione davvero difficile da superare. La caduta della domanda di materiale bellico innescò una crisi a scala internazionale che, tra la fine del 1919 e la metà del 1921, colpì quasi tutte le economie e che fu particolarmente grave per l’Italia. Si trattava non solo della difficoltà di sostenere la concorrenza internazionale e di trovare una compensazione delle politiche protezioniste dei vecchi e dei nuovi paesi nati dal riordinamento che i paesi vincitori avevano stabilito a Versailles per l’Europa, ma anche di come sostituire la scomparsa domanda bellica, vista l’impossibilità di surrogarla con quella interna, strutturalmente debole perché basso era il potere d’acquisto del mercato ‘domestico’.
Era una situazione dalla quale non era facile uscire a motivo della sostanziale debolezza dell’economia e, specialmente, della sua componente industriale, incapace di trovare un nuovo equilibrio dopo gli anni fruttuosissimi del conflitto. A complicare le cose contribuiva, e non poco, una dissennata politica fiscale che, mentre non aveva inciso con la dovuta severità tassando gli elevati profitti delle imprese impegnate nelle forniture pubbliche quando essi erano stati conseguiti, aveva aperto un contenzioso proprio nella fase della difficile transizione, quando, oggettivamente, non c’era più nulla da tassare, anche perché buona parte degli utili era stata distribuita o impiegata più o meno provvidamente.
E va tenuta in debito conto anche la totale mancanza di ogni considerazione per le proposte che la Commissione pel dopoguerra – poderosa per la quantità e la qualità dei suoi membri – aveva fatto in ordine non solo alle politiche economiche e sociali ma anche alla riorganizzazione dello Stato, proposte che certamente avrebbero offerto alla classe politica materiali e indicazioni sui quali fondare politiche appropriate e rispondenti alle effettive necessità del paese34.
A tutto questo si aggiunsero le rivendicazioni dei lavoratori dell’industria e dell’agricoltura, sicché le imprese furono sottoposte alla pressione dei lavoratori, decisi non solo a ostacolare i licenziamenti determinati dal persistente, basso livello di produzione ma anche a recuperare il potere d’acquisto dei salari che l’inflazione del periodo bellico aveva decurtato.
La mancata soluzione dei problemi, dovuta in molta parte all’instabilità del quadro politico – tra il 1919 e il 1922 ben sei governi si alternarono alla guida del paese – determinò l’innalzamento della tensione sociale, che raggiunse livelli straordinariamente elevati. Il movimento sindacale si trovò impegnato a gestire una situazione resa più complessa dalla tendenza a radicalizzare i conflitti di lavoro in funzione di obiettivi politici e soprattutto dell’obiettivo, che sembrava concretamente raggiungibile, della rivoluzione sociale, come suggerivano la vastità dei moti bolscevichi in tutta Europa e gli esiti della rivoluzione in Russia.
Un buon indice dell’asprezza raggiunta dal conflitto sociale in quegli anni è dato dall’andamento degli scioperi, saliti dai 1.871 del 1919 ai 2.070 dell’anno successivo, scioperi che coinvolsero da 1,8 a 2 milioni di lavoratori nell’arco del biennio35. Si trattava di agitazioni fondate su motivazioni di carattere economico ma non prive di ‘ragioni politiche’ e, in ogni caso, s’inserivano «in un clima politico e sociale in cui i problemi della mobilitazione interna e i richiami rivoluzionari provenienti dall’estero non [fecero] che rendere più esplosiva la situazione e meno facile la ricomposizione dei conflitti nell’ambito di una logica non rivoluzionaria»36.
E proprio sul finire della guerra fu costituita la Confederazione italiana lavoratori, che va considerata, a un tempo, punto d’arrivo di un’esperienza ormai ventennale37 e punto di partenza per un movimento sindacale più efficace nell’azione e più efficiente nelle sue componenti e strutture.
La decisione di creare un organismo di questo tipo derivava dalla necessità di rafforzare l’organizzazione del sindacato come condizione per la sua capacità di perseguire, con il massimo di risultati positivi, gli obiettivi di tutela e promozione dei lavoratori, cosa che il processo di maturazione del movimento sembrava del resto consentire. Giovanni Battista Valente, che del sindacalismo ‘cattolico’ delle origini fu un protagonista, forte dell’esperienza maturata in Germania, riteneva infatti che
«alla vaga, inconsistente formula delle unioni professionali di carattere locale del periodo del Toniolo e del periodo democratico-cristiano si veniva contrapponendo nella coscienza dei cattolici, il principio dei sindacati nazionali di categoria, il più possibile centralizzati, cioè organizzati intorno ad un centro dinamicamente attivo»38.
Quasi contemporaneamente si chiarì la questione del rapporto fra religione e azione sindacale partendo dall’affermazione che «la nostra organizzazione […] si considera non confessionale», ma con l’aggiunta che con ciò «non intende affatto […] dirsi o considerarsi fuori della direttiva cristiana o cattolica applicata ai problemi sociali»39.
La Cil testimoniava i progressi compiuti dal punto di vista della capacità di aggregazione dei lavoratori. Già nel 1917 si calcolava che i lavori organizzati nei sindacati ‘bianchi’ fossero circa 250.000, dei quali 29.000 nel sindacato tessile, 5.000 fra i ferrovieri, 5.000 fra i metallurgici, 2.000 fra gli addetti alle poste oltre ai mezzadri, ai piccoli affittuari e ad alcune altre categorie industriali e dei servizi40, sicché l’anno successivo aderirono alla nuova confederazione 10 federazioni nazionali e 25 uffici del lavoro.
Interpretando Valente, si può dire che le ragioni della nascita della Cil fossero per un verso le stesse che avevano portato, nel 1906, alla fondazione della Confederazione generale del lavoro (Cgdl), ossia l’evidente necessità di coordinare e guidare l’azione dell’universo sostanzialmente sparpagliato delle federazioni. Ma per un altro verso la Cil può essere considerata l’emergere della consapevolezza che non fosse più adeguato e coerente con le trasformazioni, anche culturali, intervenute negli ultimi dieci anni il riferimento all’Unione economico sociale. Del resto, lo stesso presidente dell’Unione, Carlo Zucchini, che aveva assunto la guida dell’azione sociale, sindacato compreso, si era espresso, proprio nel 1917, a favore della costituzione di una Confederazione nazionale dei sindacati41.
Credo però che la nascita della Cil vada anche considerata una delle manifestazioni conclusive del lungo, tormentato e difficile percorso di rientro dei cattolici, come realtà collettiva organizzata, nella vita politica e nelle istituzioni del paese – un percorso segnato dall’elezione dei cattolici-deputati, dall’inserimento di Meda nel governo Boselli nel 1916, dalla fondazione del Partito popolare nel 1919, della Confederazione delle cooperative nel 1920 e dell’Università Cattolica l’anno seguente, visto che padreGemelli l’aveva creata per preparare giovani laureati destinati a operare per contribuire, come cattolici, al miglioramento generale del paese.
Il sindacato di cui la Cil era espressione intendeva caratterizzarsi per la più rigida autonomia dai partiti politici, per l’ispirazione dottrinale sindacal-cristiana, per l’assenza della pregiudiziale rivoluzionaria sovversiva, per un uso ragionevole dello sciopero, per una politica economica orientata al sostegno della produzione nazionale e infine per l’attenzione «allo sviluppo e alla polarizzazione delle forme private ed autonome di proprietà e produzione» piuttosto che all’estensione del «collettivismo di stato»42. Sotto il profilo dei contenuti dell’azione, gli obiettivi di maggior significato, a parte quelli tradizionali, erano l’estensione delle assicurazioni sociali, la lotta al carovita, l’introduzione del probivirato in agricoltura come forma di conciliazione dei conflitti di lavoro, la parità delle retribuzioni uomo-donna, l’obbligatorietà del riposo festivo, l’eliminazione del lavoro minorile, la diffusione dell’istruzione come pure la riduzione delle ore di lavoro.
Certo è che la Cil, subito dopo la sua fondazione, dovette affrontare i drammatici problemi connessi all’occupazione delle terre e delle industrie e, più in generale, le turbolenze del ‘biennio rosso’. Ma un sindacato che aveva dimostrato, sin dagli inizi, la volontà di non radicalizzare la lotta in difesa degli interessi dei lavoratori, cercando, come s’è detto, la via della risoluzione concordata delle controversie; un sindacato che rifuggiva dal condividere, per ragioni ‘genetiche’, l’idea della lotta di classe, non solo non era nella condizione di mutare le tendenze in atto e, meno che mai, di esercitare una qualsiasi funzione se non di guida, almeno di orientamento dell’intero movimento italiano, ma i suoi iscritti dovevano anche subire le violenze dei ‘rivoluzionari’ fra l’indifferenza sostanziale delle autorità e degli imprenditori, come ha documentato benissimo Alfredo Canavero43.
D’altra parte, la matrice ‘cattolica’ che la Cil si portava addosso non favoriva certo il realizzarsi, anche in via di pura ipotesi, dell’idea di condizionare gli altri sindacati, anche se la sua attività non aveva subito condizionamenti di sorta, com’è dimostrato dal funzionamento di alcune importanti federazioni, quella dei tessili o dei metalmeccanici, totalmente ‘altro’ rispetto alla Chiesa e alla gerarchia44.
Ciò che alla Cil non riuscì – perché non poteva riuscire – riguarda la possibilità di influenzare l’intero movimento. Riuscì invece alla perfezione il disegno di ottenere il massimo di consenso dei lavoratori. Infatti, gli anni della transizione furono anche di straordinaria crescita del sindacalismo ‘bianco’. Nel 1920, rispetto ai quasi 2 milioni di iscritti alla Cgdl, la Cil, allora diretta da Gronchi, associava 1.179.000 lavoratori tra i quali figuravano 740.000 mezzadri e piccoli affittuari, 108.000 piccoli proprietari, 95.000 salariati agricoli, 131.000 tessili, 15.000 metallurgici, 24.000 ferrovieri, 13.000 lavoratori del legno, 13.000 statali e 7.500 edili45.
Aveva giovato al sindacato ‘bianco’ l’atteggiamento moderato dimostrato nei momenti più aspri del conflitto sociale e, specialmente, la totale estraneità agli episodi di estremismo rivendicativo e alle agitazioni pseudo-rivoluzionarie del ‘biennio rosso’ che avevano rivelato la loro matrice prevalentemente politica. Così, a distanza d’un paio d’anni dalla nascita, un autorevolissimo protagonista del movimento sociale cattolico,Alessandro Cantono, poteva osservare che «finalmente le opere nostre professionali si sono imposte e cominciano ad essere considerate dal governo, dai padroni, dai socialisti»46.
Forse questo successo contribuì a convincere Benito Mussolini e i suoi che la vittoria del movimento fascista e delle forze che lo appoggiavano si sarebbe conseguita anche depotenziando il movimento sindacale, ma non nella componente radicale e rivoluzionaria bensì in quella moderata e democratica, come erano la Cil e una parte della Cgdl. E per depotenziare un sindacato ‘libero’ sarebbe bastato privarlo dell’arma più efficace a sua disposizione per l’esercizio concreto dell’azione di difesa e il miglioramento delle condizioni complessive dei lavoratori, ossia escluderlo dalla possibilità di stipulare contratti collettivi di lavoro.
Questo fu esattamente quel che accadde. L’esclusione fu parte di un disegno che vedeva la sostituzione dell’esistente con un nuovo modello di sindacato, di cui Edmondo Rossoni illustrò le caratteristiche fondamentali: «i sindacati sono fascisti, cioè si confondono col partito, col governo, con lo Stato, col regime, cioè con la rivoluzione fascista: quindi nei sindacati non si potrà mai fare azione contraria al regime e alla rivoluzione»47. Al sindacato fascista furono assicurate, in cambio della totale perdita di autonomia, alcune prerogative che, non tanto sorprendentemente, saranno persino apprezzate quando l’Italia diventerà «una repubblica democratica fondata sul lavoro». Infatti, l’iscrizione al sindacato divenne obbligatoria e ai contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati fascisti fu riconosciuta la validità erga omnes. Inoltre, furono assicurate ‘leggi di sostegno’ sovente destinate, peraltro, a sostituire la libera contrattazione degli aspetti normativi ed economici del rapporto di lavoro48.
Nell’attesa che il modello di organizzazione fascista del sindacato si realizzasse, ai sindacati fascisti fu riconosciuta, dal governo e dalle organizzazioni dei datori di lavoro, l’esclusività della rappresentanza che voleva dire il monopolio della regolamentazione dei rapporti di lavoro e della contrattazione in particolare. È il noto patto di Palazzo Vidoni, firmato il 2 ottobre 1925 dalla Confederazione degli imprenditori e dalla Confederazione delle corporazioni, con il quale i due organismi si davano reciproco riconoscimento dell’esclusività della rappresentanza dei rispettivi associati49.
