I cattolici e il consenso politico dopo la fine della Democrazia cristiana
Il partito che è stato di Alcide De Gasperi, Amintore Fanfani e Aldo Moro tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dell’ultimo decennio del secolo XX è stato oggetto e soggetto al contempo di una duplice crisi: di eterodirezione e di legittimazione interna1. La caduta del muro di Berlino, la disintegrazione dell’Impero sovietico sotto i colpi del riformismo di Gorbačëv e delle rivolte popolari nei paesi dell’Est Europa avevano determinato la cessazione del collante ideologico anticomunista e con esso l’allentamento del vincolo atlantico che avevano determinato la ragione di fondo del posizionamento geopolitico dell’Italia nella prima Repubblica. A ciò si è sommato il disorientamento di un elettorato che giorno dopo giorno ha visto sgretolarsi quel fronte ideologico che aveva orientato per quasi mezzo secolo scelte, speranze e progetti di cambiamento nella continuità dello Stato democratico.
Le critiche del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga nei suoi ultimi due anni di mandato al Quirinale al sistema dei partiti2, l’esplosione di Tangentopoli, le affermazioni elettorali della Lega Nord dell’ideologo del partito e docente all’Università Cattolica di Milano, Gianfranco Miglio, e di Umberto Bossi, nonché del movimento della Rete di Palermo dell’ex sindaco democristiano Leoluca Orlando, di padre Ennio Pintacuda e dell’ex direttore de «La Civiltà cattolica» padre Bartolomeo Sorge3, l’iniziativa referendaria del democristiano Mario Segni, basata sulla volontà di proporre con una nuova legge elettorale (un sistema maggioritario corretto in luogo del proporzionale puro vigente)4 una matura democrazia dell’alternanza, hanno spinto i cattolici a interrogarsi su quello che stava accadendo, sulle ragioni storiche di una crisi che non era soltanto elettorale (nelle elezioni del 5 e 6 aprile 1992 per la prima volta nella sua storia il partito scese sotto la soglia del 30%5), ma che aveva nel voto espresso dai cittadini l’ultimo passaggio di un processo di erosione di visione politica generale e di leadership, di capacità di mediazione fra la società e le istituzioni6. Si era diffuso un forte malcontento tra le forze riformatrici della Dc, decise a non rimanere vittime della sindrome dello stato d’assedio da parte della magistratura inquirente. Di qui varie proposte come il Manifesto di Lavarone, dal luogo nel quale si svolse l’incontro della sinistra democristiana nel settembre 1992, e Carta ‘93, un’associazione di cattolici (tra i quali militavano Enzo Balboni, Rosy Bindi e Alberto Monticone, presidente dell’Azione cattolica) che voleva ridisegnare un nuovo assetto del partito attraverso la formazione di una «terza generazione democratica», alternativa a quella che guidava il partito stesso, «preoccupata quasi esclusivamente del successo, e per questo più facilmente esposta ai rischi del clientelismo e della corruzione»7.
Lo scopo di cancellare nell’opinione pubblica l’immagine di un partito formato di soli corrotti e corruttori, quale sembrava emergere dalla spettacolarizzazione mediatica delle inchieste milanesi di «Mani Pulite», è stata alla base anche della proposta di riforma politica di Mario Segni e del suo Movimento dei Popolari per la riforma, intenzionati a versare «alcol sulle ferite»8 di un organismo (quello della prima Repubblica) al fine di «disinfettarlo» dal tarlo della corruzione, dell’autoreferenzialità, a discapito della trasparenza politica e della correttezza delle istituzioni democratiche. Il segretario Mino Martinazzoli (in carica dal 1992 al 1994), dal canto suo, era sollecitato a fare i conti con tutto il partito, a districarsi fra correnti e sensibilità che gli imponevano una gradualità nel pur inevitabile percorso di cambiamento politico9. E ciò emergeva a chiare lettere nell’Assemblea costituente del futuro Ppi il 23 luglio 1993, quando proprio di fronte alla scelta di cambiare nome al partito, mantenendo comunque il simbolo dello scudo crociato, diceva:
«Io mi sono posto ed ho posto la questione del cambiamento della nostra denominazione. Non l’ho fatto per seguire la futilità di una moda o per tagliare di netto la continuità di una tradizione. Questa immagine del “rinnovare senza rinnegare” dice esplicitamente lo spirito della mia riflessione»10.
Nei democristiani la convinzione che il valore determinante del centro politico cristiano si sarebbe riproposto come tema qualificante dell’agenda politica nell’Italia bipolare. Annotava nel suo diario lo storico cattolico e democratico-cristiano Gabriele De Rosa il 23 gennaio 1993:
«Dovremo camminare tenendo nel cuore le nostre speranze, tacendo e pensando come poveri eremiti. Che cosa odiano di noi tanti amici che fuggono sulla destra? Penso proprio a quell’orgoglio che viene […] da quella forza segreta che ci trattiene dalla contaminazione con la banalità, dal desiderio di non tradire la verità, costi quel che costi, e di non lasciarsi avvincere dall’attrattiva verso il mucchio, nel quale appiattisce, muore ogni fede […] L’invito a far parte del branco, a sinistra o a destra, si fa più forte, ora per ora [...]»11.
L’atto di costituzione del Ppi il 18 gennaio 1994 e la segreteria Martinazzoli durata appena 18 mesi non sono riusciti a conseguire la mobilitazione politica e la riorganizzazione effettiva del partito. Nel luglio del 1994, nel primo congresso del nuovo partito, Rocco Buttiglione, proveniente dalle fila del Movimento popolare (espressione politica di Comunione e liberazione) viene eletto segretario sconfiggendo la «sinistra popolare» rappresentata dall’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino. L’allievo di Augusto Del Noce concepisce il partito non tanto come uno strumento di ascolto e di apertura a quei mondi liberi e vitali del cattolicesimo associato come era nella prospettiva martinazzoliana, ma piuttosto come luogo ove la dottrina sociale della Chiesa diventa strategia politica di una minoranza attiva. Lo dichiara in un’intervista al giornale di partito «Il Popolo», ove indica il suo modello ideologico e religioso, corrispondente alla Dc degli anni Cinquanta, e all’epoca di Luigi Gedda e di Pio XII, caratterizzata da un forte profilo cattolico-moderato, nato e sostenuto dalla legittimazione esterna della Chiesa e delle associazioni ecclesiastiche12. Buttiglione, in sostanza, pensa a un’operazione di riconquista dell’elettorato conservatore, al fine di preservarlo dalla tentazione dei postfascisti di Alleanza nazionale e della Lega al Nord. Tale visione, tuttavia, incontra una forte e maggioritaria opposizione interna, tanto che si arriva nell’estate del 1995 a una scissione tra il Ppi, di cui viene eletto segretario Gerardo Bianco, e il nuovo partito dei Cristiani democratici uniti (Cdu) dello stesso Buttiglione, defenestrato dal partito dopo una durissima battaglia congressuale che conoscerà anche strascichi giudiziari.
In questa difficile congiuntura il Ppi cerca di riprendere il filo del discorso politico di Martinazzoli in un quadro di alleanza elettorale di centrosinistra, perseguendo un progetto politico che, assumendo la logica maggioritaria e bipolare, coalizza i postcomunisti del Partito dei democratici di sinistra, gli ex socialdemocratici e repubblicani e parte dello scomparso Partito socialista. L’alleanza si riconosce in un candidato premier che è l’economista cattolico bolognese Romano Prodi, allievo di Beniamino Andreatta e già presidente dell’Iri negli anni Ottanta e in un candidato alla vicepresidenza del Consiglio che è Walter Veltroni, membro della direzione del Pds. Sollecitato dalla gerarchia ecclesiastica, e in particolare dal presidente della Conferenza episcopale italiana Camillo Ruini, ad assumere nel 1994 la guida dei Popolari, Prodi rifiuta seccamente perché, come affermerà successivamente agli eventi, non era sua intenzione essere «l’esecutore testamentario del Partito popolare e della tradizione cattolica in politica»; il suo progetto aveva piuttosto un’ambizione più alta: quella di concorrere, «attraverso la costruzione del centrosinistra, a definire un nuovo equilibrio politico generale»13. Di qui la sua non iscrizione al Ppi e il lancio del movimento «L’Italia che vogliamo», costituito da una rete di comitati sostenitori della sua candidatura alla presidenza del Consiglio dopo le elezioni del 1996. La vittoria alle politiche sembra confermare la bontà della strategia prodiana a discapito tuttavia della forza partitica dei popolari che scendono nel 1996 dall’11,1% del 1994 al 6,8%, pari a poco più di due milioni e mezzo di voti14. Un risultato che spinge il partito di Bianco a interrogarsi sul suo ruolo nella alleanza, sulla sua identità e sul percorso da intraprendere per non rimanere ai margini dell’agone politico, sopravanzato dal Pds. È Franco Marini, già ministro del Lavoro ed esponente di punta del sindacalismo cattolico, che indica la rotta al convegno di Montesilvano del giugno 1996: rafforzamento dell’area centrista dell’Ulivo e al contempo fedeltà all’alleanza stessa attraverso un collegamento più stretto con i Comitati prodiani15. Nel terzo congresso del gennaio 1997 è proprio questa la tesi prevalente e Marini viene eletto nuovo segretario sconfiggendo l’ulivista emiliano Pierluigi Castagnetti, espressione dell’area modernizzatrice del cattolicesimo democratico settentrionale, attenta a unire l’originaria matrice cristiano-sociale con la lezione cattolico-democratica che si richiama idealmente all’esperienza politica di don Giuseppe Dossetti16. Quindi il Ppi cerca fra molteplici divisioni interne di essere la seconda gamba (cattolica) dell’Ulivo accanto a quella postcomunista del Pds guidato da Massimo D’Alema. Si punta a un’alleanza di «partiti dell’Ulivo» e non a un «Ulivo dei partiti»17, base per un futuro Partito democratico come invece auspicato da Prodi e dai suoi collaboratori, a cominciare dall’ispiratore principale sia del progetto ulivista che della candidatura di Prodi come premier, Beniamino Andreatta, entrato nel Governo come ministro della Difesa dopo aver pagato nel corso degli anni Ottanta con un lungo ostracismo politico il ruolo assunto nella controversa vicenda finanziaria dello Ior-Banco Ambrosiano18. La spaccatura è anche geografica: da un lato i militanti settentrionali, specialmente veneti, guidati da Rosy Bindi e intenti a rinnovare radicalmente il popolarismo italiano al fine di inserirlo in una nuova cornice politica capace di superare la storica divisione fra socialisti e cattolici, fra laici e non credenti; dall’altra i popolari meridionali Ciriaco De Mita, Nicola Mancino, Bianco e Marini, ancorati alle vecchie articolazioni della scomparsa Democrazia cristiana, gelosi della propria identità politica e delle proprie reti clientelari e per questo restii a cedere quote di sovranità politica alla coalizione ulivista. La creazione, poi, dei Comitati per l’Ulivo subito dopo le elezioni del 1996, ha accentuato la distanza fra il governo Prodi e il Ppi che pure lo sosteneva in Parlamento.
A scompaginare ulteriormente gli equilibri interni al centrosinistra interviene il Presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga con l’iniziativa di creare un terzo polo centrista, denominato Unione democratica repubblicana, all’inizio del 1998. Gruppi consistenti di deputati e senatori popolari passano nelle fila della nuova formazione politica19 avente come segretario Clemente Mastella (già ministro del Lavoro nel primo governo Berlusconi), contribuendo ad aumentare la difficoltà di sopravvivenza del governo. Nel 1999 Mastella, in disaccordo con Cossiga su un’eventuale lista unitaria alle elezioni europee dello stesso anno, fonda l’UDeuR (Unione democratici per l’Europa, sigla che nel febbraio del 2000 viene leggermente modificata in Udeur), mettendo fine all’esperimento politico dell’ex presidente e puntando a diventare l’‘ago della bilancia’ negli equilibri parlamentari. Il centro cattolico nel suo versante progressista conosce ulteriori scosse allorché l’esecutivo prodiano cade nell’ottobre 1998 per un solo voto alla Camera dei deputati. Prodi, deluso dai due maggiori partiti della coalizione e in particolare dal Ppi, dà vita a un autonomo partito-movimento, I Democratici (avente come simbolo un asinello mutuato dal Partito democratico americano), che si materializza nel giro di poche settimane: è il 5 febbraio 1999 quando il «professore» realizza tale progetto con i sindaci di varie città tra cui Roma (Francesco Rutelli), Catania (Enzo Bianco) e Venezia (Massimo Cacciari) e l’ex magistrato di «Mani Pulite» Antonio Di Pietro, fondatore nel marzo 1998 del movimento «Italia dei Valori», che però lascia l’«Asinello» nel 2000, in dissenso con la decisione di eleggere alla presidenza del Consiglio il socialista Giuliano Amato dopo le dimissioni di D’Alema seguite alla sconfitta alle elezioni regionali dello stesso anno. Questa nuova sfida nel campo del cattolicesimo democratico, l’incursione di Cossiga, la caduta del governo Prodi, le ripetute sconfitte elettorali del 1999 sono tutti elementi che indeboliscono fortemente il segretario del Ppi Marini. Il congresso straordinario del settembre-ottobre 1999 decide un cambio al vertice: viene eletto Castagnetti e con lui vince quindi l’ala ulivista del partito, quella più vicina a Prodi e al suo progetto di partito democratico assieme agli eredi del Pci.
Il centro cattolico progressista nelle sue diverse articolazioni partitiche cerca dunque a fatica la strada dell’unità fra Ppi, Democratici, Udeur e Rinnovamento italiano dell’ex premier liberaldemocratico Lamberto Dini. In vista delle elezioni del 2001 nasce la lista unitaria di Democrazia è libertà - La Margherita guidata dal candidato premier Rutelli, scelto però soltanto dopo la rinuncia del presidente di Banca Intesa e allievo (come Prodi) di Andreatta, Giovanni Bazoli. Pur perdendo la sfida con Berlusconi nel 2001, Rutelli e la Margherita ottengono un buon successo di parte con il 14,5%, equivalente a più di cinque milioni di voti, non distante dal risultato raggiunto dai Ds, veri sconfitti della tornata elettorale20. Il processo di unificazione dell’area centrale dello schieramento progressista è ormai avviato e nonostante le resistenze interne al Ppi21 si giunge all’ultimo congresso del partito nel marzo 2002 sotto la guida di Castagnetti, impegnato a traghettare il popolarismo nella nuova formazione politica nel modo più indolore e collegiale possibile. Il 22-24 marzo, pochi giorni dopo lo scioglimento del Ppi, nasce la Margherita, la cui Carta dei principi indica la volontà di conquistare un elettorato cattolico mobile, flessibile, non ancorato a una precisa identità ideologica, corrispondente a una visione della politica sganciata dal modello prettamente ideologico. L’obiettivo, ambizioso, è la sintesi dei punti più alti della tradizione democratica riformatrice italiana ed europea: il popolarismo con la centralità della persona e della famiglia; la concezione liberaldemocratica di autonomia dell’individuo e del suo protagonismo sociale; la sensibilità sociale e socialista dell’allargamento dei diritti di cittadinanza; e infine, la tendenza ambientalista, attenta alla sostenibilità dello sviluppo economico compatibilmente con la salvaguardia del patrimonio naturale della nazione. L’attrazione esercitata dalla Margherita sui cattolici è dovuta dunque proprio al fatto di essersi presentata come componente di un disegno più ampio di rimescolamento delle identità, in cui i cattolici sono chiamati a mettersi in discussione e a dialogare con altre esperienze, tradizioni e personalità intellettuali e politiche.
La Margherita non è aliena comunque dall’eterna sfida fra ‘partitisti’ e ‘ulivisti’, fra gli ex popolari gelosi di conservare il comando sulle varie operazioni politiche assieme ai Ds e chi come Prodi, Arturo Parisi (suo successore nel collegio bolognese allorquando il «professore» viene chiamato a presiedere la Commissione europea nel 1999) e Castagnetti spingono per una federazione dell’Ulivo venutasi a creare nel 2005 e propedeutica alla formazione della casa dei riformisti italiani. Anche quando Prodi torna a Palazzo Chigi nel maggio 2006 alla testa dell’Unione democratica (una vasta alleanza che va dai comunisti di Oliviero Diliberto e Fausto Bertinotti ai liberali diniani), le tensioni interne alla Margherita non terminano: si verifica un’accelerazione del processo di frantumazione interna a beneficio della corrente postdemocristiana facente capo a Marini, che oltre a conquistare i due terzi della rappresentanza congressuale del partito nel 2006 mette sotto stretto controllo la leadership politica di Rutelli, contribuendo a indebolire il già instabile esecutivo di Prodi, andato in crisi il 24 gennaio 2008 al Senato.
Anche sul versante conservatore della diaspora democristiana i sommovimenti non mancano, a partire da quello stesso 18 gennaio 1994 che segna la fine della Dc e la nascita del Ppi. Una scelta che non è condivisa da tutti e in particolare da quel filone che va a collocarsi nello schieramento di centrodestra dando vita a una formazione politica alternativa al Ppi, il Centro cristiano democratico, guidato da Casini e Mastella come coordinatori nazionali e da Francesco D’Onofrio in qualità di presidente del gruppo parlamentare.
Profittando della «discesa in campo» di Silvio Berlusconi e del suo nuovo partito, Forza Italia, intenta a conquistare il consenso di quell’elettorato cattolico democristiano interno alla vecchia alleanza del pentapartito (Dc, Psi, Psdi, Pli, Pri), il Ccd acquisisce una base parlamentare sufficiente per tenere il suo primo congresso nel marzo 1995. Nel luglio, dopo la scissione dal Ppi, nasce il partito dei Cristiani democratici uniti di Buttiglione, che mette al centro del programma la difesa della vita sin dal suo concepimento, del matrimonio eterosessuale e la parificazione fra scuola pubblica e scuola privata: cioè il programma sociale della Cei guidata da Camillo Ruini22.
I due spezzoni postdemocristiani del centrodestra dunque sono destinati a incontrarsi e a fondersi in un unico partito, cosa che avviene nel 2002. Nel 1996 la lista Ccd-Cdu ottiene il 5,8%, pari a poco più di due milioni di voti, distribuiti principalmente nelle regioni del Sud23. Un risultato giudicato insoddisfacente da entrambi i fondatori e che ha prodotto all’interno del Ccd la divisione fra l’ala filoberlusconiana di Casini e quella più autonomista di Mastella, che poi costituirà, come si è visto, un suo partito con Cossiga.
Tuttavia al primo congresso del Cdu nel luglio 1996, Buttiglione ripropone il progetto di una unificazione con il partito di Casini in un quadro di ristrutturazione unitaria del centro politico, corrispondente a quell’elettorato che si esprime sociologicamente in un ceto medio, borghese, benestante e avverso ai cambiamenti proposti dallo schieramento progressista. L’iniziativa di Cossiga blocca di fatto questo progetto che però riprende nell’autunno del 1999 attraverso incontri al vertice fra i due partiti e assemblee straordinarie, volte a rilanciare il centro cattolico nella alleanza con la destra politica. Di qui la nascita della lista unitaria per le elezioni politiche del 2001 denominata Biancofiore in concorrenza con il cartello elettorale della Margherita sul fronte opposto e con il tentativo, fallito, di terzo polo dell’ex sindacalista della Cisl Sergio D’Antoni col suo partito Democrazia europea, sponsorizzato da Giulio Andreotti e sostenuto tra gli altri anche da altri esponenti ex democristiani come Paolo Cirino Pomicino24.
Il Biancofiore conquista settanta parlamentari e si colloca come forza di governo e come terza ‘gamba’ cattolica del centrodestra dopo FI e An. Un dato che convince definitivamente Casini e Buttiglione a rompere gli indugi e a costituire un partito unitario: nasce così nel dicembre 2002 l’Udc (l’Unione dei democratici di centro e dei democratici cristiani) con Marco Follini segretario e Buttiglione presidente del Consiglio nazionale. Follini cerca di guadagnare al partito il voto di quei cattolici che non si riconoscono pienamente nella leadership berlusconiana e che tentano la ridefinizione di uno spazio autonomo, più moderato nei toni e più in linea con la tradizione di mediazione degasperiana rispetto al modello plebiscitario e carismatico promosso dall’industriale milanese: un partito «dalla linea di centrosinistra con aperture a destra»25. Questo è il nocciolo della formula politica folliniana, che tuttavia deve fare i conti con la minoranza interna più conciliante verso il potente alleato guidata da Carlo Giovanardi (successivamente confluito con i suoi Popolari liberali nel Popolo della Libertà) e da Giancarlo Rotondi (anch’egli fuoriuscito dall’Udc e fondatore nel 2005 della Nuova Democrazia cristiana per le autonomie, entrata anch’essa a far parte dal 2009 del Popolo della Libertà26). Lo stesso Casini, diventato presidente della Camera, non si riconosce pienamente nella linea espressa da Follini. Il Congresso nazionale del luglio 2005 segna quindi la sconfitta della linea politica autonomista e antiberlusconiana del segretario (per un breve tempo anche vicepresidente del Consiglio nel terzo governo Berlusconi, varato nel 2005 dopo la crisi aperta proprio dai centristi), abbandonato anche da Casini, preoccupato per le conseguenze che un’eventuale rottura con il capo di Forza Italia avrebbe avuto sulla tenuta complessiva del partito. Dal canto suo Follini nell’ottobre 2006 fonda il movimento dell’«Italia di mezzo», volto a costituire un ponte fra Udc da un lato e Margherita e Udeur dall’altro, scavalcando di fatto i principali partiti del sistema politico della seconda Repubblica27.