Privati della possibilità di contrattare, non restò altra via che l’autoscioglimento. Achille Grandi, il più autorevole rappresentante del sindacato ‘bianco’, lo annunciò rifacendosi a s. Paolo «ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede».
L’eclissi del libero sindacato ebbe termine con la firma del patto di Roma, avvenuta il 3 giugno 1944, da parte diEmilio Canevari, Giuseppe Di Vittorio eAchille Grandi a nome rispettivamente delle correnti socialista, comunista e cristiana50. L’evento concludeva una trattativa lunga e difficile, avviata, per volontà dei tre partiti di massa, tra la metà di settembre e la fine di novembre 1943 e condotta – oltre che daGrandi e Di Vittorio – da Bruno Buozzi, Giovanni Gronchi, Oreste Lizzadri e Giovanni Roveda51.
Un accordo sul da farsi si presentava complicato perché, come s’è visto, prima dell’avvento del fascismo l’estraneità e il conflitto avevano caratterizzato i rapporti fra cattolici e socialisti. E del resto, anche al tempo della trattativa per il patto, non si può dire che fra socialisti e comunisti vi fosse identità di vedute intorno al dover essere del sindacato. Anzi, sappiamo che tra Buozzi e Di Vittorio esisteva, su questa questione, un dissenso inconciliabile. Come scriverà Di Vittorio in un rapporto alla direzione delPci sull’andamento delle trattative: «vi informo che, mentre col cattolico [cioè Gronchi] tutto procede normalmente, il socialista [cioè Buozzi] è mancato al 3° appuntamento che mi aveva dato, il primo direttamente, il 2° e il 3° a mezzo vostro. Vi prego di far sapere ai compagni socialisti che ciò non è serio né ammissibile»52. Si trattava della stessa inconciliabilità delle posizioni presenti nella Confederazione generale del lavoro degli anni del primo dopoguerra. Soprattutto per questo, una soluzione unitaria al problema non poteva che derivare da motivazioni extrasindacali la favoriva il patto di unità d’azione tra i comunisti e i socialisti, a prescindere dalla presenza del noto sindacalista della vecchia Fiom. Ma la favorivano anche gli atteggiamenti e i comportamenti dei due rappresentanti di quella che sarà la ‘corrente cristiana’ nel sindacato unico, e in particolare di Achille Grandi, per motivazioni che, come vedremo, risalivano alla sua esperienza alla guida della Cil nella fase finale del libero sindacato.
Per contro, le idee prevalenti nell’ambiente cattolico, in Alcide De Gasperi, fra i dirigenti democristiani e fra gli uomini che collaboravano al partito a livelli diversi di funzioni e di responsabilità, intorno al sindacato nella nuova Italia in formazione, continuavano a essere inconciliabili con le idee degli uomini della sinistra e, specialmente, dei comunisti.
Sul punto, il pensiero più maturo, anche perché sintesi di tutte le vicende accadute nell’intervallo tra le due guerre mondiali, era quello di Sergio Paronetto. Da una parte, egli confermava sostanzialmente alcuni capisaldi della tradizione: un sindacato parte costitutiva di un sistema improntato alla collaborazione sistematica di tutti i fattori della produzione; un sindacato espressione della libertà di associazione ma, al tempo stesso, ‘organizzazione professionale di diritto pubblico’, alla quale, con qualche contraddizione rispetto al punto precedente, fossero iscritti d’ufficio tutti gli appartenenti alle categorie produttive; un sindacato ‘governato’ da uomini eletti dai lavoratori-soci; un sindacato cui spettava la stipula dei contratti collettivi di lavoro e la vigilanza sulla loro applicazione; un sindacato aperto alla soluzione dei conflitti di lavoro attraverso procedure di conciliazione e di arbitrato53. Dall’altra parte, però, Paronetto pensava a un sindacato come elemento costitutivo di «un organismo permanente di carattere economico e sociale che, pur sotto la vigilanza dello Stato, [fosse] costituito da forze autonome, basato sull’equilibrio degli interessi e sulla competenza tecnica, al di fuori delle dirette ingerenze dei partiti politici». E aggiungeva:
«pensiamo al vecchio postulato della nostra scuola, alla rappresentanza verticale delle professioni in contrasto con il sezionamento orizzontale delle classi, a quella democrazia economica auspicata da tempo come integrazione correttiva del suffragio universale politico. In tale organismo insufflato da un nuovo spirito, dovrebbe venir trasformato il corporativismo fascista»54.
Un simile modo di considerare la natura, il ruolo e le funzioni del sindacato non aveva nulla a che vedere con ciò che pensavano i delegati della sinistra, socialisti compresi, come s’è detto. Il fatto è che a determinare lo svolgimento della vicenda fu soprattutto Achille Grandi, il quale condivideva sì le idee di Paronetto, ma sosteneva al contempo l’unicità del sindacato.
Per cercare di capire questa evidente contraddizione, occorre ricordare le parole con le qualiGrandi aveva concluso la sua esperienza alla guida del sindacato ‘bianco’. Parole che testimoniano, da sole, la grandissima amarezza provata dal vecchio sindacalista per aver dovuto subire la fine di un’esperienza di libertà per cause, in larga misura, politiche. Di queste non portava responsabilità alcuna. Gli pesava molto, invece, il ricordo dell’incapacità di trovare un accordo con la Cgdl sul contenuto e sul metodo dell’azione sindacale, in presenza del fascismo in forte e rapida crescita, incapacità che aveva contributo a determinare una condizione di sostanziale debolezza dell’intero movimento e aveva ostacolato un’efficace difesa della libertà.
Per questo, già prima del 25 luglio 1943, «fra gli esponenti del sindacalismo cattolico e socialista, e specie con il compianto on. Bruno Buozzi, si era stretta una promessa comune avvalorata dal dolore e dalla sofferenza insieme sopportate», quella di «favorire e promuovere sul terreno politico l’avvento di un regime democratico popolare largamente rappresentativo di tutte le correnti progressiste nel campo sociale, decise ad elevare il lavoro al posto di preminenza che gli spetta»55.
Il fatto è che prevaleva in Grandi il convincimento che, in previsione dell’imminente caduta del nazifascismo e dei problemi che ne sarebbero derivati per il paese, fosse assolutamente necessario rafforzare il sindacato attraverso il superamento della condizione di pluralismo. Era la stessa, gravissima situazione del paese a consigliare «uno sforzo di unità e di collaborazione sul terreno politico» a suggerire «un urgente sforzo per consolidare il sindacato unico obbligatorio di categoria e tutte le oneste energie e le reali competenze»56.
Le ragioni addotte da Grandi per accedere a una soluzione unitaria non convinsero più di tantoDe Gasperi e gli altri, tra i quali Giulio Pastore, che si stava occupando di sindacato dopo aver maturato una ricca esperienza di organizzatore dapprima nelle leghe ‘bianche’, quindi nell’Azione cattolica, e comunque si scontravano con un fatto ossia con la ricostituzione, in alcune aree del Mezzogiorno, della Cil per iniziativa di alcuni vecchi protagonisti del ‘sindacalismo bianco’, come Domenico Colasanto.
Perciò la ricerca d’un punto di equilibrio tra i dubbi irrisolti di molti e le urgenze di Grandi e di Gronchi portò a una soluzione che prevedeva «una centrale sindacale provvisoria comprendente le varie componenti sociali e politiche che provveda a risolvere i problemi contingenti ma che contemporaneamente, elabori un progetto definitivo di organizzazione sindacale con tutti i requisiti per una totale realizzazione dell’auspicata unità». E, per tutelare l’identità della componente ‘cristiana’ e anche per mettere al riparo i lavoratori, specie giovani, dalle lusinghe del marxismo con le quali sarebbero necessariamente venuti in contatto attraverso l’appartenenza a una comune organizzazione, De Gasperi e gli altri – Grandi e Gronchi compresi – pensavano a una struttura che garantisse una formazione presindacale conforme ai valori della fede cattolica e agli orientamenti ideali propri del movimento sociale cattolico57.
Per Grandi era dunque pacifico che si trattasse di una soluzione provvisoria e per questo sottoscrisse il documento noto come patto di Roma – ufficialmente denominato Dichiarazione sulla realizzazione dell’unità sindacale – che sembrava definire con sufficiente chiarezza il carattere non definitivo dell’accordo, e così l’inteseGrandi.
Ma non così l’intese Di Vittorio. Per il rappresentante comunista, infatti, il patto disegnava l’assetto che l’organizzazione sindacale avrebbe assunto in Italia e il suo nome sarebbe stato Confederazione generale italiana del lavoro (Cgil), segno del carattere definitivo della soluzione, come confermava l’articolo 2 dell’accordo. Infatti, mentre erano lasciate «impregiudicate tutte le altre questioni relative all’orientamento generale dell’organizzazione, alla sua struttura definitiva, alla compilazione del progetto», lo stesso articolo concludeva con un chiarissimo, perentorio e inequivocabile «l’unità sindacale viene immediatamente realizzata»58.
Grandi disse di aver firmato non solo per la provvisorietà dell’assetto concordato ma anche perché al punto b) dello stesso articolo era scritto che «in tutte le organizzazioni della Cgil deve essere assicurata la massima libertà d’espressione a tutti gli aderenti e praticato il rispetto reciproco di ogni opinione politica e fede religiosa»59.
Questa originaria, grande ambiguità spiega come, una volta superate le urgenze del momento, l’inconciliabilità delle idee sul sindacato si manifestassero in relazione al comportamento del sindacato nella fase della ricostruzione e in rapporto alle scelte da fare nell’interesse del paese. A ogni modo, scomparsoGrandi nel 1946, la responsabilità di guidare la corrente cristiana nella nuova Confederazione fu assunta da Giulio Pastore. Più lucido e determinato del suo predecessore, Pastore fu in grado di valutare criticamente l’esperienza unitaria così come si stava sviluppando, cominciando con l’affermare che il patto «contiene ben poche delle idee da noi sempre postulate e che avrebbero dovuto rappresentare la sola ragione per cui avremmo potuto aderire all’unità»60. Contemporaneamente parlò del funzionamento del patto nella concreta declinazione dell’esperienza dei militanti nelle sedi del sindacato e nei luoghi di lavoro. Di ciò che accadeva nelle sedi del sindacato, con specifico riferimento alla Camera del lavoro di Roma, Pastore ricordava – denunciandola – la presenza «sin dai primi giorni, di attivisti comunisti autopostisi a capo dei sindacati edili e metalmeccanici […], l’apertura di sedi sindacali unitarie in seno a proprie sedi del Partito» ma anche la radicale impotenza o inadeguatezza degli altri. E, nelle sedi di lavoro, parlava dei sindacalisti socialisti che «non si sa se per accordo o per ignavia» non mostravano «di preoccuparsi della evidente invadenza e delle infrazioni operate dai comunisti»; e parlava anche dei democristiani, i quali, «privi di un indirizzo ufficiale del Partito [si sforzano] al massimo [di] mantenere la nostra attività entro i confini stabiliti dal patto di intesa»61. Sicché non solo «l’unità in senso ideale […] è tutt’ora una chimera, né vi è da sperare che in prosieguo di tempo si abbia a determinare una situazione diversa e migliore», ma era anche da prevedere che, mentre «l’organizzazione unitaria si abbia a mantenere ufficialmente svincolata dai partiti», di fatto si sarebbe manifestata da parte degli stessi partiti «una spietata concorrenza per attrarre i lavoratori nelle rispettive fila»62.
In effetti, i timori di Pastore non erano infondati. Il sindacato unico stava mostrando le sue incoerenze, interne ed esterne, rispetto agli accordi sottoscritti. Le prime erano costituite dal fatto che il contributo della corrente cristiana era sostanzialmente inesistente, perché vanificato dalla continua messa in minoranza dei suoi rappresentanti, determinata dalla costante e sostanziale sottomissione dei socialisti a Di Vittorio e ai suoi. Le incoerenze esterne riguardavano invece i nessi tra l’azione sindacale e l’azione di governo, quest’ultima già resa difficile dall’eterogeneità della sua composizione, che andava dai comunisti ai liberali, sicché, in una situazione di autentica emergenza, che richiedeva provvedimenti efficaci in tempi brevi, il consiglio dei ministri era sovente bloccato da veti incrociati che ritardavano l’adozione di misure coerenti con le drammatiche urgenze del momento.