L’Udc di Casini e del nuovo segretario Lorenzo Cesa non segue Follini in questa operazione politica, ma sceglie di mantenere un profilo di forza mediana attenta a difendere i valori del cattolicesimo tradizionale rilanciati con forza dal pontificato di Benedetto XVI, e allo stesso tempo desiderosa di presentarsi come forza politica attenta agli interessi dei ceti medi e delle famiglie con prole. Di qui la decisione di non entrare nel nascente Popolo della Libertà, in attesa di raccogliere i frutti di una rimodulazione complessiva del bipolarismo.
La scomparsa della formazione unitaria della Dc ha comportato l’inizio di un processo di dislocamento del voto cattolico oltre il perimetro tradizionale dell’area postdemocristiana sopra descritta (Ppi, Margherita, Udc). Uno di questi è dato dalla Lega Nord, frutto di un processo di costruzione di un soggetto politico federale che ha coinvolto associazioni, movimenti e realtà locali determinate, a partire dalla fine degli anni Settanta, a rivendicare la loro assoluta alterità politica, culturale e sociale rispetto al sistema partitocratico proprio della prima Repubblica28.
Pur non presentandosi affatto come un partito dei cattolici, anzi sviluppando una propria mitologia ‘celtica’ capace di esprimersi nelle celebrazioni del dio Po e in una pittoresca ritualità che include celebrazioni di matrimoni e teorizza l’esistenza di una vera e propria ‘razza’ padana29, quasi tutti i dati elettorali dal 1990 in poi hanno indicato un vero e proprio travaso del ‘voto cattolico’ (con tutte le ambiguità e avvertenze che l’utilizzo di tale espressione comporta) nelle liste leghiste delle regioni settentrionali: per fare un solo esempio nel 1992 la Lega raccoglie l’8,6% dei consensi30, con un vistosa trasformazione del Veneto da area tradizionalmente ‘bianca’ a nuovo bacino elettorale leghista31. Ciò accade per vari motivi tra i quali probabilmente l’aver saputo intercettare umori e articolazioni storiche tipiche del cattolicesimo italiano.
Anzitutto, con la sua proposta prima secessionistica rispetto allo Stato italiano e poi federalistica, sul piano più strettamente politico, la Lega si è rivelata nel corso degli anni Novanta l’«imprenditore» della vasta e profonda crisi istituzionale, civile e di fiducia, che il tracollo della prima Repubblica aveva fatto registrare nel paese32. Del resto i segnali di questa crisi di consenso si erano manifestati ben prima del 1992 quando ancora il potere democristiano al Nord sembrava inattaccabile. Ma dietro questa apparenza si celava un diffuso malcontento fra quei ceti operai e piccolo-borghesi che avevano costituito nel tempo il sostrato interclassista su cui la Dc aveva fondato la propria leadership di governo nel paese. In un’attenta inchiesta giornalistica apparsa sul «Corriere d’informazione» il 29 aprile 1975 Walter Tobagi descriveva il caso emblematico di Bergamo, futura roccaforte politica della Lega Nord. «All’esterno – constatava il cronista che verrà barbaramente ucciso il 28 maggio 1980 da un commando delle Brigate 28 marzo a Milano – appare un’immagine tranquilla, quasi immobile» ma all’interno del partito «si avvertono tensioni e spinte nuove»: venti sacerdoti firmano un manifesto dei «cattolici del no» sulla proposta di abrograzione del divorzio e un esponente del socialismo locale testimonia che la Dc «non ha più i giovani e i lavoratori». All’interno del sindacato cristiano, la Cisl, ci sono esponenti di diversa estrazione politica: «socialisti, comunisti, extraparlamentari», in più il direttore della rivista cattolica «Bergamo 15», Mario Zambetti, denuncia che «l’egemonia della Dc va incrinandosi» anche se «la Vandea rimane sempre Vandea»: una regione tuttavia alle prese con l’incertezza del futuro per via della crisi economica e per la mancata risposta del partito sul territorio: operai, contadini, borghesia a vari livelli risente di questo vuoto di prospettive e di slancio riformatore: insomma, chiosava Tobagi al termine di questa suo viaggio nel cuore del cattolicesimo italiano laddove era nato Angelo Giuseppe Roncalli-papa Giovanni XXIII e di lì a pochi chilometri (Concesio, in provincia di Brescia) Giovanni Battista Montini-papa Paolo VI, l’«incantesimo dell’isola bianca è rotto»33. Solo alcuni anni dopo, nel 1982, il leader della Dc veneta Toni Bisaglia aveva vanamente cercato di richiamare l’attenzione del suo partito sullo spostamento dei voti in atto al Nord e sui suoi protagonisti:
«quelli della Lega sono tutti voti democristiani, voti persi dal commerciante che si è ribellato ai registratori di cassa, dalla famiglia coltivatrice diretta che ha un figlio laureato ma disoccupato da anni, dal giovane che nei concorsi si è visto soffiare il posto di impiegato alle Poste da un candidato che viene dal Sud»34.
Se dunque a sinistra la Lega ha sottratto e continua a sottrarre voti (specialmente nelle più recenti sfide elettorali) ai partiti che avevano il loro bacino di voti principale nei ceti operai, al centro il voto cattolico è il granaio da cui attingere forza e popolarità. La protesta contro l’ordine esistente è uno dei motivi di questa scelta interclassista, ma non l’unica: la formazione politica bossiana infatti si fa portatrice di una ben precisa realtà: quella di una società postindustriale, che si interroga sul destino e sul ruolo delle proprie aggregazioni elementari, emarginate da un regime politico democristiano abbinato col passar del tempo agli interessi economici di Roma da un lato, e allo smarrimento di un chiaro profilo identitario e culturale dall’altro. Ancora Bisaglia sosteneva: «Lo Stato ha considerato molto spesso la mia regione come un’area isolata, esterna rispetto alle scelte strategiche del Paese». Gianfranco Miglio, l’ideologo cattolico del partito, ha espresso chiaramente il punto di partenza del successo leghista:
«serrati nella logica dello Stato unitario, i lombardi […] finivano schiacciati da una congiuntura avversa: diventavano stabilmente un popolo ‘tributario’, perché egemonizzati da una classe parlamentare a maggioranza centro-meridionale e da una burocrazia per il novanta per cento proveniente dal Sud […]. Il Nord non avrebbe mai visto garantito il suo diritto a disporre delle risorse finanziarie necessarie per creare le condizioni (infrastrutture) da cui sviluppare le sue ulteriori capacità produttive»35.
La scoperta di questa marginalizzazione politica progressiva delle zone più produttive e laboriose del paese compiuta dalla Dc è stata la leva su cui impostare una domanda di federalismo che è sembrata corrispondere a un’esigenza, se non di indipendenza, di forte autonomia rispetto alle strutture centralistiche dello Stato italiano e con essa di larga valorizzazione di quei corpi intermedi (Comune, Provincia, Regione), garanzie fondamentali di un buon funzionamento degli assetti democratici. Miglio ha giustificato questa richiesta di un ordinamento costituzionale federale sulla base di una visione storica del paese all’insegna della disomogeneità della popolazione e della diversità di interessi fra i gruppi di governati. Quindi – ha sostenuto – «mancando un passato unitario, è assente la vocazione unitaria geografica e storica; […], non esiste una buona burocrazia come in Francia. In Italia, dunque, mancano tutte e tre le condizioni che favoriscono, quando non impongono, la scelta di un regime centralizzato»36.
Figlia, dunque, per un verso, del processo di «secolarizzazione dell’area bianca» (Lombardia e Veneto in primo luogo37) per cui parte dei cattolici leghisti scelgono il partito di Bossi senza impegnarsi apertamente sul terreno confessionale38, per un altro verso la Lega interpreta un conservatorismo di fondo nel quale si premia la difesa retorica della famiglia naturale, un’omofobia calcata, l’assunzione delle tradizioni religiose locali e l’ordine sociale, considerato anzitutto come specchio di una sorta di purezza etica ed etnica contrapposta al crollo morale oltre che politico della prima Repubblica. Figure quali quelle di Irene Pivetti, Giuseppe Leoni e Giulio Ferrari, attraverso la costituzione della Consulta per il popolo e della Consulta per l’Identità hanno rappresentato questa forte componente tradizionalista al fondo dell’elettorato cattolico. L’idea stessa di un modello ambrosiano rigoroso nei principi, autonomo nelle funzioni dell’apostolato, intrinsecamente connesso con il tessuto civile locale, pronto a perpetuare la propria esemplarità, è il basso continuo di una scelta politica nella quale il fervore religioso, la pratica devozionale, la disciplina dogmatica e religiosa, sono proposti come argine al dilagare di un laicismo politico e morale, che rischia, nella prospettiva politica leghista di compromettere le basi della società italiana, nell’ambito generale di un partito che nel contempo non distingue toni xenofobi e polemiche contro il clero progressista sul dialogo interreligioso.
Come ha affermato Giuseppe Leoni (presidente della Associazione dei Cattolici padani39), il partito si rivolge, tra gli altri, ai «cattolici identitari»: quelli che «gelosi della propria identità spirituale, rifiutano la prospettiva che vada smarrita o confusa, imbastardita dai finti valori della società contemporanea». Per questo venivano create le due Consulte, impegnate nei due tempi dell’azione sociale cattolica: la conservazione dell’essenza della fede nel solco della tradizione dei grandi papi (Leone XIII e Pio X) e l’apertura al sociale, alla solidarietà, alla cooperazione fra i popoli nel rispetto delle proprie diversità40.
Lo scopo religioso di tale proposta finalizzato a ristabilire la priorità di un’identità tradizionale all’interno di una comunità locale, si presenta come qualcosa di diverso rispetto al quadro politico tradizionale e spendibile nel mercato politico, è destinato ad attaccare le figure che di volta in volta vengono assimilate al ‘progressismo’ sociale cattolico o alla difesa del passato democristiano. Si legge nel 1993 sulla rivista «Identità» diretta da Irene Pivetti in polemica con la scelta di Ruini di sostenere Martinazzoli e il Partito popolare:
«Solo una Chiesa pienamente consapevole della sua autorità, che le discende da Dio, può emanciparsi dall’asservimento politico. Per questo i cattolici della Lega chiedono a gran voce ai loro pastori una maggiore aderenza ai dogmi e il recupero della tradizione, sacrificata in nome di un malinteso adattamento a quello ‘spirito del tempo’ i cui frutti abbiamo sotto gli occhi. Insomma tra la Chiesa consociativa dell’ultimo trentennio e quella marginale che si prospetta in futuro, è così paradossale pretendere la Chiesa cattolica di sempre?»41.