Se il prodotto interno lordo del 1945 risultava dimezzato rispetto al 1939 e stentava a risalire, le maggiori preoccupazioni erano date dalla tremenda caduta del potere d’acquisto dei salari e dall’elevatissimo livello della disoccupazione. Le retribuzioni comprese tra le 750 e le 1.800 lire al mese erano aumentate di circa 20-30 volte a fronte di un aumento del costo della vita di circa 40 volte63 e la disoccupazione era stimata, nel 1947, attorno ai 2 milioni di persone, cioè il 10% degli attivi oltre ai sottoccupati, particolarmente consistenti in agricoltura, il cui numero era dello stesso ordine di grandezza dei disoccupati.
Ma retribuzioni più elevate e maggiore occupazione sarebbero state possibili solo se l’economia fosse cresciuta a un tasso di sviluppo sufficientemente elevato – una condizione, questa, difficilissima da raggiungere – e in ogni caso solo se vi fossero state una visione chiara degli atti di governo da compiere e una coerenza di comportamenti da parte di tutte le componenti della comunità nazionale, lavoratori e imprenditori in primo luogo.
Occorreva smantellare le misure straordinarie assunte durante la guerra per garantire prezzi politici a beni di consumo di base come il pane; occorreva togliere il blocco dei licenziamenti perché il costo del lavoro incideva insopportabilmente sui costi di produzione e, quindi, sull’equilibrio economico-finanziario delle imprese, obbligate a occupare una forza lavoro incompatibile con i livelli di attività possibili in quel momento; occorreva mettere in condizione le imprese, specie quelle industriali, di produrre a costi competitivi per poter rafforzare i flussi di beni esportati e da questi ricavare le risorse in moneta forte per pagare le importazioni. Ma occorreva anche elevare la quota di reddito destinata al lavoro per raggiungere – quantomeno – il sacrosanto obiettivo di recuperare potere d’acquisto e, per questa via, aumentare la domanda interna e quindi la produzione, senza peraltro dimenticare la fondamentale esigenza di trovare i capitali per finanziare gli investimenti.
Perché tutto ciò si realizzasse, non bastava che vi fosse consenso sulle politiche, ma occorreva che le forze economiche e sociali agissero in modo coerente con gli obiettivi da raggiungere. Ma così non era. Così non era specialmente per la politica salariale, perché dopo una fase di ‘responsabilità-remissività’ s’era deciso di cambiare rotta e di puntare a una decisa azione diretta a incrementare in misura consistente il livello delle retribuzioni, malgrado il fatto che, come osservò Grandi, «in Italia si constata questo fatto: appena otteniamo un certo miglioramento delle condizioni economiche, subito dopo abbiamo un aggravamento del costo della vita e dei generi di prima necessità. Questo limite, secondo me, dovrebbe essere tenuto presente anche nella nostra politica, diciamo così, sindacale»64.
Ma perché il fenomeno rilevato da Grandi non accadesse sarebbe stato necessario l’impegno di tutti – governo, imprese e lavoratori – per la realizzazione di un grande progetto di ripresa vigorosa della produzione e di miglioramento dell’efficienza del sistema nel suo complesso. Per quanto concerne il sindacato, la minoranza riteneva infatti che la Cgil «dovesse coraggiosamente propugnare e seguire il metodo gradualistico. Essa, mentre promuove il miglioramento progressivo delle condizioni di vita e di lavoro delle classi lavoratrici, deve tener conto delle particolari condizioni di luogo e di tempo, delle solidarietà esistenti fra tutti i lavoratori e soprattutto fra gli interessi particolari e gli interessi generali di tutto il Paese, cioè di tutto il popolo»65.
Alla prospettiva delineata da Di Vittorio – conseguire permanenti miglioramenti dei salari attraverso «un controllo severo [dei prezzi] eseguito a mezzo delle forze di polizia integrata da comitati popolari e da aziende comunali»: prospettiva che apparteneva al regno delle favole per il semplice fatto che la sua realizzazione avrebbe implicato un radicale mutamento degli assetti politici, economici e sociali – la corrente ‘cristiana’ opponeva la convinzione che «solo nel ristabilimento di una economia sana e produttiva sarà possibile trovare la linea del miglioramento»66.
A questi contrasti, concernenti in sostanza gli obiettivi verso i quali orientare l’azione sindacale, si aggiungeva il riemergere, all’interno delle strutture sindacali, degli stessi comportamenti verso i lavoratori cattolici e le loro rappresentanze dei primi anni del Novecento. Si trattava, come nel primo dopoguerra, di violenze fisiche dovute al fatto che «i lavoratori e i militanti sindacali democristiani [erano] considerati in alcune federazioni e sindacati, nocivi all’organizzazione»67.
Del resto, anche sul metodo dell’azione sindacale e, più in particolare, sull’uso dello sciopero, il disaccordo fra le correnti stava diventando sempre più profondo e alcuni casi, emblematici e clamorosi, erano lì a dimostrarlo: la minacciata mobilitazione di piazza annunciata nell’estate del 1947 in risposta a un provvedimento del governo mirato proprio al controllo dei prezzi o lo sciopero generale proclamato nel novembre del 1947 contro la decisione del governo di allontanare dalla sede di Milano il prefetto perché non aveva provveduto – come avrebbe dovuto – alla tutela dell’ordine pubblico68.
Nel corso del 1947 due eventi in stretta successione contribuirono a peggiorare ulteriormente i rapporti fra le correnti interne alla Cgil. Il primo fu l’esclusione della sinistra dal governo, avvenuta nel maggio di quello stesso anno, che ebbe come conseguenza un evidente inasprimento delle risposte elaborate dalla Confederazione di fronte alla politica economica del governo. L’altro fu la bocciatura della proposta, avanzata dalla corrente cristiana, di accettare la presenza attiva del sindacato alla fase applicativa del piano Marshall. Questa vicenda causò una spaccatura interna al sindacato, confermata quando, nel febbraio del 1948, all’invito a partecipare a un convegno sindacale organizzato a Londra per discutere, per l’appunto, del piano Marshall, la maggioranza oppose un nuovo rifiuto, senza offrire però convincenti motivazioni69.
Soprattutto, questa decisione fu considerata dalla minoranza un’evidente sottomissione della Cgil alla politica del partito oltre che un’occasione perduta «per riaffermare, nel piano di ricostruzione europea, le imprescindibili esigenze economiche e sociali presenti e future dei lavoratori italiani, posponendole a motivazioni di ordine ideologico e politico»70.
Il fatto è che il conflitto, sorto intorno a una questione di così rilevante importanza, pareva confermare i timori, già presenti all’epoca delle discussioni sul patto di Roma, di quale futuro sarebbe stato riservato a un sindacato privo d’una visione condivisa del suo ruolo, degli obiettivi da raggiungere, dei metodi di lotta e dei rapporti con i partiti, con le istituzioni e con le imprese.
L’attentato a Togliatti, nel luglio del 1948, fu l’ultimo evento che determinò la fine dell’esperienza unitaria. I passaggi sono ben noti: fu proclamato uno sciopero generale chiaramente eversivo senza alcuna consultazione della minoranza, e anche se l’intimazione di Pastore e degli altri di far cessare lo sciopero ebbe gli esiti sperati (ma anche il governo era intervenuto duramente), la minoranza dichiarò la fine dell’unità sindacale e decise di dar vita a una nuova confederazione denominata Libera confederazione generale italiana dei lavoratori (Lcgil).
Se si tiene conto, come deve essere, che fra quelli decisi a uscire dalla Cgil vi furono non solo i sindacalisti e i lavoratori cristiani ma anche sindacalisti e lavoratori delle altre correnti, appare priva di fondamento l’interpretazione – che dell’evento è stata data – secondo la quale «la rottura dell’unità sindacale e, due anni dopo, la nascita della Cisl, rispondono ad una esigenza di ordine squisitamente politico, e cioè alla necessità di rendere il panorama sindacale omogeneo a quello degli schieramenti dei partiti»71. Infatti, ricondurre la vicenda a un’unica causa significa ignorare il percorso compiuto all’insegna dell’unità fra il 1944 e il 1948, e altresì le ragioni profonde della rottura.
La seconda parte del 1948 fu caratterizzata da un intenso impegno per la costruzione di un nuovo sindacato, perché in effetti non esisteva un modello alternativo alla Cgil da applicare nell’immediato, circostanza, questa, che sembra confermare la tesi secondo cui la fine del sindacato unico sarebbe stata conseguenza di una progressiva impossibilità di convivenza tra forze irrimediabilmente diverse proprio sotto il profilo delle idee, e non piuttosto il risultato di una manovra di stampo politico.
La situazione che si venne a determinare dopo l’uscita dalla Cgil e la costituzione della Lcgil era chiaramente transitoria. Il problema, infatti, era la definizione del modello di sindacato che avrebbe dovuto porsi come alternativo alla Confederazione e a questo punto sarebbe risorta la questione della ‘confessionalità’ o meno della nuova formazione.
Il fatto è che pesavano le convinzioni di alcuni esponenti della ex corrente ‘cristiana’, i quali, mentre convenivano sul fatto che il nuovo sindacato avrebbe dovuto esplicitamente escludere ogni commistione teorica e pratica tra azione sindacale e azione politica e rifiutare l’idea di un’azione sindacale che fosse anche azione di partito72, pensavano a una riproposizione sotto altre vesti della vecchia Cil.
In attesa, quindi, di definire una soluzione, Pastore fu molto deciso nel procedere sulla via della costituzione di un sindacato libero e indipendente fondato sulle strutture preesistenti ma staccate dalla Cgil, che erano numerose e molto rappresentative delle realtà produttive: dodici grandi federazioni tra le quali i tessili, i metalmeccanici, gli alimentaristi, i lavoratori dell’abbigliamento, i sindacati agricoli (dai braccianti ai mezzadri ai coltivatori diretti) e infine i lavoratori del pubblico impiego (statali, parastatali e lavoratori del settore delle comunicazioni)73.
Si delineava un sindacato che, partendo dal superamento del confessionalismo, si distaccava sensibilmente dall’esperienza della Cil su un punto nodale: quello di pensare a una confederazione non come organo di generico coordinamento ma come struttura di governo di tutta l’organizzazione, perché «la realtà economica dei tempi moderni», con le forti interdipendenze fra le sue componenti, «vietava» che le categorie andassero «per proprio conto»74.
In gestazione vi era un sindacato che del passato remoto e dei progetti del 1944 conservava l’idea della positività della «legislazione di sostegno», del riconoscimento giuridico, dell’obbligatorietà dell’iscrizione; dell’attenzione per le «grandi scelte di politica economica nazionale e internazionale»75 e, di conseguenza, della piena accettazione della politica d’integrazione dell’economia italiana nei più dinamici sistemi dell’area atlantica: integrazione quasi obbligatoria perché rispondente agli interessi di tutti e specialmente dei lavoratori76.
In termini di politica sindacale vi furono due decisioni di rilievo: la prima riconosceva «l’esigenza di portare le imprese ad una più razionale struttura e produttività, quali condizioni indispensabili per la ricostruzione del paese e per la stabilità dell’occupazione»; la seconda riconsiderava la questione dello sciopero dei dipendenti pubblici rispetto alla quale, innovando profondamente gli orientamenti del sindacato ‘bianco’, riteneva che non se ne potesse negare la legittimità trattandosi dell’esercizio di un diritto garantito dalla Costituzione77.
Un punto di grandissima importanza merita di essere subito sottolineato, perché serve a capire le vicende degli anni Sessanta e Settanta. Si tratta dell’atteggiamento di sostanziale indifferenza manifestato dalla Confindustria e dal suo presidente Angelo Costa nei riguardi della nuova confederazione, un’indifferenza della quale è esempio il rifiuto di aprire trattative «senza che [a esse] sia assicurato l’intervento della Confederazione generale del lavoro»78. Un’indifferenza, comunque, segno dell’incapacità di cogliere il significato autenticamente innovativo di un sindacato che, prima di tutto, respingeva, sul piano della teoria e dei fatti, ogni rapporto di dipendenza dalle forze politiche e poi, mentre non rifiutava il conflitto, ne collocava la soluzione nel quadro di una politica sindacale di piena responsabilità nei confronti degli interessi generali del paese e aperta alla ricerca di soluzioni concordate dei problemi. Un’indifferenza, infine, che non contribuiva al rafforzamento di un sindacato oggettivamente debole rispetto alla Cgil, non tanto per la minore consistenza numerica degli iscritti (che ammontavano, nel complesso, a oltre un milione e duecentomila) quanto perché l’integrazione delle componenti che avevano lasciato la Cgil procedeva a stento malgrado il fatto che due grandi sindacati americani come l’American Federation of Labour (Afl) e il Congress of Industrial Organisations (Cio), guardassero con grande interesse alla costituzione della Lcgil proprio in quanto espressione del nuovo che stava avanzando in un panorama sindacale piuttosto tradizionale79.
Su questa questione esercitavano un effetto frenante il dubbio che quelli della ex corrente cristiana avessero reciso davvero le connessioni con la Democrazia cristiana e il timore che la «posizione ideologica» e l’appartenenza di Pastore alla «confessione cattolica»80 non garantissero la convivenza fra persone di diverso orientamento politico, ideale e religioso e l’indipendenza dalla gerarchia ecclesiastica.
D’altra parte, il consenso su ‘quale’ sindacato dovesse essere la Lcgil non era unanime neppure fra i cattolici. Soprattutto Rapelli insisteva sul fatto che la nuova organizzazione dovesse possedere una sua dottrina di riferimento, come accadeva nella vecchia Cil, perché non era possibile «chiedere ai lavoratori di rinunciare alla propria formazione morale, alla propria formazione ideologica», in ciò mostrando una buona sintonia con Guido Gonella, il quale, poco più tardi, sosterrà che
«il concetto di sindacato libero è grossolanamente errato e diventa oppressivo quando si intende escludere da esso ogni presenza di un ordine sistematico di idee (ideologia) al quale il lavoratore ha diritto di aderire e essere fedele con assoluta coerenza, in ogni fase della sua vita, pubblica e privata, politica e sociale»81.
Nonostante queste difficoltà, la costruzione di un nuovo sindacato non si arrestò. Ma gli esiti delle proposte formulate da Pastore nel febbraio del 1950 – dare vita a una nuova confederazione denominata Confederazione italiana sindacati lavoratori (Cisl) e chiamare a raccolta quanti avevano lasciato la Cgil nella prospettiva di organizzare un’unica confederazione a essa alternativa – non corrisposero alle speranze perché alcune componenti del movimento, d’estrazione prevalentemente socialdemocratica, decisero di fondare una Unione italiana del lavoro.
Anziché fermare il processo in corso, lo scacco sortì l’effetto di rafforzare in Pastore la determinazione a costruire un nuovo sindacato, di cui peraltro non aveva ancora ben chiare le caratteristiche – anche se non ignorava affatto la necessità di definire queste ultime al più presto, per esempio guardando alle esperienze già avviate fuori d’Italia e coinvolgendo studiosi di problemi economici e sociali, tra i quali Mario Romani.
Il giovane professore dell’Università Cattolica, formatosi come storico dell’economia con Amintore Fanfani, si occupava allora dei processi di trasformazione, dei conseguenti mutamenti strutturali e dei cambiamenti culturali, sociali, politici ed economici realizzatisi in Europa e nel mondo con la rivoluzione industriale. La sua decisione di impegnarsi per la realizzazione del programma di Pastore – che lo aveva ‘incontrato’ tramite padre Gemelli e Dossetti – discendeva dalla conoscenza dei progressi compiuti altrove nella risoluzione dei problemi generati dalla grande trasformazione industriale e muoveva dalla necessità di rinnovare una cultura che di quei problemi e delle soluzioni loro accordate altrove aveva un’idea molto approssimativa.
Sulla fecondità dell’incontro non ci sono dubbi. Costituita la Cisl nell’aprile del 195082, le linee fondamentali che avrebbero indirizzato l’attività della nuova confederazione furono ‘iscritte’ nello statuto. Ribadita l’idea che «al rispetto delle esigenze della persona debbono ordinarsi la Società e lo Stato», la nuova formazione si autocollocava fra le comunità sociali entro le quali «si svolge naturalmente la personalità umana». E per quanto concerneva più propriamente l’azione sindacale, la Cisl dichiarava anche che, rispetto ai problemi dell’organizzazione economica e sociale, gli obiettivi da raggiungere sarebbero stati definiti a partire dal convincimento che vi era un nesso di dipendenza diretta fra «la giusta soddisfazione dei suoi bisogni materiali, intellettuali e morali, nell’ordine individuale, familiare e sociale» e «lo sviluppo della personalità umana»83.
Un enunciato del genere non era solo il ‘filo rosso’ da seguire nello svolgimento dell’attività del nascente sindacato, ma delineava anche una forma nuova di democrazia, giacché, come rileva Mario Grandi,
«nelle società politiche complesse, la dinamica del pluralismo non può più reggersi solo sulla pur necessaria divisione istituzionale dei poteri se non si realizza un assetto di fatto che vada oltre la pluralità dei partiti e comprenda soggetti collettivi di autotutela rappresentativi di autonomi interessi economico-sociali, quali i sindacati dei lavoratori»84.
Questa concezione del sindacato era parte essenziale di un ‘modello’ troppo diverso dal modo di pensare del mondo sindacale nel suo complesso – Lcgil compresa – degli imprenditori e delle forze politiche ed era anche distante dalla cultura economica, giuridica e politica allora prevalente. Dichiarare che «l’accoglimento del sindacato democratico e della sua azione nel seno della società civile organizzata determina una costante e inderogabile esigenza strutturale della stessa e costituisce una garanzia a difesa dell’ordine democratico»85 significava collocare le associazioni dei lavoratori, e la loro azione, in un orizzonte infinitamente più vasto e significativo di quello entro il quale il pensiero e la tradizione le avevano confinate.
Ma un’idea così innovativa richiedeva un tempo non breve per essere ‘metabolizzata’ e applicata. Invece, si dovette fare subito i conti con un processo di sviluppo così intenso e così rapido da contribuire, paradossalmente ma non troppo, al suo (temporaneo) affossamento.
Non è possibile approfondire l’analisi dello Statuto. Ma almeno su due, tre punti sia consentito di svolgere qualche ulteriore considerazione, proprio perché si tratta di passaggi essenziali e caratterizzanti il modo di essere del ‘sindacato nuovo’. Il primo concerne l’idea di partecipazione, concepita come strumento per «esprimere l’aspirazione diffusa alla vera libertà, alla consapevolezza autentica, al desiderio di assunzione di responsabilità» per soddisfare la quale era indispensabile «un impegno continuo, incessante di formazione e di azione, di acquisto di conoscenze e di loro continua applicazione»86. Declinata al livello d’impresa e realizzata attraverso il contratto, quell’idea chiamava in causa due valori chiave – la ‘libertà’ e la ‘responsabilità’ – e avrebbe avuto implicazioni così profonde sull’organizzazione del lavoro da sconvolgere equilibri cristallizzati da decenni.
Declinata a livello di sistema socio-economico, partecipare avrebbe significato «provvedere affinché nel processo di formazione delle […] decisioni in ordine al programma e al suo continuo adeguamento alla realtà effettuale, [fosse] permanentemente assicurato, come fattore di informazione, di critica, di suggerimento di soluzioni, il parere dei rappresentanti sindacali dei lavoratori come di quello delle parti sociali»87.
Ma un sindacato partecipe era, di necessità, un sindacato ‘autonomo’. In un primo significato, il termine era equivalente a ‘indipendente’, come affermava in modo perentorio la proposizione secondo cui «le organizzazioni sindacali devono separare le loro responsabilità da quelle dei raggruppamenti politici dai quali si distinguono per natura, finalità, metodo di azione» e anche «rivendicare costantemente la piena indipendenza da qualsiasi influenza esterna e l’assoluta autonomia di fronte allo Stato, ai governi, ai Partiti»88. Ma in un altro, più pregnante significato essere autonomi significava che «i lavoratori si riconoscono e si presentano, in quanto tali, nel loro spessore empirico di partecipanti al processo produttivo ed è in quanto tali che essi acquistano quei diritti e quei poteri che li renderanno essenziali e determinanti nelle decisioni concernenti la loro stessa prestazione di lavoro Il passaggio da paria a protagonisti avviene qui. Essi hanno già come cittadini i diritti politici, hanno anche come parte debole della società alcuni diritti sociali; la loro vera minorazione sta paradossalmente nella sfera dei loro diritti civili, in quella disponibilità limitata, condizionata e comunque non correttamente fondata, di quel solo bene che essi hanno come lavoratori, il loro lavoro, appunto»89.
Un secondo punto notevole delle linee di indirizzo riguardava i rapporti Stato-sindacato rispetto ai quali tre questioni possono essere portate ad esempio dell’originalità ma anche delle difficoltà di dare a quelle linee concreta attuazione. La prima questione era connessa all’attuazione degli articoli 39 e 40 della Costituzione90; la seconda si riferiva al modo di concretizzare l’idea di partecipazione del sindacato alla formazione delle decisioni concernenti le politiche economiche e sociali; la terza implicava infine l’orientamento da assumere nei riguardi della legislazione di sostegno del lavoro, la cui più rilevante e più significativa espressione sarà il cosiddetto Statuto dei lavoratori.
Riguardo alla prima questione, la Cisl fu unanime nell’opposizione fermissima all’emanazione di una legge che tale attuazione realizzasse. In particolare sul riconoscimento del sindacato, la Confederazione riuscì ad assicurarsi il consenso delle altre organizzazioni sindacali, e anche una sorta di non manifesto consenso a che il problema fosse accantonato. Questo fu davvero un notevole successo, perché, come noto, molti cattolici – e quindi una buona parte dellaDemocrazia cristiana – avevano sempre considerato per una molteplicità di ragioni il riconoscimento del sindacato un obiettivo da raggiungere.
La seconda questione si risolse invece in uno scacco. Ma qui giocò un ruolo fondamentale l’atteggiamento assunto dai partiti e in modo particolare dalla Dc. Il teatro di scontro fu la conferenza convocata nel 1961 da Pella, allora ministro del Bilancio, per discutere di sviluppo economico con le parti sociali, che pareva aprire la via della realizzazione dell’idea di partecipazione alla formazione delle decisioni di politica economica e sociale di cui s’è detto. Senonché quella conferenza rimase la prima e l’unica occasione di confronto, perché partiti e governo non erano affatto convinti di ciò che stava sostenendo Pastore proprio in quel momento ossia «che la classe politica non è la sola depositaria del destino della collettività nazionale». Così, non solo il governo non manifestò una sua posizione ma, limitandosi ad ascoltare le opinioni dei convenuti, li congedò annunciando semplicemente la sua intenzione di tener conto delle opinioni espresse, «ma in piena e totale autonomia». Il che stravolgeva completamente l’idea che la Cisl aveva della partecipazione a quel livello, al punto che Romani, presente alla conferenza come rappresentante della Cisl, non poté fare a meno di dichiarare che le forze sociali «non chiedono di essere sentite in benevola udienza ma […] di essere consultate»91.
Per quanto concerne, infine, lo Statuto dei lavoratori, il dissenso che la Confederazione manifestò, almeno sino a un certo punto con grande determinazione, non riuscì a bloccare l’intervento legislativo, che infatti trovò il suo esito ultimo nella legge del 1970. Tutto ciò accadde per una molteplicità di motivi, alcuni dei quali appaiono – ai nostri occhi – altrettanti segnali del dissenso, anche interno, che stava emergendo nei riguardi della Cisl e del suo modo di essere ‘sindacato’.
Il punto di partenza era stato l’ingresso dei socialisti nell’area di governo. Già nel 1964, Pietro Nenni, assunta la funzione di vicepresidente del Consiglio nel governo Moro, cominciò a interpretare il ruolo che gli era stato affidato di ‘attuatore’ della Costituzione, pensando a un insieme di leggi capaci di «assicurare l’esercizio integrale dei diritti sindacali e politici nei luoghi di lavoro». Si trattava però di un orientamento che, nel suo coerente sviluppo, oltre che «[riportare] indietro le lancette della storia», come scrive Giovanni Graziani92, avrebbe presto o tardi mandato in soffitta la contrattazione ossia uno dei punti qualificanti del ‘sindacato nuovo’ perché espressione fra le più significative dell’autonomia.
Quando poi la questione cominciò a essere discussa in Parlamento ossia nella seconda metà degli anni Sessanta, le altre confederazioni e buona parte della dottrina giuslavoristica erano favorevoli al provvedimento non solo perché poco convinti dell’efficacia della contrattazione come strumento per raggiungere obiettivi di carattere strategico a favore dei lavoratori, ma anche perché decisi a privilegiare la soluzione politico-legislativa di quelli che erano ritenuti problemi generali del lavoro. Inoltre, alcune componenti della Confederazione dubitavano della capacità del sindacato ‘modello Pastore’ di esercitare con efficacia la propria azione. Stava maturando in esse la conversione del sindacato «dalla associazione alla classe», da cui derivava, con stringente necessità, l’unità del sindacato, anche perché, come affermavaPierre Carniti, l’obiettivo da raggiungere nel cruciale ambito dei rapporti con le imprese non era di razionalizzarli ma di creare le condizioni per «un trasferimento massiccio di potere alle organizzazioni sindacali»93.