Di qui le ragioni di una militanza e di una mobilitazione capillare dell’elettorato in vista di battaglie identitarie: come quella sul mantenimento del crocifisso nelle scuole pubbliche, sull’introduzione nel preambolo della Carta costituzionale europea del riferimento alle «radici cristiane» circa la cultura, la morale e il costume delle popolazioni del Vecchio Continente, su un’immigrazione regolata degli extracomunitari portatori di altre religioni ritenute spesso una minaccia alla identità dei «popoli cristiani padani»42.
La vibrazione delle corde più tradizionaliste del cattolicesimo italiano è un’operazione compiuta dalla Lega in un più ampio quadro di recupero del voto cattolico ex democristiano posto in essere dalla destra. In questo senso si è mosso Silvio Berlusconi che nel 1994 con il partito da lui fondato, Forza Italia, ha inglobato estese sacche di voto cattolico, tanto da far parlare di «nuova Dc», nonostante il consenso riscosso non sia solo di matrice cattolica ma anche socialista-craxiana e liberal-conservatrice (l’area in sostanza coincidente col vecchio Pentapartito). Su cinque elezioni politiche nazionali, infatti, Berlusconi e i suoi alleati ne hanno vinte tre (1994, 2001, 200843); il Cavaliere per quattro volte ha ricoperto la carica di presidente del Consiglio, portando Forza Italia nel 2001 a sfiorare quota 30% dei voti, pari a quasi dieci milioni di elettori44, e poi il Popolo della Libertà assieme a Gianfranco Fini al 37,39% nelle elezioni del 2008, con più di tredici milioni di voti validi ottenuti45.
I cattolici hanno svolto un ruolo non marginale in questa riuscita operazione politica anche se non ne sono stati gli artefici. Fattori di diverso ordine hanno permesso un tale risultato. Tra questi la sostanziale corrispondenza fra la cultura religiosa di Cl (il movimento fondato a Milano da don Luigi Giussani) e il messaggio politico lanciato da Berlusconi.
Nella società secolarizzata degli anni Sessanta e Settanta, Cl ha proposto un cristianesimo di attacco, di riconquista degli spazi sociali caduti o prossimi all’influsso di ideologie progressiste e laiche. Sulla base di una prorompente esigenza di spiritualizzazione ha diffuso un cristianesimo pienamente inserito nella società secolare, nelle sue articolazioni politiche ed economiche, mantenendo intatta la sua difesa dell’identità cristiana fondata su alcuni cardini: il principio di autorità carismatica del leader del movimento, la qualifica della fede come «esperienza», «fatto», «presenza» e «visibilità» nel mondo; l’esaltazione della capacità imprenditoriale dell’individuo vista come leva per interagire con gli altri e costruire quel «cristianesimo di sostituzione», mirante a rilevare alcuni fondamentali ruoli sul piano culturale, economico e sociale46.
Rispetto a un mondo «in frantumi», Cl ha interpretato il classico intransigentismo offrendo un «modello di coesione di una società organica, in cui la struttura gerarchica è motivata [...] in base alla partecipazione alla fonte del valore»47. Questo valore è la Chiesa come esperienza del «fare», delle opere, è la difesa e la promozione del «meno Stato e più mercato» (uno degli slogan preferiti dal movimento giussaniano), ponendo in essere una vasta e capillare rete di attività che chiedono e producono rappresentanza ai tavoli periferici e centrali delle decisioni politiche. Di qui il passaggio non traumatico dalle fila della Dc ai partiti liberal-conservatori berlusconiani. In uno dei suoi discorsi il più volte presidente del Consiglio ha infatti asserito:
«crediamo nell’individuo e riteniamo che ciascuno debba avere il diritto di realizzare se stesso; crediamo nella famiglia, nucleo fondamentale della nostra società […] crediamo anche nell’impresa, a cui è demandato il grande valore sociale della creazione di lavoro, di benessere e di ricchezza […] crediamo nei valori della nostra cultura nazionale […] crediamo nei valori della nostra tradizione cristiana, nei valori irrinunciabili della vita, del bene comune»48.
In parallelo alle sacche di consenso elettorale assicurate dal potente appoggio ciellino, Berlusconi ha saputo, al pari della Lega, comprendere che l’elettorato cattolico è diventato sensibile alle promesse di riduzione della pressione fiscale, del ridimensionamento della presenza dello Stato-burocrazia nella vita del cittadino. Per assecondare un’area di voto cattolico coincidente con la parte più produttiva, innovatrice e modernizzatrice del paese (il cosiddetto «esercito delle partite Iva» presente soprattutto nel Nordest italiano) che vive la dimensione religiosa in maniera secolare, disimpegnata, disattenta, se non avversa in taluni casi, alle direttive del magistero ecclesiastico, questi valori materiali attenuavano il tradizionale solidarismo cattolico (bollato come «buonismo») e attendevano di essere negoziati sul mercato del consenso politico.
Altri fattori, in particolare, occorre mettere in rilievo sul tema del rapporto fra voto cattolico e partiti berlusconiani. La considerazione, da un lato, che Berlusconi sia riuscito «come De Gasperi e più di lui»49 a unire popolo e libertà e dall’altro l’alleanza con i cosiddetti «atei devoti»50. Il primo punto è stato rappresentato dall’ideologo del Pdl Gianni Baget Bozzo, che ha notevolmente contribuito a edificare l’immagine di un «partito cristiano» erede diretto della Democrazia cristiana. Una concezione intransigente alimentata (e siamo al secondo punto) da una corrente liberale rappresentata da molti intellettuali come lo storico Gaetano Quagliariello51 e il filosofo della scienza e presidente del Senato nella tredicesima Legislatura Marcello Pera, intenti a unificare gli sforzi di laici e cattolici nella difesa della natura cristiana dell’Italia e dell’Europa dinanzi alla minaccia dell’Islam radicale per un lato (specialmente dopo gli attentati dell’11 settembre 2001), e per l’altro della «mina» del relativismo etico, più volte denunciata da Benedetto XVI in dialogo intellettuale proprio con Pera52. La sfida di questi cattolici e laici è quindi quella di realizzare un argine a quella che viene definita una «deriva» della democrazia moderna verso un laicismo militante espressosi nelle proposte delle unioni di fatto fra persone che rinunciavano al tradizionale vincolo matrimoniale, nella debolezza verso i regimi integralisti islamici nel mondo, nell’«attacco» ai principi «non negoziabili» della vita a partire dalla difesa dell’embrione umano, per finire con la tutela delle «radici cristiane» dell’Europa: un’operazione sostanzialmente ancipite che sottolinea il vigore di un cristianesimo che non vuole essere identificato come religione della rinuncia, ma che si espone tuttavia al rischio di presentarsi come etichetta di una civiltà italiana ed europea predefinita.
Saldamente ancorata al polo di centrodestra, una parte consistente di elettorato cattolico si è posizionata sull’ala destra più estrema dello schieramento politico, rappresentata da Alleanza nazionale, che a partire dal 1995 ha raccolto l’eredità politica del Movimento sociale italiano di Giorgio Almirante53.
Guidata da Gianfranco Fini, An, sin dalle tesi programmatiche costitutive esposte al convegno fondativo del partito a Fiuggi nel gennaio 199554, ha cercato di dare un’impronta cristiana e conservatrice al suo indirizzo politico affermando esplicitamente di sentirsi erede e cultrice della civiltà romana e cristiana «che ha le sue radici nel messaggio portato da Pietro a Roma e diffuso in Occidente e nel mondo intero». Del resto le battaglie storiche condotte dal Msi negli anni Settanta in favore della abrogazione della legge 140 sulla regolarizzazione della pratica abortiva e contro la norma del divorzio avevano già posto il partito della Fiamma nell’alveo dei partiti difensori dell’autorità e dell’ordine cattolico nella società italiana.
Se da un lato An ha attinto molti ex democristiani tra le sue fila, dall’altra però non è riuscita a «sfondare» in quest’area, non solo perché è stata frenata dalla egemonia di Forza Italia, ma anche, e forse soprattutto, perché forte è stata la componente laica e secolare della cultura e della formazione degli aderenti al partito55. Nel 1994 solo l’8,7% dei cattolici che hanno votato il centrodestra ha scelto An, mentre il 35,9% ha optato per Forza Italia. Ciò trova senso se si pensa che An, anche quando ha manifestato la più profonda vicinanza ai «valori della Cristianità» nel campo della famiglia, della vita, della identità nazionale, ha mantenuto intatto il carattere «libertario» della sua propagandata «rivoluzione conservatrice». Sicché, ad esempio, sull’aborto come «male a volte necessario» si è pronunciato favorevolmente il 39,1% di un campione di delegati a congresso nel 1987, il 28,9% nel 1990 e il 46% nel 1995; nel 1998 il 71,4%56. Dati che mostrano la transizione degli ex missini verso una concezione più liberal-democratica dell’individuo e dei suoi diritti, ma anche più direttamente l’effetto di lungo periodo del volto anticlericale della cultura politica fascista.
Anche se non ha sfondato nell’elettorato, An ha pescato una quota di voti cattolici consistenti e di ex democristiani tra cui Publio Fiori (ministro nel primo governo Berlusconi) e il giornalista Rai Gustavo Selva. Il modo in cui Fiori spiega la sua adesione ad An è emblematico: il partito nato dalla svolta di Fiuggi avrebbe dovuto intraprendere una fusione totale con il cattolicesimo politico nazionale e tradizionale: quel cattolicesimo segnato dalla cultura risorgimentale dell’abate Vincenzo Gioberti, dalla tradizione popolare e dalla storia sociale della Destra57. Nell’Italia di fine ventesimo secolo vede «da un lato una visione popolare fondata sui valori della tradizione cattolica, sulla valorizzazione della persona e della iniziativa individuale, sul ruolo delle piccole e medie imprese; dall’altro un processo elitario e laicista alimentato dalle grandi centrali finanziarie e industriali»58; e sullo sfondo scorge non il vecchio comunismo ma il suo succedaneo: «una concezione della vita basata su una visione delle pseudolibertà dell’uomo fondate su una sorta di «relativismo morale”»59. Allo stesso tempo Fiori rappresenta quella parte di cattolici che al liberismo selvaggio antepongono la presenza di un forte e strutturato stato sociale. Di qui il richiamo all’indispensabile ruolo di una destra sociale antagonista di una «destra di classe freddamente anglosassone». Estensore della relazione «Valori cattolici nell’impegno politico» alla conferenza del partito tenutasi a Verona nel 1998, Fiori tra l’altro ha asserito: «Lo stato sociale è un punto ineliminabile nella politica di una destra cattolica: il giusto rifiuto dell’assistenzialismo a fini clientelari non può significare l’abbandono di quei principi di solidarietà presenti nelle encicliche papali»60.
Il progetto prodiano di un’unica casa dei riformisti italiani prende definitivamente corpo il 14 ottobre 2007 con l’elezione (tramite primarie) di Walter Veltroni alla segreteria del Partito democratico, esito della fusione fra la Margherita di Rutelli e i Democratici di sinistra guidati dal segretario Piero Fassino61. È un passaggio importante nello sviluppo del quadro politico italiano e che segna una tappa significativa nella evoluzione del rapporto fra politica e religione, fra sfera della fede individuale e impegno civile. Il Pd, così come immaginato dal suo cofondatore Prodi, avrebbe dovuto fare dell’unità fra le sue forze costituenti la cifra identitaria anche in tema di religione e di laicità. All’Assemblea costituente del partito il 27 ottobre 2007, infatti, il professore bolognese ha sostenuto:
«Visto che parliamo di valori, voglio essere chiarissimo anche sulla laicità del Partito Democratico che, come l’Ulivo, è già espressione della tradizione cattolica democratica che a pieno titolo ne fa parte, come lo è della tradizione laico socialista e della cultura ambientalista. Il Partito Democratico […] è lo spazio di tutti. Faremmo un passo indietro e non un passo avanti se ci mettessimo oggi a cercare spazi identitari destinati inevitabilmente a enfatizzare le distinzioni tra noi e, perciò, a produrre separazione. Credo in una laicità forte che non solo riconosce, ma si considera incompleta e incompiuta se non si alimenta in continuazione del contributo delle sensibilità religiose. E credo che l’incontro laico tra credenti e non credenti, nel nome di un umanesimo e di un personalismo vivo e fecondo sia una delle grandi opportunità che il Partito Democratico mette a disposizione dell’Italia e dei cittadini per superare antiche incomprensioni e moderni radicalismi»62.
Il Pd nasce quindi fra gli altri motivi per far presa su un elettorato cattolico pronto a farsi carico del pluralismo etico e culturale che ha contraddistinto l’epoca della globalizzazione. La sfida è quella di respingere ciò che Rosy Bindi, presidente del partito dal 2009, ha definito «la versione postmoderna e neoclericale» del ruolo pubblico della religione promossa dai neoconservatori Pera e Quagliariello, e che farebbe da pendant a un laicismo esasperato, che alimenta il relativismo etico. Il Pd, sostiene l’esponente democratica, «può superare questa empasse e farci recuperare insieme alla dimensione del dialogo anche quella della collaborazione e della condivisione di un progetto di cambiamento e trasformazione della realtà»63.
Il cattolicesimo democratico si presenta quindi come architrave di una costruzione che tende a superare le matrici ideologiche di partenza per edificare un qualcosa «di nuovo» nella storia politica del paese. I convegni organizzati nel monastero di Camaldoli dalla rivista cattolica «Il Regno» fra il 1998 e il 2002, da questo punto di vista, sono stati il laboratorio delle idee e del ruolo che il cattolicesimo democratico avrebbe dovuto svolgere nel futuro Pd capace di governare e catalizzare un voto cattolico che fa della ricerca – dopo la fine delle ideologie – la sua identità fondamentale. Ricerca che non vuol dire progressiva marginalizzazione del fattore religioso; ma un impegno civile nella rivendicazione di un’ispirazione etica e religiosa della democrazia che garantisca la laicità, come diceva Pietro Scoppola in uno degli incontri camaldolesi sulla scia del magistero politico e morale del cattolicesimo democratico del secondo dopoguerra: «al di fuori dello schema di uno Stato laico in quanto portatore di una sua autonomia ideologica da proporre e imporre alla società civile» e, allo stesso tempo, come premessa per la ricostruzione di un nuovo senso di cittadinanza e appartenenza nazionale fondato sulla libertà e responsabilità della persona e su un ripensamento integrale del rapporto complementare fra cittadino e Stato64. Il Pd si pone dunque nella prospettiva dei suoi fautori come realizzazione di quella «aspirazione democratica»65, figlia del clima di apertura varato dal Concilio Vaticano II, che ha attraversato e ha vissuto le varie forme storiche della politica senza identificarsi in alcuna di queste, ma che grazie ad esse (come ad esempio la Lega democratica di Scoppola66 degli anni Settanta o i Cristiano-sociali di Ermanno Gorrieri interni ai Democratici di sinistra e fautori dell’unità del centrosinistra negli ultimi anni Novanta67) ha legittimato la presenza e la scommessa di un progetto che dal momento della sua effettiva applicazione ha incontrato non pochi ostacoli.
Non sono però mancate le divisioni nel partito se non le vere e proprie separazioni sui temi centrali dell’orientamento etico dei cattolici: come la regolazione delle unioni di fatto attraverso i Dico (diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi, varati dal disegno di legge Bindi-Pollastrini nel secondo governo Prodi), che ha incontrato la forte ostilità di una parte del cattolicesimo intransigente confluita nel Pd e rappresentata dalla senatrice Paola Binetti; un disagio profondo che è sfociato nel voto di sfiducia della senatrice stessa al governo Prodi il 7 dicembre 2007 sulla questione dell’omofobia e in particolare sulla introduzione (ddl Concia) di norme penali per chi professa discriminazione o intolleranza verso le persone omosessuali: una scelta del partito che è parsa in conflitto con l’ala più vicina alla Chiesa e a quei principi cattolici per i quali la Binetti aveva deciso di aderire al progetto del Partito democratico68.
Ma prima della uscita della Binetti, è stato Francesco Rutelli a rappresentare l’insofferenza di una corrente, che pur non definendosi propriamente cattolica, sosteneva una linea moderata, avversa a uno sbilanciamento verso sinistra della coalizione. Nella sua Lettera a un partito mai nato69 l’ex sindaco della capitale ha messo in discussione l’impianto stesso del Partito democratico, la sua direzione, il suo messaggio, la sua identità politica, accusandolo di aver promosso un’operazione di «distruzione non creatrice». Ha finito – scrive – «per ripiegare nello spazio più rassicurante, ma sbagliato, se si vuole riconquistare la maggioranza dei consensi: quello di un’indefinita sinistra». Tra i «mali» della giovane formazione di centrosinistra, Rutelli ha rinvenuto un «fondamentalismo laicista, che considera con sussiego – e intimo disprezzo – il significato popolare della presenza religiosa nello spazio pubblico», la mancata presa di un «umanesimo laico», minato da «una guerra fuori tempo tra clericali e anticlericali»70. Una posizione frutto del duro scontro che nel 2005 aveva opposto Rutelli e l’establishment popolare allora al vertice di Democrazia è libertà – La Margherita – al resto della coalizione ulivista sui quattro quesiti referendari riguardanti la ricerca sugli embrioni umani e sulla procreazione medicalmente assistita: la sua scelta astensionista, coincidente con quella promossa da Ruini, aveva alimentato forti tensioni nel centrosinistra e in special modo in quella parte di democratici intenti a costruire un soggetto politico autonomo dalla Chiesa e dai suoi diretti interventi nell’agone politico. Quindi nel 2009 la decisione di lasciare il Pd, avviato verso l’elezione a segretario di Pierluigi Bersani, e di dar vita con altri moderati cattolici a un nuovo partito politico, Alleanza per l’Italia, che vuole essere un «movimento per il cambiamento e il buongoverno», attento a recuperare dall’area dell’astensione quegli elettori delusi dalle politiche avviate sia dal centrodestra berlusconiano che da un centrosinistra per molti versi ancora enigmatico e alle prese con forti tensioni interne: si legge nel manifesto del partito:
«In Italia siamo nel mezzo di una Guerra di Quindici Anni che si ostina a non finire […]. Senza la capacità della politica di guidare, mediare, unire, non saranno sufficienti l’impegno, gli sforzi, i sacrifici degli italiani che intraprendono, difendono la dignità del loro lavoro, tengono duro […]. La risposta per il Paese non può venire dal populismo di destra [...] né da una sinistra socialdemocratica, un’esperienza che ha un valore storico, ormai esaurito»71.
Di qui la volontà di creare un terzo polo (o un ‘primo polo’ come è nell’aspirazione del suo fondatore Rutelli), democratico, liberale, popolare, riformatore, in grado di unirsi con le altre forze moderate presenti nel paese: come l’Udc di Casini e Buttiglione e il gruppo parlamentare di Fini Futuro e libertà per l’Italia.
La stagione del corteggiamento elettorale del voto cattolico va a integrarsi con un secondo tassello della cosiddetta seconda Repubblica: il progetto del partito conservatore, che ha profonde radici nella coscienza politica e civile del paese. Per cercare di capire meglio questo aspetto, occorre tornare su Berlusconi.
Uno dei tratti centrali del vasto consenso politico è dato infatti dall’anticomunismo, un pulsante storico del consenso cattolico fatto di paure di classe e di condanne di magistero, riformulato in senso democratico da De Gasperi nel secondo dopoguerra, giungendo fino al pragmatismo politico di Bettino Craxi nella sua alleanza con la Dc in alternativa alla sinistra di Enrico Berlinguer. Forza Italia in primis, ma anche altri gruppi politici collocabili a destra dello schieramento elettorale, hanno saputo sfruttare questo nervo scoperto del cattolicesimo italiano. I costanti richiami berlusconiani alla libertà messa in pericolo, alla «scelta di campo» in occasione di ogni appuntamento con le urne, al «regime» che si instaurerebbe ogni qual volta la «sinistra» andasse al potere non sono il prodotto di una mera retorica politica o almeno non solo di questa; ma una studiata strategia di persuasione su un elettorato cattolico, che nell’anticomunismo ha trovato sin dalla nascita dello Stato repubblicano una delle sue manifestazioni più rilevanti, una delle sue identità più propriamente politiche72.
Dal 1948 a oggi tale proposito non ha subito grandi scosse semmai delle evoluzioni legate ai cambiamenti delle situazioni politiche generali. In questo senso le eredità lasciate dal fascismo e dal postfascismo si rivelano pesanti73: l’assolutizzazione dello spazio politico, la demonizzazione dell’avversario, la radicalizzazione dello scontro politico pur in un tempo dai più definito postideologico, risultano essere i dati contestuali su cui la Chiesa, intesa come istituzione gerarchica, ha esercitato la sua funzione di aggregazione di un forte «polo politico cristiano» libero dai compromessi della Dc e perciò ancor più illimitato nella sua espressione.