A dire la verità, i dubbi sulla reale possibilità di mutare radicalmente e attraverso il contratto il sistema delle relazioni fra impresa e lavoratori non erano del tutto infondati. Non si poteva facilmente dimenticare la manifestazione di primitivismo culturale offerta dal presidente della Confindustria, Angelo Costa, in occasione dello scontro conPastore tra la fine del 1952 e gli inizi del 1953, che faceva intravedere l’estrema difficoltà di realizzare qualche progresso94.
La polemica era partita proprio da un’osservazione del segretario della Cisl, stando alla quale, nella maggioranza delle aziende italiane, i rapporti umani continuavano a svolgersi in un clima che assomigliava molto a quello di una caserma. Con questo, Pastore poneva una questione sostanziale: quella di una profonda trasformazione dei rapporti sociali nelle imprese coerente con l’altrettanto profonda e prevedibile trasformazione dell’economia italiana. Lo scenario che il segretario del sindacato prefigurava non era più l’Italia semiarretrata ereditata dal fascismo, ma un paese destinato a collocarsi fra le grandi economie industriali dell’Occidente, nelle quali gli effetti economici e sociali dell’industrializzazione e i consolidati assetti democratici rendevano totalmente insostenibili sistemi di relazioni di lavoro come quelli ancora prevalenti nel paese.
Al quadro disegnato daPastore, Costa rispose prima di tutto negando il problema, e poi riducendo la questione a uno dei tanti conflitti di lavoro. In tal modo egli dimostrava una straordinaria mancanza di prefigurarsi il futuro – un futuro che, per quanti avevano invece occhi per vedere, stava diventando un presente del quale lo stesso Costa era peraltro testimone.
Sul piano del rinnovamento sostanziale delle relazioni industriali, del resto, l’immobilismo caratterizzava anche il settore delle imprese pubbliche. Era stato Romani a proporre d’inserire nel nuovo statuto dell’Istituto per la ricostruzione industriale (Iri), al quale stava lavorando un’apposita commissione presieduta da Orio Giacchi, l’esplicito impegno a «promuovere lo sviluppo economico generale del paese attraverso l’adozione di nuove tecniche produttive, di nuove forme nelle relazioni di lavoro e di nuovi mezzi per l’espansione del commercio con l’estero, nonché attraverso il potenziamento dell’attrezzatura industriale del Mezzogiorno»95. Sappiamo che il ‘progetto Giacchi’ non ricevette molta attenzione. Non di meno, nel 1962 fu firmato un accordo con l’Intersind finalizzato alla sperimentazione, nelle imprese a partecipazione statale, di un nuovo modello di relazioni industriali96, accordo che però non diede grandi risultati sia per resistenze interne al sistema sia per la probabile, generale convinzione che la questione non fosse troppo importante.
Un terzo punto caratteristico del ‘sindacato nuovo’ è costituito dal modo di intendere la questione della rappresentanza sindacale sui luoghi di lavoro. La premessa da cui partire era l’idea della Cisl secondo la quale, esistendo il problema di garantire ai lavoratori il massimo di vantaggi dal punto di vista economico e normativo, occorreva introdurre un livello di contrattazione appropriato ossia il livello aziendale. Questo poneva, evidentemente, la questione della presenza del sindacato sui luoghi di lavoro.
Ma da sempre la rappresentanza a questo livello era assicurata dalle commissioni interne, che essendo formate da membri eletti da tutti i lavoratori, sindacalizzati e non, non erano propriamente strutture del sindacato. Per questo, la Cisl era stata sempre molto attenta a non identificare le due forme di rappresentanza bensì a perseguire l’obiettivo di creare sezioni sindacali aziendali. Di conseguenza si era costantemente opposta e aveva altrettanto costantemente respinto ogni tentativo di legiferare in materia, perché questo avrebbe significato riconoscere l’esistenza ‘ufficiale’ di una nuova forma di rappresentanza, diversa dal sindacato.
Senonché le tendenze dominanti andavano in direzione opposta rispetto agli orientamenti espressi dalla Cisl. La Cgil era infatti abbastanza favorevole alle commissioni interne, prima di tutto perché pensava di riuscire a distinguerle dalle rappresentanze sindacali aziendali, e poi perché – trattandosi di una forma di rappresentanza generale dei lavoratori, non importa se sindacalizzati o meno – esse erano pur sempre espressione dell’unità della classe operaia, che per la sinistra politica e sociale continuava a essere un valore in sé. Sul versante opposto, gli imprenditori, in molta parte fedeli a una visione sostanzialmente arcaica dei rapporti sociali, derivata, almeno in parte, dalla «continuità culturale delle componenti industriali, agricole, commerciali e finanziarie dell’economia italiana cresciute all’ombra della protezione e della mancanza di libertà sindacale del tempo del fascismo»97, tolleravano le commissioni, perché ritenevano che ammettere il sindacato al livello delle unità produttive pregiudicasse la possibilità di condizionare i lavoratori. Una possibilità che comunque, di lì a poco, sarebbe svanita quasi totalmente proprio per l’incontrollabilità delle rappresentanze – formali o non – dei lavoratori: quando queste saranno condizionate dall’«irruzione barbarica degli operai non sindacalizzati» e i rapporti fra impresa e lavoratori, come pure tra i lavoratori ai diversi livelli di funzioni, saranno sovente caratterizzati dal radicalismo dei comportamenti e, in non pochi casi, dalla violenza e da una «irrazionalità anti-industrialista che tutto travolse»98.
Il significato di tutto ciò è importante per spiegare anche gli eventi successivi. Il ripetersi degli insuccessi su punti qualificanti l’identità del ‘sindacato nuovo’ evidenziava la persistente incapacità di cogliere il senso più profondo della proposta di Romani che era, secondo l’interpretazione di Marongiu, di considerare il «libero associarsi di lavoratori […] la fonte materiale e formale a un tempo, da cui scaturisce [una] singolare forza creativa di diritti davvero nuovi perché non prima esistenti in quanto tali ma, eventualmente, solo come rivendicazione sociale o istanza morale», diritti «grazie ai quali le società ‘naturali’ della politica, dell’economia, dei rapporti collettivi diventano società ‘civili’, società, cioè, ordinate e pacificate in una trama di riconoscimenti reciproci e di reciproche attribuzioni di poteri e doveri»99.
La capacità della Cisl di acquisire consenso si era rivelata consistente. Secondo dati la cui prossimità al reale non appare del tutto certa, nel 1950 gli iscritti al nuovo sindacato erano quasi 1,2 milioni rispetto ai 4,6 milioni della Cgil. Le adesioni erano poi aumentate con continuità a 1,8 milioni nel 1970 e a 2,6 nel 1975 a fronte di una Cgil scesa a 2,6 milioni nel 1960 e successivamente a 2,9 milioni nel 1970 fino al balzo in avanti degli anni tra il 1970 e il 1975, quando gli iscritti erano tornati a essere 4 milioni circa. Per quanto concerne le federazioni dell’industria, gli iscritti alla Cisl variarono tra i 470.000 del 1950 e i 930.000 del 1975 mentre quelli della Cgil furono compresi tra 1,9 milioni e 1,7 milioni negli stessi anni, dopo aver toccato il minimo di 870.000 nel 1960. In aumento furono anche gli iscritti alla Federazione dei salariati e braccianti agricoli della Cisl (da 260.000 a 370.000) e quelli delle federazioni del settore privato dei servizi (da 500.000 a 600.000). Per quanto concerne il pubblico impiego l’andamento delle iscrizioni fu particolarmente brillante giacché, nei venticinque anni considerati, si passò da 140.000 a 630.000100.
Il fatto è che i risultati dell’azione sindacale considerata in uno dei suoi più importanti ambiti – quello delle retribuzioni e riferiti al ventennio 1950-1970 – erano stati complessivamente positivi. Mentre si può convenire con Guido Baglioni sul giudizio di stazionarietà delle condizioni sociali, i dati confermano un significativo incremento del potere d’acquisto dei salari. Infatti, nel quadro di una crescita del prodotto interno netto di circa 6 volte in valore assoluto e a moneta corrente (e di circa 3 volte a moneta costante ossia da 9.300 a 29.400 miliardi) tra il 1952 e il 1965 (anno, questo, in cui si sarebbero manifestate le prime critiche alla Cisl di Pastore), la quota attribuita ai lavoratori dipendenti (compresi tra 19,8 e 19,4 milioni di persone) sarebbe passata da 49,4 a 59,1%101. Sempre nel periodo 1952-1965 il reddito annuo da lavoro dipendente in moneta corrente sarebbe passato da 4,5 a 16,7 miliardi di lire (+3,7 volte, con prezzi aumentati di 1,6 volte) mentre si calcola che il reddito medio annuo pro capite da lavoro dipendente in moneta corrente sia passato da 479.500 a 1.406.000 (+2,9 volte con prezzi aumentati di 1,6 volte).
Se si amplia l’arco temporale considerato, la situazione non muta in modo significativo. Infatti, il reddito annuo da lavoro dipendente in moneta corrente sarebbe aumentato, tra il 1952 e il 1970, da 4,5 a 27,6 miliardi (+6 volte contro un aumento dei prezzi di circa 2 volte e a fronte di un aumento del prodotto interno netto di circa 5 volte: da 9.300 a 46.400 miliardi a moneta corrente) mentre il reddito medio annuo pro capite da lavoro dipendente in moneta corrente si sarebbe portato da 479.500 a 2.153.000 lire (+4,5 volte con prezzi aumentati di 1,8 volte)102.
Non è dunque infondato accreditare alla Cisl diPastore un apporto significativo al sostanziale cambiamento realizzatosi in Italia in termini di condizioni materiali di vita di una parte consistente della popolazione. Va tenuto in debito conto il fatto che, proprio al principio degli anni Sessanta, la contrattazione aziendale era entrata fra gli strumenti di una politica salariale più in linea con l’esigenza di far partecipare i lavoratori dipendenti ai risultati economici della gestione delle imprese e che quella fu una prassi destinata ad affermarsi, malgrado le fortissime resistenze degli imprenditori e delle loro associazioni e lo scarso entusiasmo delle altre confederazioni, Cgil in primo luogo.
Tuttavia, l’impetuoso sviluppo dell’economia si stava realizzando con marcati caratteri di spontaneismo che non soltanto lasciava irrisolti una serie di problemi strutturali d’antica data – a cominciare dai dualismi territoriali e intersettoriali – ma che non generava alcuna consapevolezza circa la necessità di conversioni culturali capaci di dominare il nuovo che si stava affermando.
L’aumento dell’occupazione, particolarmente intenso nel settore industriale, aveva creato l’illusione che il secolare problema della sottoutilizzazione del lavoro fosse prossimo alla soluzione. E tutti ricordano che un autorevolissimo protagonista delle scelte di politica economica di quegli anni, Pasquale Saraceno, pubblicò nei primi anni Sessanta un libro dal titolo assai significativo: L’Italia verso la piena occupazione103.
In ogni caso, per effetto della trasformazione in atto, in un universo di imprese industriali in tanto forte quanto caotica espansione avvenne l’inserimento di una manodopera non solo priva di qualificazione ma anche del tutto priva di esperienza di lavoro in fabbrica perché proveniente in gran parte da un’agricoltura arretrata essa stessa. Una massa di immigrati si insediò in aree non adeguatamente attrezzate per ospitare uomini e donne con difficoltà di inserimento in realtà sociali e culturali assai differenti persino nella lingua. Così una nuova forza lavoro portatrice di esperienze preindustriali s’inseriva in un contesto ancora culturalmente refrattario al superamento degli assetti economico-sociali tradizionali. Sarà Romani a interpretare la situazione economica e sociale dei primi anni Settanta affermando che «da qualche anno a questa parte, essendo stato anche il nostro paese investito, quasi suo malgrado, anche al di là della sua stessa volontà, da questi grandi processi di trasformazione industriale e di crescita, noi ci troviamo a viverli nella peggiore delle condizioni; nella condizione, cioè, di quelli che, lungi dall’averli desiderati, sognati o creati con le loro mani, se li sono visti, per una specie di ineluttabilità, venire incontro senza averli previsti»104.
Tutto ciò ebbe ripercussioni decisive sulla sopravvivenza della vecchia Cisl. Già si è detto, accennando alle ragioni della sconfitta sulla questione dello Statuto dei lavoratori, di un primo manifestarsi dell’idea di abbandonare, superandola, la concezione del sindacato delle origini. Ma credo anche che il consolidamento delle posizioni critiche verso il ‘modello’ sia stato favorito dalla scelta di Giulio Pastore di chiudere la sua esperienza di sindacalista e di accettare la proposta di Fanfani di entrare a far parte del suo esecutivo per guidare la politica meridionalista. Le ragioni di quella scelta sono chiare. Pastore pensava che la nuova posizione gli avrebbe consentito di realizzare le riforme per il rafforzamento della democrazia attraverso il ‘risorgimento’ delle classi popolari secondo una linea che, a suo tempo, gli aveva procurato più d’uno scontro conDe Gasperi e con altri dirigenti della Democrazia cristiana, a partire da Guido Gonella105.
SenonchéPastore lasciava un sindacato nel quale alcune componenti, e specie i più giovani, se avevano condiviso, magari con qualche riserva106, le idee sue e di Romani, non erano sufficientemente motivati a sostenerle nel momento in cui le mancate risposte ai problemi, più sociali che economici, posti da una realtà in grande e rapida trasformazione e i comportamenti delle altre confederazioni, degli imprenditori e delle forze di governo sembravano implicitamente indicare la sconfitta del modello. Del resto, forti dubbi sull’opportunità della scelta di Pastore in rapporto al futuro del sindacato erano emersi poco tempo prima, al manifestarsi della sua volontà di impegnarsi nella Commissione della Comunità economica europea. Erano stati i sindacalisti americani a fargli sapere che «la sua dimissione darebbe al movimento sindacale italiano e alle forze democratiche un colpo severo, specialmente nella difficile situazione internazionale che ci sta di fronte»107.
Saba spiega la crisi della Cisl con il fatto che venne a mancare «l’integrazione delle nuove forze di lavoro, prevalentemente giovani, nell’esperienza della società industrializzata, con tutti i problemi già di per sé stessi complessi nelle fabbriche e nella vita». I nuovi operai senza qualificazione «presentano la loro domanda nelle forme e con la coscienza elementari che le sono proprie. La domanda non trova una risposta adeguata e tempestiva, in parte per ragioni strutturali e in parte per l’insufficienza delle iniziative che possono essere prese nell’ambito delle strutture esistenti». Si generò così uno stato di profondissima insoddisfazione che si sommava al disagio per i caratteri del lavoro industriale, ed è su questi elementi che fu misurata l’efficacia dell’azione sindacale. E il giudizio fu negativo.
Gian Primo Cella e Bruno Manghi hanno individuato le ragioni della crisi del modello Pastore-Romani nel fatto che «la classe dominante […] non lascia possibilità di successi reali a forme di sindacalismo integrato». Così, dovendo in qualche modo rispondere a una base in termini di tutela sindacale, non restò «ai militanti e ai quadri di origine cattolica o laica non marxista che imboccare la strada della conflittualità; accettare pur con tutta la riluttanza possibile la lotta di classe, scaricando prima nei fatti poi anche nella coscienza e nella parola l’equivoco dell’interclassismo»108.
Di fatto, alcune delle federazioni più esposte, e anche più direttamente a contatto con le nuove leve del lavoro – come la Federazione italiana metalmeccanici (Fim) e, specialmente, i giovani dirigenti formatisi nella scuola di Firenze –, del sindacato delle origini riconobbero l’autonomia nei riguardi della politica e dei partiti e delle federazioni rispetto alla confederazione, perché tutto ciò consentiva di sviluppare meglio l’azione sindacale medesima. Ma si trattava di un concetto di autonomia che, a parte il nome, nulla aveva a che fare con il pensiero di Romani.
Contemporaneamente fu rifiutata e abbandonata l’idea dell’azione responsabile e del sindacato come libera e volontaria associazione di lavoratori. E poiché al sistema politico si addebitava la mancanza di interventi volti a migliorare in modo significativo la condizione dei lavoratori dentro e fuori l’impresa, il sindacato assunse funzioni direttamente politiche, e la ricerca di soluzione dei problemi divenne rivendicazione.
Sotto il profilo del metodo d’azione, si ritenne che «essendo mutato il rapporto di forza nel mercato del lavoro» fosse possibile con una «spallata inquadrata in un disegno generale di rivoluzione sociale, ottenere tutto e subito al livello della soddisfazione dei bisogni immediati: un alto livello delle retribuzioni, una nuova organizzazione del lavoro libera dalla subordinazione, una disponibilità a misura dei bisogni di tutti i servizi sociali»109. Saba sottolinea anche il senso di insicurezza che, superata ma non sostituita con un modello alternativo la concezione del sindacato del 1950, prese tutti e, in particolare, «quella parte del personale dirigente centrale, specie al livello confederale che aveva minore esperienza dei problemi e delle situazioni della parte industriale del Paese e che aveva anche precisi limiti nell’analisi e nell’interpretazione sul piano culturale (della specifica cultura per questo tipo di problemi) dei fenomeni che si svolgevano sotto i suoi occhi»110. Meno che mai potevano avere capacità interpretativa adeguata dei fenomeni che li toccavano direttamente i sindacalisti che operavano a contatto con i lavoratori. Così, venuta a mancare ogni possibilità di riferimento alla dirigenza confederale, essi finirono con l’aderire «a quella che sembrava […] la tendenza storica alla quale era impossibile sottrarsi: il ritorno alla concezione esclusiva della classe operaia»111.
Ora, è ben comprensibile che le aspettative insoddisfatte dei lavoratori generassero il rifiuto dei contenuti e dei metodi dell’azione sindacale propri della Cisl delle origini. Il fatto è, però, che questo rifiuto, espresso dai dirigenti di alcune federazioni, fu giustificato, sul piano teorico, da non pochi studiosi di discipline legate al lavoro, impegnati in attività di ricerca e formazione nell’ambito della Cisl.
La posizione dei critici era molto chiara, almeno a quel tempo. Partiva da un giudizio sull’esperienza della Cisl «degli anni Cinquanta» che se da un lato riconosceva i meriti d’una «elaborazione teorica decisamente innovativa per l’esperienza sindacale italiana», dall’altro era rozzamente ‘liquidatorio’, perché al carattere innovativo contrapponeva «una pratica moderata sostanzialmente anticomunista» – un’affermazione, questa, non corrispondente alla realtà, se per anticomunismo s’intende il principio e l’obiettivo dell’azione sindacale112.
A questo giudizio complessivamente negativo sul primo ciclo seguiva l’analisi degli anni Sessanta durante i quali «i discorsi teorici degli anni Cinquanta» si erano concretizzati, sia pure con difficoltà. Ma quelli erano stati anche gli anni durante i quali si era cominciato «a rovesciare gli atteggiamenti moderati, a emarginare (sempre faticosamente e con dure lotte interne) i comportamenti filopadronali»: operazione considerata «in larga misura riuscita, a tal punto che l’agire pratico della nuova Cisl riesce ancora oggi a spaventare taluni teorici degli anni Cinquanta», come, con qualche azzardo, si scriveva nei primi anni Settanta113.
L’attacco al modello originario di sindacato aveva poi avuto il merito di liberare «le masse cattoliche» da una gestione «conservatrice», organizzata «su una linea interclassista e moderata, avente alla lunga una funzione di freno sull’intero movimento». Così, grazie alla nuova Cisl, alle Acli e anche alla Fim, «masse estranee in larga misura alla cultura socialista, in parte d’ascendenza cattolica in parte più semplicemente spoliticizzate, hanno trovato un posto e svolto un ruolo di protagoniste sul fronte della lotta di classe a fianco delle masse socialiste»114.
Il fatto è che, per non lasciarsi dominare dagli eventi ma per indirizzare i ‘nuovi lavoratori dell’industria’ sullo stesso percorso seguito dai lavoratori organizzati dei grandi paesi industrializzati dell’Occidente, sarebbe stato necessario possedere una solida fiducia nelle proprie idee. Quella fiducia che Romani espresse alla vigilia della sua scomparsa affermando che
«l’azione sindacale è un tipico caso di azione collettiva in cui, chi non pensa che sia vero ciò che è efficace e che sia giusto ciò che porta all’egemonia della classe lavoratrice, deve perseguire il massimo di possibilità di portare avanti le idee anche di pochi, col massimo di possibilità di allargare sempre di più il consenso stesso, senza manipolazioni ed ostacoli di sorta»115.
Come s’è detto, dell’esperienza precedente, oltre all’autonomia, erano fatti salvi, almeno da un punto di vista formale, alcuni elementi come lo sforzo di organizzare il sindacato a partire dall’azienda e la logica della contrattazione a tutti i livelli. Ma queste eredità erano accettate in quanto avrebbero meglio consentito alla nuova Cisl di sviluppare la sua azione di sindacato di classe liberatosi «[del] moderatismo e [della] collaborazione con il padrone»116. Definitivamente superata era anche «l’esaltazione teorica del contrattualismo privatististico degli anni Cinquanta» che, nel contesto del nuovo corso, era diventato strumento di un’azione articolata per il «tallonamento dell’iniziativa capitalistica [e per] l’estensione della lotta di classe»117.
Nulla di più chiaro circa i caratteri fondamentali della nuova Cisl, e nulla di più ovvio dello sbocco nell’unità del sindacato. Dirà Baglioni, indicando l’evoluzione prevedibile della nuova Cisl, che un primo carattere di questa evoluzione sarebbe stato «l’acquisizione della dimensione di classe dell’azione sindacale che si fonda non solo sui palesi interessi omogenei dei lavoratori ma soprattutto sulla loro comune condizione di subordinazione e di marginalità nei rapporti sociali dominanti»; un secondo carattere avrebbe invece coinciso con l’unità sindacale, intesa come svolgimento coerente dell’unità di azione; un terzo carattere sarebbe stato infine «l’esperienza vissuta dal sindacato di fare politica in prima persona per trasmettere le esigenze dei lavoratori alle sedi legislative e di governo, per dare contenuto al valore dell’autonomia»118.
Un’unità reale, dunque, perché fondata su una visione condivisa del ruolo del sindacato, del significato della sua azione, del metodo dell’azione sindacale – un’unità abissalmente distante da quella del patto di Roma e davvero profondamente innovativa rispetto a un passato remoto (la Cil) e prossimo (la Cisl delle origini).
Il punto era però che l’opera di rifondazione avrebbe avuto successo nella misura in cui il nuovo modello fosse stato largamente condiviso, il che non accadeva, perché, contrariamente a quanto Cella e Manghi hanno scritto – e cioè che «l’operazione [di emarginazione dei nostalgici] è praticamente riuscita» – la realtà era tutt’altra, come dimostrarono la tenace e vigorosa resistenza alla cancellazione della ‘vecchia Cisl’ praticata da alcune federazioni e, soprattutto, gli esiti dell’azione per l’unità, malgrado l’affermazione che «la battaglia non concerne più la possibilità di essere uniti bensì il tipo di sindacato cui si intende por mano»119.
In realtà, la critica al modello delle origini non nasceva dalla negatività dei risultati ottenuti ma da giudizi e interpretazioni di carattere ideologico-politico di cui pare buona testimonianza il citato scritto di Baglioni del 1975. Affermare, da una parte, che «la brillante crescita della nostra economia industriale cui, però, non seguono condizioni sociali più eque ed avanzate, fa cadere l’assioma della prima Cisl sulla stretta correlazione fra sviluppo economico ed avanzamento sociale»120 costituiva una palese forzatura delle idee dei ‘fondatori’. Prima di tutto perché «l’assioma» richiamato da Baglioni non era tale, visto che non si aveva a che fare con il ‘principio evidente ma indimostrabile’ dei matematici e né tanto meno con la ‘proposizione prima da cui parte la dimostrazione’ del sommo Aristotele, ma piuttosto con una condizione entro cui si sarebbe realizzato l’‘avanzamento sociale’ come esito voluto di un’azione consapevole e con il concorso, necessario, delle forze politiche e delle altre forze sociali: dagli imprenditori agli altri sindacati.
La nuova Cisl intendeva muoversi avendo tre punti di riferimento: il primo la «centralità e la insostituibilità della lotta per la effettiva tutela della classe operaia»; il secondo «la pratica e la teorizzazione dell’unità d’azione»; il terzo «la realizzazione dell’autonomia come condizione essenziale per sperimentare la bontà intrinseca del metodo sindacale». Ma si trattava di un’autonomia funzionale al nuovo modo di essere del sindacato ossia «un movimento conflittuale e tendenzialmente antagonista»121.
Con la fine degli anni Sessanta, il processo di unità sindacale si mise in moto. Se ne discusse a Firenze tra il 1972 e il 1973. Furono fissati i congressi di scioglimento, ma non si andò al di là delle deliberazioni. Il fatto è che, per quanto riguarda la Cisl, alcune federazioni, e non delle più piccole – come la Federazione italiana salariati e braccianti agricoli (Fisba) e la Federazione lavoratori aziende elettriche italiane (Flaei) – erano determinate a ostacolare con tutti i mezzi, scissione compresa, l’annullamento totale di un’esperienza ritenuta ancora valida. E poi molti percepivano il paradosso che, ove lo scioglimento delle preesistenti confederazioni si fosse realmente concretizzato, l’unità si sarebbe realizzata contemporaneamente a una nuova scissione. Perciò si decise di procedere con molta gradualità, cominciando con un patto federativo fra le tre confederazioni. Ma non era ben chiaro se la forma di unità che i sindacati si volevano dare costituisse il preludio di un’unità organica o il massimo di unità possibile.