L’obiettivo da abbattere non è più il comunismo come minaccia politico-istituzionale, ma il suo ‘strato morale’ più sfuggente, meno visibile, egualmente distruttivo: il laicismo, che tutto corrode: dalla famiglia «costituzionale» fondata sul matrimonio fra un uomo e una donna, alla tutela della vita embrionale dinanzi alla ricerca amorale e alla prassi della eutanasia, all’ombra dell’Islam radicale. Sono queste le nuove cinghie di trasmissione di un trasversale partito conservatore, anticomunista e quindi antilaicista di cui Camillo Ruini ha tracciato un eloquente quadro programmatico nella sua lettura dei «nuovi segni dei tempi»74. Scrive Ruini in relazione agli effetti degli attentati terroristici negli Stati Uniti dell’11 settembre 2001:
«Si sono avuti così un risveglio e una rinnovata presa di coscienza della nostra identità religiosa e culturale cristiana, sia a livello di popolo sia in larga parte della cultura detta “laica”. La percezione di questo risveglio non è stata ugualmente chiara e sollecita in tutti gli ambienti cattolici ed ecclesiali, dove sono emerse piuttosto sensibilità e valutazioni abbastanza differenziate. Non sempre, cioè, sono state avvertite le grandi opportunità, e al contempo le forti sfide, sia culturali sia propriamente pastorali, e in ultima analisi coinvolgenti la fede vissuta, poste dal riaffiorare dell’identità cristiana di fronte a una minaccia che pretende di richiamarsi ad un’altra religione».
Al campo geopolitico si affianca la grande «questione antropologica» che «chiama in causa la valenza culturale e sociale del cristianesimo». «Il fenomeno», spiega Ruini, si sviluppa su due versanti connessi: il primo si rifà ai modelli di vita, ai comportamenti diffusi, ai valori di riferimento; il secondo è inerente al «funzionamento del nostro cervello» e ai «processi della generazione»: aspetto che mette in discussione radicalmente l’uomo stesso, «nella sua consistenza biologica come nella coscienza che ha di sé, e ciò non soltanto sul piano teoretico […] ma anzitutto a livello del fare e dell’operare tecnologico».
La dottrina cattolica sui temi «eticamente sensibili», con la presidenza della Cei di Ruini e in accordo con Giovanni Paolo II prima e con Benedetto XVI poi, si è configurata come lo snodo centrale dell’azione politica della Chiesa in Italia, convinta, soprattutto dopo gli eventi dell’11 settembre 2001, che il paese avrebbe dovuto darsi una base morale forte per fronteggiare tali sfide alla fede e alla coscienza di ciascuno: non era possibile alcuno spazio di mediazione, di discussione, di apertura su questo terreno fatto di «principi non negoziabili» e identità. Il protagonismo politico della gerarchia ecclesiastica e in questo caso di Ruini diviene allora un elemento di forte distinzione rispetto al passato della prima Repubblica, quando la Democrazia cristiana, pur fra molteplici incertezze e contraddizioni, rappresentava un elemento di mediazione rispetto alle posizioni dell’alto clero, una garanzia di sopravvivenza di uno spazio di autonomia laica nella decisione politica finale che col sopraggiungere del «progetto culturale» ruiniano è venuto progressivamente meno75.
Alla luce di queste considerazioni si comprendono alcuni episodi che hanno scandito la cronaca politica come le scelte della Chiesa ruiniana nei quesiti referendari sulla procreazione assistita del 2005 e il Family Day del 12 maggio 2007 (la grande manifestazione delle associazioni e dei partiti italiani, al di là delle coalizioni destra-sinistra, interessati alla difesa della famiglia «tradizionale» «aggredita» dal disegno di legge Bindi-Pollastrini) e le posizioni assunte dal successore di Ruini alla presidenza della Conferenza episcopale italiana l’arcivescovo di Genova Angelo Bagnasco e dalla Segreteria di Stato vaticana guidata dal cardinale Tarcisio Bertone in merito alla necessità sì di una nuova generazione di cattolici, ma pur sempre educata a un’inflessibile aderenza alle prescrizioni etiche del magistero ecclesiale. Queste tendenze producono e spiegano figure che non sono iniziatori di partiti, ma utili segnali che occorre censire per comprendere più da vicino la direzione verso cui il cattolicesimo politico cerca di muoversi e orientarsi. In questo ‘partito della conservazione della identità italiana e cattolica’ si colloca Alfredo Mantovano, il cui «diario» rappresenta una vera e propria cartina di tornasole sull’indirizzo politico ed educativo della Chiesa contemporanea, poiché scritto da una personalità emersa nella seconda Repubblica, più volte sottosegretario al ministero degli Interni ed esponente di spicco di Alleanza cattolica76.
Mantovano parte da una diagnosi impietosa, che sintetizza nell’immagine dell’«uomo in frantumi», di «un Soggetto polverizzato»77. La terapia consiste allora nel ripartire dalla centralità della persona, ovvero nella lotta per la tutela del diritto alla vita che «rappresenta non un mero dato cronologico, ma una precisa scelta di principio, volta a orientare le decisioni politiche», nella ferma convinzione, sulla scia del magistero papale di Giovanni Paolo II, che il nuovo totalitarismo sia proprio nascosto dietro il relativismo morale:
«Se tutto questo è vero – afferma Mantovano – paragonare la negazione dei diritti della persona causata dal comunismo […] e la negazione dei diritti della persona che deriva dal relativismo etico significa mettere in guardia da un rischio che è tanto più forte e reale quanto è più subdolo e veste abiti di apparente democrazia»78.
Conclude perentorio l’ex esponente di An: «mai come in questo momento la frontiera del diritto alla vita coincide col futuro politico della nazione e con le stesse sorti della politica»79. Una politica concepita come battaglia di valori in netta antitesi con il mito di quella contestazione giovanile del 1968, matrigna di un «filoanarchismo» e «libertarismo» morale ancora oggi presente nella vita del paese, di un’ideologia della violenza e della morte che non conosce regole da rispettare.
Una versione fortemente identitaria del cattolicesimo80 fondata sulla difesa della vita dal suo concepimento fino alla sua conclusione naturale, della famiglia, del matrimonio eterosessuale, che trova corrispondenza in una sinergia fra mondo della cultura e mondo politico. Lucetta Scaraffia, storica ed editorialista de «L’Osservatore romano» di Giovanni Maria Vian, ed Eugenia Roccella, giornalista, leader del Movimento di liberazione della donna, sottosegretario al Ministero della Salute nel quarto governo Berlusconi, hanno paventato il «pericolo» di una Chiesa cattolica assediata dal «massimalismo laicista» dell’Onu e dell’Unione Europea, impegnati entrambi a costruire attraverso i loro interventi e le rispettive Commissioni una nuova «religione dei diritti umani» che in qualche modo annulli l’insegnamento della dottrina cristiana sulle pratiche abortive, sul controllo delle nascite nei paesi meno avanzati, sulle differenze di genere (si pensi alla scomparsa nei documenti internazionali dei termini padre, madre, maschio, femmina) in nome di un’eticità volta a una parificazione acritica di tutte le religioni, per cui l’oppressione della libertà individuale esercitata dal fondamentalismo islamico finisce per coincidere con la pratica di regolamentazione della vita umana da parte della Chiesa cattolica81. Scrive la Scaraffia:
«Si è visto come queste strategie anticattoliche non si realizzano quasi mai con attacchi diretti alla Santa Sede, ma attraverso una politica culturale invasiva e totalizzante, che tende a imporre il pensiero unico del politicamente corretto. Non si tratta quindi di un complotto o persecuzione, ma di uno sforzo internazionale coordinato e capace di contare su cospicui mezzi finanziari che viene condotto nella distrazione, nella sottovalutazione o nel silenzio-assenso di chi non ne condivide i presupposti e gli obiettivi»82.
Nelle elezioni politiche del 2008 è comparsa anche una lista contro l’aborto guidata dal giornalista Giuliano Ferrara che ha raccolto lo 0,371%, pari a 135.578 voti, schiacciata dai due grandi blocchi bipolari e dalla ostilità dello stesso Ruini, ma che ha segnalato con la sua sola presenza un orientamento politico profondo presente nella Chiesa italiana soprattutto dopo la vittoria delle astensioni al referendum del 2005. In un’intervista il direttore de «Il Foglio» così ha sintetizzato il senso della sua lotta, replicando a chi lo accusava di esagerare col suo integralismo religioso:
«Casomai si esagera con la bandiera idolatrica dell’eugenetica. Tu sì, tu no. E siamo tornati a mettere il veleno nel corpo delle donne […]. C’è chi parla delle licenze dei tassisti, chi della privatizzazione di Alitalia, chi delle aliquote che vanno abbassate: questo argomento [l’aborto] è almeno altrettanto importante»83.
Berlusconi in questo quadro di correnti conservatrici si è parallelamente giovato della egemonia di Ruini all’interno della struttura ecclesiastica e della sua azione di ricompattamento sui «principi non negoziabili» delle forze tradizionali del laicato cristiano come l’Azione cattolica e Comunione e liberazione, sollecitate nell’estate del 2004 a ritrovarsi in un unico fronte per la preservazione della dottrina cattolica. Il cambio tuttavia ai vertici della Cei e alla Segreteria di Stato vaticana decisi da papa Ratzinger, ha significato anche una diversa impostazione nei rapporti con la politica e con i suoi interlocutori principali. Ciò è apparso evidente nel marzo 2007, allorché Bertone, con una lettera indirizzata proprio al nuovo presidente della Cei Bagnasco, ha inteso nella sostanza riaffermare dopo la lunga stagione ruiniana la supremazia ‘politica’ dell’organo della Curia romana più vicina al pontefice di cui era responsabile, sulla Cei invitata ad essere più pastorale e meno precettiva e a contare maggiormente sulla «rispettosa guida della Santa Sede». Come conseguenza di questa scelta si è assistito a una minore esposizione mediatica del presidente della Cei nell’agone politico e alla riemersione di un più marcato pluralismo di posizioni all’interno della Cei84. Di qui un’oggettiva incrinatura anche nel rapporto fra i vescovi e Berlusconi, culminata in uno scontro fra il quotidiano della Cei «Avvenire» e quello della famiglia del premier, «Il Giornale», diretto daVittorio Feltri, e terminata con le dimissioni del direttore del primo, Dino Boffo, e con la sanzione del secondo per l’uso di carte false. Ma è soprattutto sul piano politico che il disagio crescente di una parte dell’elettorato cattolico85 si è potuto misurare con i temi della sicurezza, della immigrazione e della riforma federalistica dello Stato, perno del programma politico leghista, e che hanno visto il più noto settimanale cattolico paolino diretto da don Antonio Sciortino, «Famiglia cristiana», su posizioni di intransigente opposizione fino ad arrivare all’atto di accusa di Beppe Del Colle a Berlusconi, di un uso strumentale dei valori cattolici per garantirsi una posizione di potere politico finalizzato alla distruzione degli avversari politici e culturali dissenzienti dalle sue scelte e dai suoi comportamenti attraverso il supporto di strumenti mediatici compiacenti86.