D’altra parte, l’andamento della congiuntura economica stava ponendo seri problemi di coerenza tra l’azione sindacale e le esigenze assolute di superare una crisi in atto che penalizzava duramente i lavoratori. La rincorsa tra prezzi e salari si svolgeva a vantaggio dei primi. Infatti, all’aumento medio annuo delle retribuzioni nominali del 5,1% nella prima metà degli anni Settanta, e del 16,1% nella seconda metà, corrispose un aumento medio annuo dei prezzi del 20% lungo tutto il periodo122.
Ma non era possibile ritardare ulteriormente il rientro dall’inflazione. Intanto, perché la crisi del dollaro e lo straordinario aumento dei prezzi dei prodotti petroliferi e delle materie prime stavano rivoluzionando le gerarchie economiche dei grandi paesi industrializzati, ed erano comunque diverse da paese a paese. Poi perché l’instabilità dei prezzi e il deterioramento dei cambi minacciavano seriamente l’unità economica dell’Europa, evento che avrebbe avuto conseguenze negative incalcolabili per l’Italia e per tutti i lavoratori123.
Oltre a ciò, le politiche salariali degli anni Settanta si caratterizzavano per il loro carattere ‘egualitaristico’, che, se liquidava una tradizione palesemente superata dalle trasformazioni dell’organizzazione del lavoro determinate dalle innovazioni tecnologiche e dalle nuove funzioni e rendeva persino incomprensibili le persistenti diversità di trattamento economico e normativo fra operai e impiegati (retribuzioni, orari di lavoro, ferie, coperture assicurative e assistenza per malattia e infortuni), penalizzava ingiustamente i lavoratori collocati ai livelli medio-alti delle funzioni e non valorizzava adeguatamente le competenze di tutti124. La radicalizzazione dell’egualitarismo, infatti, finì per ostacolare le necessarie connessioni tra prestazione e salario e soprattutto fra salari e risultati economici conseguiti dall’impresa che, invece, era uno dei punti più caratteristici e innovativi della politica salariale della ‘vecchia’ Cisl.
Nella seconda metà degli anni Settanta poi, la pur breve durata del cosiddetto ‘compromesso storico’ fece emergere una situazione che molti supponevano superata ossia i legami tra partiti e sindacati e, nel caso specifico, i legami fra Cgil e Partito comunista. Legami mai recisi, in primo luogo perché la Confederazione aveva chiaramente dimostrato di non essere disposta a seguire fino in fondo l’idea che il sindacato diventasse un soggetto direttamente politico, dato che anche l’azione sindacale avrebbe dovuto essere ricondotta «nell’ambito di una precisa strategia politica, quella del Pci»; in secondo luogo perché la drammatica situazione nella quale il paese era piombato tutto ammetteva meno che la rescissione di quei legami125.
Ma tutto ciò non poteva che accrescere i dubbi sull’opportunità di proseguire la marcia intrapresa verso l’unità sindacale. Questo determinò il permanere della soluzione federativa, ma l’esistenza della ‘triplice’ si protrasse in una condizione di palese sopravvivenza, nonostante il fatto che, nel 1978, fosse stata indetta, a Roma, la prima e ultima assemblea delle principali componenti delle tre confederazioni. L’evento fu, invece, il vertice della parabola rappresentativa del percorso verso l’unità.
Proprio nel 1979, la decisione di Carniti di onorare la memoria di Giulio Pastore nel decennale della sua morte fu un atto destinato ad assumere una valenza simbolica o, più precisamente, l’avvio di una fase di ripensamento e di rivalutazione di un modello che aveva dimostrato piena coerenza con gli interessi reali – non soltanto economici – dei lavoratori.
1 G. Pastore, Politica di piano e democrazia. Intervento al II Convegno ideologico della DC. S. Pellegrino, ottobre 1962, in Id., I lavoratori nello stato, Firenze 1963, p. 590.
2 Su questi problemi e sul faticoso formarsi in Italia di un tessuto associativo che, con gradualità, assumesse una propria specificità, cfr. V. Saba, Le esperienze associative in Italia (1861-1922). Contributi per una storia del movimento sindacale in Italia, Milano 1978.
3 Va rilevata la singolarità della sindacalizzazione dei contadini di queste ultime categorie perché si trattava di lavoratori autonomi. Per giustificare questo fatto occorre considerare che in quegli anni, l’autonomia di quelli che coltivavano terreni di proprietà di altri sulla base di contratti era soltanto nominale. In ogni caso, la decisione dei socialisti di riconoscere le loro associazioni mentre da una parte ebbe successo, dall’altra suscitò grandi contrasti all’interno del movimento perché pareva a molti che organizzare lavoratori autonomi fosse atto di intollerabile incoerenza rispetto alla dottrina. Un successo anche superiore a quello dei “rossi”, ebbero i cattolici. Ma, in questo caso, non vi erano ragioni di principio per non sostenere la determinazione di quelle categorie di costituirsi in associazione (su questi problemi cfr. Lotte agrarie in Italia. La Federazione nazionale del lavoratori della terra 1901-1926, a cura di R. Zangheri, Milano 1960; A. Cova, I problemi del lavoro agricolo, in Cattolici e socialisti di fronte ai problemi del lavoro (1900-1914), «Bollettino dell’archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia», XXI, 1986, maggio-agosto, pp. 210-238.
4 G. Rocca, Il nuovo modello di impegno religioso e sociale delle congregazioni religiose in area lombarda, in L’opera di don Luigi Guanella. Le origini e gli sviluppi nell’area lombarda, Como 1988, p. 21. Questo autore indica in 200 il numero delle nuove fondazioni, 49 delle quali in Lombardia.
5 G. Rocca, Il nuovo modello di impegno cit., p. 32.
6 A. Gambasin, Il movimento sociale dell’Opera dei Congressi (1874-1904). Contributo per la storia del cattolicesimo sociale in Italia, Roma 1958.
7 Leone XIII, Rerum novarum. Lettera enciclica sulla condizione degli operai, Bologna 1991, p. 7.
8 Ibidem, p. 49.
9 G. Rumi, Tempo di scienza e di democrazia. La “politica del lavoro” nell’opinione ambrosiana 1902-1911, in Cattolici e socialisti, cit., p. 112.
10 M. Chiri, Lo stato attuale dell’organizzazione professionale cattolica in Italia in La cultura sociale dei cattolici italiani alle origini. Le “Settimane” dal 1907 al 1913, II, (1909-1911), a cura di A. Robbiati, Milano 1995, pp. 331-332. Si tratta della relazione presentata alla VI settimana tenutasi ad Assisi dal 24 al 30 settembre 1911 sul tema L’organizzazione professionale. Su questo punto cfr. A. Riosa, Socialisti e cattolici tra unità e pluralismo sindacale (1900-1914), in Cattolici e socialisti, cit., p. 197.
11 A. Robbiati, Achille Grandi. Il sindacalista che portò il Vangelo tra i lavoratori, Milano 1998, p. 19.
12 V. Saba, Giulio Pastore sindacalista. Dalle leghe bianche alla formazione della CISL (1918-1958), Roma 1983, p. 20.
13 Id., Le esperienze associative, cit., p. 82.
14 Ibidem, p. 94.
15 A. Riosa, Socialisti e cattolici, cit., p. 190.
16 A. Forbice, La forza tranquilla. Bruno Buozzi, sindacalista riformista, Milano 1984, p. 22.
17 Cito da V. Saba, Le esperienze associative, cit., p. 78.
18 Si tratta di un passaggio del discorso che Rinaldo Rigola tenne nel 1902 al II° congresso della citata federazione (cfr. V. Saba, Le esperienze associative, cit., p. 91).
19 Su questi problemi cfr. A. Riosa, Socialisti e cattolici, cit., pp. 207-208.
20 V. Saba, Le esperienze associative, cit., p. 48.
21 A. Riosa, Socialisti e cattolici, cit., p. 190.
22 Cfr., l’elenco nominativo delle organizzazioni e il numero degli iscritti in Lotte agrarie in Italia, cit., pp. 6-7.
23 M. Abrate, Il Consiglio superiore del lavoro, i sindacati cattolici e la Confederazione dell’industria nell’età giolittiana, «Bollettino per la storia del movimento sociale cattolico in Italia», X, 1975, 1, pp. 46-49.
24 A. Canavero, La Cil, il Partito popolare e l’occupazione delle fabbriche, in Il sindacalismo bianco tra guerra dopoguerra e fascismo (1914-1926), a cura di S. Zaninelli, Milano 1982, pp. 101-102.
25 A. Canavero, La Cil, il Partito popolare, cit., p. 119-122.
26 I brani citati sono tratti da L. Trezzi, Confessionalità, neutralità ed organizzazione sindacale negli orientamenti della Unione economico-sociale pei cattolici italiani, «Bollettino dell’archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia», XIV, 1979, 1-2, p. 359.
27 Cfr. La Confederazione italiana dei lavoratori 1918-1926. Atti e documenti ufficiali, a cura di A. Robbiati, Milano 1981, p. 174.
28 M. Pessina, La consistenza delle organizzazioni sindacali cattoliche in Italia e in Lombardia nelle rilevazioni statistiche ufficiali (1904-1914), «Bollettino dell’archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia », XIV, 1979, 1-2, pp. 211, 216-217.
29 M. Pessina, La consistenza delle organizzazioni sindacali cattoliche, cit., p. 219.
30 A. Riosa, Socialisti e cattolici, cit., p. 203.
31 A. Cova, L’occupazione e i salari. Contributi per una storia del movimento sindacale in Italia, Milano 1977, pp. 21-26.
32 Infatti Gustavo De Santis indica in 30 gli scioperi organizzati dai sindacati tra il 1915 e il 30 settembre 1918 ma dice anche che «alla diminuzione delle lotte si accompagnò però l’aumento dei movimenti sostenuti dalla Federazione [dei metalmeccanici della Cgil] che dai 40 del 1911 passano a 226 del 1918; in particolare aumentarono quelli risolti, direttamente o con l’intervento dei Comitati di mobilitazione, con esito favorevole» in G. De Santis, Il ricorso allo sciopero. Contributi per una storia del movimento sindacale, cit., Milano 1979, p. 65.
33 M. Abrate, Lavoro e lavoratori nell’Italia contemporanea. Contributi per una storia del movimento sindacale in Italia, Milano 1977, p. 56.
34 Per l’agricoltura cfr. A. Cova, I problemi dell’agricoltura italiana nelle proposte della Commissione pel dopoguerra, in Studi in onore di Gino Barbieri. Problemi e metodi di storia ed economia, Pisa 1983, I, pp. 511-536.
35 G. De Santis, Il ricorso allo sciopero, cit., p. 68.
36 Ibidem, p. 73.
37 Nel 1916 le leghe ‘bianche’ di tutti i settori economici erano 567 e gli iscritti 90.000 (cfr. M.G. Rossi, Le origini del partito cattolico. Movimento cattolico e lotta di classe nell’Italia liberale, Roma 1977, tab. XXIII, p. 443).
38 V. Saba, Le esperienze associative cit., p. 111. Su Valente in particolare cfr. Dalla prima Democrazia cristiana al sindacalismo bianco. Studi e ricerche in occasione del centenario della nascita di Giovanni Battista Valente, Roma 1963.
39 Cfr. La Confederazione italiana dei lavoratori, a cura di A. Robbiati, cit., p. 174.
40 V. Saba, Le esperienze associative, cit., p. 115.
41 Ibidem, p. 111.
42 Ibidem, pp. 102, 136 nonché M. Abrate, Lavoro e lavoratori, cit., p. 67.
43 A. Canavero, La Cil, il Partito popolare, cit., pp. 96 segg.
44 V. Saba, Le esperienze associative, cit., p. 73.
45 I risultati della rilevazione furono presentati al Consiglio nazionale della confederazione del 10-12 novembre 1920 (cfr. La Confederazione italiana dei lavoratori, a cura di A. Robbiati, cit., p. 244).
46 A. Cantono, Le tappe della cooperazione cristiana, in Atti del I Congresso della Confederazione italiana delle cooperative, Roma s.i.d., (ma 1921), p. 38.
47 V. Saba, Le esperienze associative, cit., p. 149.
48 Sui caratteri del sindacato fascista cfr. A. Carera, L’azione sindacale in Italia. Dall’estraneità alla partecipazione, I, Dalle origini all’involuzione corporativa, Brescia 1979, pp. 168-195.