Dal canto suo la Segreteria di Stato vaticana non è stata immobile. Anzi si è fatta espressione di una volontà diplomatica attenta a tessere nuovi rapporti politici andando anche al di là di polemiche contingenti proprie del ritrovato pluralismo all’interno della Conferenza episcopale. La mobilità e fluidità del quadro politico ha indotto infatti Bertone a una riflessione su eventuali nuovi approdi e appoggi in sede politica per la tutela degli interessi della Santa Sede e del suo magistero. Gli incontri con i leader della Lega Nord hanno segnalato proprio il sostanziale stato di incertezza della Curia romana nella operazione di dislocazione di un suo eventuale consenso politico. I fattori che avevano assicurato la forza politica di Berlusconi hanno mostrato, dopo quasi venti anni di presenza politica, un progressivo logoramento constatato anche dalle aree conservatrici più vicine al presidente del Consiglio87, e allo stesso tempo la conclusione della ventennale stagione ruiniana al vertice della Cei ha posto importanti interrogativi sulla rimodulazione del dialogo politico fra Stato e Chiesa cattolica. Nonostante i rischi connessi alla sua proposta federale ancora tutta da verificare nei suoi costi finanziari e politici nel rapporto fra Nord e Sud del Paese e nonostante nel passato abbia rappresentato una delle cause del tracollo democristiano nel Settentrione, anche la Lega diviene così un interlocutore importante nel garantire continuità e autorevolezza alla presenza della Chiesa sul territorio88.
Nel ‘solco’ apertosi fra Berlusconi e i cattolici si colloca il conservatorismo di Gianfranco Fini e del suo movimento Futuro e libertà per l’Italia, che punta alla conquista di un elettorato non disposto a limitare il suo impegno politico sulle identità da contrapporre ad altre, ma a dar vita a una politica laica, a una «laicità positiva» che combatte da un lato «l’attitudine confessionalista» e dall’altro «la degenerazione nichilista del relativismo culturale e morale, l’errata convinzione che libertà significhi la supremazia assoluta dei diritti, l’assenza di doveri e finanche di regole»89 e per la quale l’obiettivo finale è la «coesione degli italiani» e non la riproduzione di «vecchie fratture»90. Base di questa impostazione è il patriottismo costituzionale con i suoi riferimenti alla libertà, alla democrazia, alla solidarietà, all’eguaglianza, alla tolleranza, alla integrazione dei cittadini extracomunitari, per i quali si propone un nuovo patto di cittadinanza secondo cui la nazione diventa «un atto volontario di amore verso il paese nel quale si è nati o che si è scelto come propria patria», superando vecchie concezioni naturalistiche ed etnicistiche.
«È questo – spiega l’ex leader di An – il vero senso, fecondo e profondo, dell’identità storica. Un’identità che non ha bisogno di essere esibita come un marchio di riconoscimento, ma vissuta nella profondità e concretezza dei nuovi problemi e delle nuove sfide del nostro tempo […]. Sono lì le radici della nostra democrazia e vivono nelle culture che ispirano i grandi soggetti politici odierni […] tutte legate al comune richiamo ai valori sanciti nella prima parte della Costituzione»91.
Una «destra dei diritti»92, figlia del filone laico e libertario della tradizione politica missina rappresentata negli anni Settanta da Pino Rauti e della corrente culturale futuristica del radicalismo nazionale del primo Novecento93, è ciò che emerge dalle nuove posizioni finiane, volte, da un lato a riempire il progressivo vuoto di consenso politico innescatosi nel Mezzogiorno a causa delle divisioni interne al Pdl, attraverso la proposta di un federalismo equilibrato, risorsa politica per le famiglie e per l’intero paese e non solo per la sua parte più dinamica, in accordo con le preoccupazioni più volte espresse dall’episcopato italiano sul disegno federalistico leghista; e dall’altro lato a far sue alcune delle scelte politiche di un elettorato cattolico-democratico che non si sente sufficientemente rappresentato né dal Pd, né dalla leadership berlusconiana, ritenuta eccessivamente schiacciata sulle posizioni oltranziste della Lega Nord, né da quella parte della gerarchia ecclesiastica impegnata quasi esclusivamente sul fronte postruiniano dei «principi non negoziabili» contro cui Fini entrò in polemica nel 2005 per il consenso espresso a tre dei quattro quesiti referendari sulla procreazione medicalmente assistita e sulla ricerca sulle cellule embrionali. Un indirizzo politico dunque simile a quello di altre formazioni uscite dallo scontro bipolare Pdl-Pd (come l’ApI di Rutelli e l’Udc di Casini), e teso a occupare un ruolo non marginale nell’avvenire politico del paese.
1 Cfr. L. Caracciolo, L’Italia alla ricerca di se stessa, in Storia d’Italia, VI, L’Italia contemporanea. Dal 1963 a oggi, a cura di G. Sabbatucci, V. Vidotto, Roma-Bari 1999, pp. 570 segg. Nel suo diario, già nel luglio 1992 Vincenzo Scotti, più volte ministro nei governi democristiani, annotava preoccupato, a partire dalla sua vicenda politica personale che lo aveva visto costretto dal partito alle dimissioni: «Ho la sensazione che si stia chiudendo non una vicenda personale ma una lunga fase della vita politica italiana, con rilevanti perdite. Non credo che si intraveda niente di positivo per il nostro Paese, anche se vedo crescere, ora dopo ora, l’euforia del “novismo”, quasi l’approdo ad una terra promessa […] Si stanno buttando via, insieme alle ideologie ottocentesche, anche gli ideali e i valori che hanno animato grandi battaglie e sorretto grandi sofferenze. C’è troppa rassegnazione e impotenza anche nei leader che hanno avuto ruoli straordinari nella storia del nostro Paese», in V. Scotti, Diario minimo. Un irregolare nel palazzo, Roma 2004, pp. 52-53. Sulla fine della Dc e la nascita del Ppi cfr. Storia della Democrazia cristiana, a cura di F. Malgieri,VI-VII, Casoria 1999-2000.
2 Nel suo discorso di dimissioni da Capo dello Stato il 25 aprile 1992, ad esempio, Cossiga esprimeva un giudizio assai duro sulla pratica dominante nella politica nazionale che è quella dell’«oligarchia, certo democraticamente controllata, ma che è pur sempre un’oligarchia» in F. Cossiga, Il torto e il diritto. Quasi un’antologia personale, a cura di P. Chessa. Milano 1993, p. 34.
3 Cfr. L. Orlando, Fede e politica. Paolo Giuntella intervista Leoluca Orlando, Casale Monferrato 1992.
4 Cfr. M. Segni, La rivoluzione interrotta. Diario di quattro anni che hanno cambiato l’Italia, Milano 1994, p. 37. Gli altri due quesiti referendari entrambi vincenti nel doppio turno di voto del 9 giugno 1991 e del 18 aprile 1993 vertevano sulla elezione diretta del sindaco e l’introduzione della preferenza unica.
5 Cfr. S. Colarizi, Storia politica della Repubblica. Partiti, movimenti e istituzioni. 1943-2006, Roma-Bari 2007, p. 194.
6 Ha osservato a questo riguardo Guido Formigoni: «La fine della Dc non è solo la fine di una longeva esperienza politica. Mi pare coincida, più radicalmente, con la fine di un modello generale di impegno politico del credente, e cioè propriamente quello del cosiddetto partito di ispirazione cristiana […]. Era definitivamente esplosa l’ipotesi stessa dell’esistenza di una mediazione storicamente privilegiata tra fede e politica, esprimibile in una sintesi ideale-ideologica, garantita da un sostanziale imprimatur ecclesiastico» in G. Formigoni, Alla prova della democrazia. Chiesa, cattolici e modernità nell’Italia del ‘900, Trento 2008, p. 226.
7 Cfr. Storia della democrazia cristiana, VI, Il tramonto della Dc 1989-1993, a cura di F. Malgeri, pp. 268 segg.
8 Cfr. l’intervista di Lorenzo Fuccari con Mario Segni dal titolo Alcol sulle ferite, la ricetta di Segni, «Corriere della sera», 21 gennaio 1993 in Storia della democrazia cristiana, VI, a cura di F. Malgieri, cit., pp. 381-383.
9 Sul difficile rapporto Segni-Martinazzoli che polarizzò l’orizzonte politico cattolico in questo periodo, Segni nel suo diario politico ha scritto: «Il terreno di scontro è quello del rinnovamento. Martinazzoli eredita, senza sua colpa, un partito la cui immagine è drammaticamente compromessa […]. Dovrebbe dimostrare […] che il cambiamento è totale […]. Ma un’azione di questo genere è ostacolata dal suo temperamento, dalla sua storia, dai suoi rapporti dentro il partito. Martinazzoli è per carattere portato alla mediazione, piuttosto che alla contrapposizione personale», in M. Segni, La rivoluzione interrotta, cit., pp. 189-190. Si veda anche M. Martinazzoli, A. Valle, Uno strano democristiano, Milano 2009, pp. 138 segg.
10 M. Martinazzoli, Vi chiedo unità e fiducia, relazione di apertura del segretario politico ai lavori dell’Assemblea programmatica costituente della Dc tenutasi a Roma dal 23 al 26 luglio 1993, «Il Popolo», 24 luglio 1993, ora in Storia della Democrazia cristiana, VI, a cura di F. Malgeri, cit., p. 257.
11 G. De Rosa, La transizione infinita. Diario politico 1990-1996, Roma-Bari 1997, pp. 88-89.
12 Cfr. la comunicazione del segretario al primo Consiglio nazionale del dopo-congresso, su «La Discussione», 1° ottobre 1994, pp. 3-4. Per una storia dei postdemocristiani cfr. C. Baccetti, I postdemocristiani, Bologna 2007.
13 Cfr. l’intervista a Prodi di G. Brunelli, Il pluralismo e la coerenza, «Il Regno-attualità», 8, 1995, pp. 193-197. Sull’economista bolognese e poi leader politico del centrosinistra italiano cfr. R.F. Levi, Il professore. Romano Prodi: dall’Iri all’Ulivo, un progetto per l’Italia, Milano 1996.