49 A. Carera, L’azione sindacale in Italia, cit., p. 178.
50 Questa è la data del documento intitolato Dichiarazione sulla realizzazione dell’unità sindacale. Una seconda firma, ufficiale e solenne, venne apposta il 9 di giugno, a liberazione di Roma avvenuta (cfr. V. Saba, Il “Patto di Roma”. Dichiarazione sulla realizzazione dell’unità sindacale 3 giugno 1944, Roma 1994, p. 49).
51 V. Saba, Il “Patto di Roma”, cit., p. 29.
52 Cito dal doc. riprodotto in V. Saba, Il “Patto di Roma”, cit., pp. 80-81.
53 Cfr. ibidem, p. 21.
54 S. Paronetto, La giustizia sociale, in V. Saba, Il “Patto di Roma”, cit., p. 58.
55 V. Saba, Il “Patto di Roma”, cit., p. 28.
56 Ibidem, p. 42.
57 Grandi stesso, come massimo rappresentante della corrente cristiana nel sindacato unico, partecipò con dirigenti dell’Azione cattolica e della Democrazia cristiana agli incontri del giugno-luglio 1944 che portarono alla costituzione delle Acli come organismo destinato, appunto, a svolgere l’attività indicata (cfr. G. Pasini, Associazioni cristiane dei lavoratori italiani, in DSMC, pp. 170-175). Più avanti, l’interpretazione di quali fossero i confini reali entro i quali il nuovo organismo avrebbe dovuto operare, creò qualche non piccolo contrasto con la Cisl.
58 «Dichiarazione sulla realizzazione», cit., p. 11.
59 Ibidem, pp. 11-12.
60 Giulio Pastore. Lettera a Alcide De Gasperi. 8 agosto 1944, in V. Saba, Il “Patto di Roma”, cit., p. 177.
61 Ibidem, p. 179.
62 Ibidem, p. 180.
63 A. Cova, Movimento economico, occupazione, retribuzioni in Italia dal 1943 al 1955, in Il “sindacato nuovo”. Politica e organizzazione del movimento sindacale in Italia negli anni 1943-55, Milano 1981, pp. 31-52.
64 S. Zaninelli, Politica e organizzazione sindacale: dal 1943 al 1948, in Il “sindacato nuovo”, cit., pp. 297-298.
65 Ibidem, p. 301.
66 Ibidem, p. 300.
67 Questa fu la denuncia che Grandi fece davanti al Direttivo della Cgil nel luglio 1946 (cfr. S. Zaninelli, Politica e organizzazione sindacale, cit., p. 299, nn. 85-86.
68 S. Zaninelli, Politica e organizzazione sindacale, cit., p. 311.
69 V. Saba, Giulio Pastore sindacalista, cit., pp. 88-89.
70 S. Zaninelli, Politica e organizzazione sindacale, cit., p. 306.
71 G. Baglioni, CISL, mondo politico e mondo cattolico, «Aggiornamenti sociali», XXVI, 1975, 1, gennaio, p. 47.
72 V. Saba, Giulio Pastore sindacalista, cit., p. 104.
73 Ibidem, p. 109.
74 Ibidem, p. 126.
75 Ibidem, pp. 114-115.
76 Ibidem, p. 116.
77 Ibidem, pp. 118-119.
78 Ibidem, p. 121.
79 Ibidem, pp. 120-121.
80 Ibidem, p. 135.
81 Così Gonella si espresse al convegno dei gruppi aziendali democristiani tenutosi a Torino il 5-6 gennaio 1952 (cfr. V. Saba, Quella specie di laburismo cristiano. Dossetti, Pastore, Romani e l’alternativa a De Gasperi. 1946-1951, Roma 1996, p. 473).
82 Nella nuova confederazione confluirono Lcgil, la Fil e Unione federazioni autonome italiane lavoratori.
83 A. Ciampani, Lo statuto del sindacato nuovo (1944-1951). Identità sociale e sindacalismo confederale alle origini della Cisl, Roma 1991, p. 192.
84 M. Grandi, Stato democratico e azione sindacale: l’autonomia dell’azione collettiva in Mario Romani. Il sindacalismo libero e la società democratica, a cura di A. Ciampani, Roma 2007, p. 57. Sul punto cfr. anche A. Carera, Cultura della partecipazione in Università Cattolica nel secondo dopoguerra: Amintore Fanfani, Francesco Vito e Mario Romani. Un primo accostamento, p. 12 della relazione in corso di stampa, presentata al convegno di studi tenutosi a Milano nei giorni 11-12 dicembre 2008 sul tema Amintore Fanfani: formazione culturale, identità e responsabilità politica. Il pensiero di Romani sulla questione del rapporto sindacato-democrazia è espresso in Sindacato e sistema democratico, in Id., Il risorgimento sindacale in Italia. Scritti e discorsi 1951-1975, a cura di S. Zaninelli, Milano 1988, pp. 371 segg.
85 Confederazione italiana sindacati lavoratori. Lo statuto (11-14 novembre 1951) in A. Ciampani, Lo statuto del sindacato nuovo, cit., p. 193.
86 M. Romani, Partecipazione: valore da promuovere e da sviluppare, in Id., Il risorgimento sindacale, cit., pp. 342-343. Sull’argomento cfr. A. Carera, Cultura della partecipazione, cit., p. 10. Per quanto concerne in particolare la decisiva questione della cultura, della conoscenza e della formazione cfr. A. Carera, Per la promozione culturale dei lavoratori e dei soci: Mario Romani e la Cisl (1950-1975) in Mario Romani, il sindacalismo libero, cit., pp. 117-176.
87 M. Romani, Sindacati e organizzazioni professionali, in Id., Il risorgimento sindacale, cit., p. 142.
88 A. Ciampani, Lo statuto del sindacato nuovo, cit., p. 193.
89 G. Marongiu, Questione sindacale e questione democratica, in Id., La democrazia come problema. II. Politica, società e Mezzogiorno, Bologna 1994, p. 347.
90 L’articolo 39 della Costituzione italiana recita: «L’organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge. È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica. I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce»; l’articolo 40: «Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano».
91 V. Saba, Giulio Pastore sindacalista, cit., p. 438.
92 G. Graziani, Il nostro statuto è il contratto. La Cisl e lo Statuto dei lavboratori (1963-1970), Roma 2007, pp. 44 segg.
93 Traggo la citazione da G. Graziani, Il nostro statuto è il contratto, cit., p. 107.
94 G. Pastore, I lavoratori nello stato, Firenze 1963, pp. 209-235.
95 A. Cova, L’impresa come comunità, l‘impresa pubblica come laboratorio, in Cultura, etica e Finanza, Esiste un’esperienza cristiana d’impresa?, Milano 1993, p. 72. Ivi alcune considerazione sui lavori della Commissione Giacchi e specialmente sul punto relativo al ruolo delle imprese dell’Iri come luogo di sperimentazione di un nuovo sistema di relazioni fra lavoratori e imprese. Come si sa, la commissione operò tra l’autunno del 1953 e la fine del 1954 (cfr. Ministero dell’industria e del commercio, L’Istituto per la ricostruzione industriale -I.R.I.- II. Progetti di riordinamento, 3 voll., Torino 1955).
96 D. Valcavi, Le politiche contrattuali nel decennio 1958-1967, in La CISL negli anni Sessanta e Settanta. Materiali per un ripensamento, «Quaderni della Fondazione Giulio Pastore» 4, Roma 2005, pp. 69-75.
97 G. Sapelli, Riscoprire l’identità di Pastore e Romani, in Sindacalismo e laicità. Il paradosso della CISL, a cura della Fondazione Vera Nocentini, Milano 2000, p. 107.
98 G. Sapelli, Riscoprire l’identità di Pastore e Romani, cit., p. 110
99 G. Marongiu, Un sindacato nuovo, in Id., La democrazia come problema, cit., p. 353.
100 G. Romagnoli, D. Della Rocca, Il sindacato, in Relazioni industriali. Manuale per l’analisi della esperienza italiana, a cura di G.P Cella, T. Treu, Bologna 1982, tabb. 3.1, 3.2, 3.3, 3.4 3.5, pp. 92-93.
101 G. De Meo, Sintesi statistica di un ventennio di vita economica italiana (1952-1971), «Annali di statistica», 102, VIII, 27, Roma 1973, p. 24. A moneta corrente, il tasso di sviluppo medio annuo del Pil dal 7,2 % del decennio 1960-1969, scese al 3,9% del decennio successivo. Se si considera il più limitato periodo 1969-1973, il dato scende all’1,4% ma con un indice dei prezzi aumentato da 158 a 207, fatto 100 il 1950 per balzare a 437 nel 1979. Un andamento dei prezzi che esprime bene la misura degli aumenti necessari per recuperare il potere d’acquisto delle retribuzioni (miei calcoli da A. Maddison, Dynamic forces in captalist development. A long-run comparative view, Oxford-New York, 1991, pp. 218-219, 306-307). Sulla congiuntura di quel periodo cfr. D.H Aldroft, L’economia europea dal 1914 al 1990, Bari 1994, pp. 285 segg.
102 G. De Meo, Sintesi statistica di un ventennio cit., pp. 142-148. L’indice dei prezzi è calcolato così dall’ISTAT: 1950 = 100; 1952 = 114; 1965 = 181; 1970 = 206 (cfr. Istat, Sommario di statistiche storiche dell’Italia 1861-1975, Roma 1976, p. 125).
103 P. Saraceno, L’Italia verso la piena occupazione, Milano 1963.
104 M. Romani, Il sindacalismo italiano ad una scelta, in Id. Il risorgimento sindacale, cit., p. 292.
105 La questione è benissimo studiata da V. Saba, Quella specie di laburismo cristiano, cit.
106 Proprio a questo riguardo colpisce il contenuto delle interviste pubblicate nel citato volume curato da Cella, Manghi e Piva perché gli intervistati avevano ricoperto ruoli di vertice nell’organizzazione, in particolare Baratta, Bentivogli, Pagani Tridente e Macario che, com’è noto, succedette a Storti alla guida della confederazione (cfr. G.P. Cella, B. Manghi, P. Piva, Un sindacato italiano negli anni Sessanta. La FIM-CISL dall’associazione alla classe, Bari 1972, pp. 49 segg.).
107 V. Saba, Giulio Pastore sindacalista, cit., pp. 406-407.
108 G.P. Cella, B. Manghi, Dall’associazione alla classe: una interpretazione della esperienza FIM-CISL nel decennio ’60, in G.P. Cella, B. Manghi, P. Piva, Un sindacato italiano negli anni Sessanta, cit., p. 17.
109 V. Saba, L’attuale situazione sindacale italiana e gli orientamenti del MoCLI. Relazione tenuta dal prof. Vincenzo Saba al quarto incontro dei militanti sindacali del Movimento, svoltosi a Roma nei giorni 18-19 marzo 1972, «Quaderni di nuova proposta», 7, supplemento a «Nuova proposta» del 25 aprile 1971, p. 13.
110 V. Saba, L’attuale situazione sindacale italiana, cit., p. 13.
111 Ibidem, p. 14.
112 G.P. Cella, B. Manghi, Dall’associazione alla classe, cit., p. 10.
113 Ibidem.
114 Ibidem, p. 11.
115 M. Romani, Per una rinnovata politica del lavoro in Il risorgimento sindacale, cit., p. 158.
116 G.P. Cella, B. Manghi, Dall’associazione alla classe, cit., p. 16.
117 Ibidem, p. 16.
118 G. Baglioni, Cisl, mondo politico e mondo cattolico, cit., p. 59.
119 G.P. Cella, B. Manghi, Dall’associazione alla classe, cit., p. 9.
120 G. Baglioni, Cisl, mondo politico e mondo cattolico, cit., p. 55.
121 Ibidem, pp. 56-57.
122 E. Somaini, Politica sindacale e politica economica, in Relazioni industriali. Manuale per l’analisi, cit., pp. 250-256.
123 In Italia i prezzi al consumo aumentarono ad un tasso medio annuo del 12%, in linea con Irlanda (+ 12,7% e Gran Bretagna, +12,6% ) ma rispetto al 5% della Germania occidentale, del 6,6% degli Stati Uniti e dell’8,6% della Francia (cfr. D.H. Aldcroft, L’economia europea dal 1914 al 1990, Bari 1994, tab. 7.3, p. 292).
124 Sul carattere egualitaristico delle politiche salariali cfr. E. Somaini, Politica sindacale e politica economica, cit., p. 259.
125 V. Saba, Al di là della crisi della federazione unitaria: presente e avvenire, in Verso una nuova era del sindacato?, a cura della Fisba-Cisl, Roma 1985, pp. 14-15.