14 Cfr. S. Colarizi, Storia politica della Repubblica, cit., p. 227.
15 Cfr. «Il Popolo», 22 giugno 1996.
16 Sul sacerdote reggiano cfr. Giuseppe Dossetti: la fede e la storia. Studi nel decennale della morte, a cura di A. Melloni, Bologna 2007.
17 Su tale distinzione non solo nominale ma di sostanza politica e programmatica cfr. I. Diamanti, Confusi e felici – Dal partito dell’Ulivo all’Unione dei Partiti, «Il Mulino», 5, 2005, pp. 863-871.
18 Su di lui cfr. M. Tesini, Nino Andreatta. Appunti per una biografia intellettuale, in N. Andreatta, Per un’Italia moderna. Questioni di politica e di economia, Bologna 2002, pp. 7-69. Sulla vicenda del Banco Ambrosiano cfr. C. Bellavite Pellegrini, Storia del Banco Ambrosiano. Fondazione, ascesa e dissesto 1896-1982, Roma 2001.
19 Sul trasformismo che anima tale operazione parlamentare cfr. L. Verzichelli, Cambiare casacca, o della fluidità parlamentare, «Il Mulino», 2, 2000, pp. 273-284.
20 Cfr. S. Colarizi, Storia politica della Repubblica, cit., p. 244.
21 Tra coloro che si oppongono a questa scelta ci sono il fondatore del nuovo Ppi Martinazzoli, Gerardo Bianco, Alberto Monticone, Lino Duilio (già segretario del Ppi lombardo): questi ultimi hanno dato vita nel 2004 al movimento politico denominato «Italia popolare-Movimento per l’Europa». Cfr. Lettera ai popolari italiani, diffusa nell’agosto 2001 dal gruppo coordinato da Duilio, in L. Gaiani, Le radici della Margherita, «Aggiornamenti sociali», 5, 2002, pp. 379-380.
22 Su Ruini presidente della Cei cfr. E. Galavotti, Il ruinismo. Visione e prassi politica del presidente della Conferenza Episcopale Italiana, 1991-2007, nella presente opera.
23 Cfr. S. Colarizi, Storia politica della Repubblica, cit., p. 227.
24 Cfr. G. Sarcina, Torna in pista la corrente di Andreotti, «Corriere della sera», 12 ottobre 2000, p. 9.
25 Cfr. M. Follini, Intervista sui moderati, a cura di P. Franchi, Roma-Bari 2003, p. 56.
26 Cfr. per le formazioni politiche di Giovanardi e Rotondi il sito www.ilpopolodellalibertà.it (18 settembre 2010).
27 Cfr. R. Zuccolini, Follini, via all’Italia di mezzo. «Ma da soli non si va lontani», «Corriere della sera», 22 ottobre 2006, p. 14; A. Frenda, Addii e distinguo. Ora entra in crisi l’Italia di mezzo, ibidem, 1° marzo 2007, p. 8. C’è da aggiungere che un solo parlamentare ha seguito Follini in questa sua operazione politica fra i due blocchi: il deputato bresciano Riccardo Conti.
28 Per una storia della Lega Nord cfr. I. Diamanti, La Lega. Geografia, storia e sociologia di un nuovo soggetto politico, Roma 1993. Cfr. anche Figli di un benessere minore. La Lega 1979-1993, a cura di G. De Luna, Firenze 1994.
29 Su questo aspetto del partito bossiano cfr. L. Dematteo, L’idiotie en politique. Subversione et néo-populisme en Italie, Paris 2007.
30 Cfr. S. Colarizi, Storia politica della Repubblica, cit., p. 194.
31 Cfr. F. Jori, Dalla Liga alla Lega. Storia, movimenti, protagonisti, Venezia 2009, pp. 81 segg.
32 Cfr. I. Diamanti, La Lega, cit., p. 10.
33 W. Tobagi, L’avvocato ha un debole, il cemento, «Il Corriere d’informazione», 29 aprile 1975, in Walter Tobagi giornalista. Raccolta di articoli, scritti e saggi di Walter Tobagi, a cura di G. Baiocchi, M. Volpati, con la collaborazione di A. Sparaciari, Farigliano 2005, pp. 98 segg.
34 Cit. da F. Jori, Dalla Liga alla Lega, cit., p. 47. Sulla esperienza politica del leader veneto della Dc cfr. G. Pansa, Bisaglia una carriera democristiana, Milano 1975.
35 G. Miglio, Io, Bossi e la Lega. Diario segreto dei miei quattro anni sul Carroccio, Milano 1994, pp. 12-13.
36 G. Miglio, A. Barbera, Federalismo e secessione. Un dialogo, Milano 1997, pp. 13-14.
37 Cfr. I. Diamanti, La Lega, cit., pp. 3 segg.
38 Su questo aspetto cfr. E. Pace, Nordest, il sesso? Non è peccato, «Il Gazzettino», 10 novembre 2009, p. 29; P. Allum, I. Diamanti, ’50/’80, vent’anni. Due generazioni a confronto, Roma 1986.
39 Cfr. www.associazionipadane.leganord.org (18 settembre 2010).
40 Cit. in G. Brambilla, I cattolici scelgono la Lega, «Ritmo politico», 11, 1996, pp. 17-18.
41 Date a Cesare quel che è di Dio..., «Identità», I, dicembre 1993, p. 9.
42 Cfr. N. Leoni, Nessuno tocchi i nostri simboli, «La Padania», 5 novembre 2009, pp. 10-11; P. Pellai, Facciamo i presepi, non le moschee, ibidem, 8 dicembre 2009, p. 1; G. Reguzzoni, Chiesa, tra crisi e fondamentalismo, ibidem, 13-14 dicembre 2009, p. 7; L. Zaia, Siamo noi i veri crociati della Chiesa, ibidem, 24 dicembre 2009, pp. 8-9; G. Reguzzoni, Sveglia buonisti: anche l’Islam opulento produce estremismo, ibidem, 30 dicembre 2009, p. 4.
43 Per una visione generale del rapporto fra i partiti berlusconiani e la Lega Nord cfr. F. Jori, Dalla Liga alla Lega, cit. Su Forza Italia e i suoi caratteri cfr. E. Poli, Forza Italia. Strutture, leadership e radicamento territoriale, Bologna 2001.
44 Cfr. S. Colarizi, Storia politica della Repubblica, cit., p. 244.
45 Cfr. www.corriere.it/Speciali/Politica/2008/elezioni08 (18 settembre 2010).
46 Per un’analisi del fenomeno storico ciellino cfr. S. Abbruzzese, Comunione e Liberazione, Roma-Bari 1991 da cui deriva anche la definizione del movimento di don Giussani come «cristianesimo di sostituzione». Cfr. M. Camisasca, Comunione e Liberazione, 3 voll., Cinisello Balsamo 2001-2006.
47 G.E. Rusconi, C. Saraceno, Ideologia religiosa e conflitto sociale, Bari 1970, pp. 44-49.
48 S. Berlusconi, L’Italia che ho in mente. I discorsi “a braccio” di Silvio Berlusconi, Milano 2000, p. 22.
49 Cfr. G. Baget Bozzo, Forza Italia, popolo e libertà, «Tempi» 4, 22-28 gennaio 2004, ora in Id., Italia, oh cara. Berlusconi, la Chiesa, i comunisti 1999-2009, a cura di L. Amicone, Milano 2009, p. 86.
50 Tale espressione è di Beniamino Andreatta in riferimento ai liberali conservatori. Su questo aspetto cfr. A. Melloni, Chiesa madre, chiesa matrigna. Un discorso sul cristianesimo che cambia, Torino 2004.
51 Cfr. G. Quagliariello, Cattolici, pacifisti, teocon. Chiesa e politica in Italia dopo la caduta del Muro, Milano 2006.
52 Cfr. M. Pera, J. Ratzinger, Senza radici. Europa, relativismo, cristianesimo, Islam, Milano 2004.
53 Per una storia del Msi cfr. P. Ignazi, Postfascisti? Dal Movimento sociale italiano ad Alleanza nazionale, Bologna 1994. Alcune tappe fondamentali del percorso politico di An: il 27-28 gennaio si tiene a Fiuggi il primo congresso del partito con la stesura delle tesi programmatiche della nuova formazione politica, nata come cartello elettorale formato dal Movimento sociale italiano-Destra nazionale e alcune personalità e associazioni d’aree minori di estrazione liberale, conservatrice e democristiana (tra questi Domenico Fisichella, ideologo della nascente Alleanza nazionale, Gustavo Selva e Publio Fiori, entrambi provenienti dalla destra democristiana). Il partito di fatto abbandona le nostalgie neofasciste e abbraccia il sistema liberaldemocratico anche se con forti riserve e ambiguità. Nel 1994 è assieme a Berlusconi, Casini e Bossi alle elezioni politiche, ma dopo la sconfitta del 1996 i rapporti fra il leader Fini e il Cavaliere di Arcore si raffreddano e l’ex delfino di Giorgio Almirante decide di correre alle elezioni europee del 1999 assieme ai liberaldemocratici del Patto Segni (il cosiddetto «Elefantino»): un’operazione politica assai deludente in termini di raccolta di voti (poco più del 10% e solo 9 parlamentari europei eletti). Nel 2000 torna quindi stabilmente nel polo di centrodestra all’interno della Casa delle libertà e vince le elezioni politiche del 2001. Fini diventa vicepresidente del Consiglio dei ministri e dal 18 novembre 2004 anche ministro degli Esteri. Fermo oppositore del governo Prodi, nel 2008 torna alla guida del paese con Berlusconi e la Lega ma senza l’Udc di Casini, dopo aver accettato di confluire nella lista unitaria del Pdl (scelta compiuta successivamente a un’aspra polemica con Berlusconi sul concetto di partito unico del centrodestra). Fini diventa stavolta presidente della Camera dei deputati e a Roma il 21-22 marzo 2009 si tiene il terzo e ultimo congresso di An (il secondo si era tenuto il 4-7 aprile del 2002 a Bologna) che sancisce la confluenza del partito nel Popolo della Libertà. Nel luglio 2010 infine, a seguito delle forti divergenze emerse sulla linea politica del Pdl, tre parlamentari vicini al presidente della Camera Fini, Bruno Granata, Carmelo Briguglio e Italo Bocchino vengono deferiti al collegio dei probiviri del partito. Una decisione che spinge Fini (di fatto espulso dal partito fondato assieme a Silvio Berlusconi), a dar vita a un autonomo gruppo parlamentare: Futuro e libertà per l’Italia.
54 Cfr. Pensiamo l’Italia, il domani c’è già. Valori, idee e progetti per l’Alleanza Nazionale in A. Ambrosioni, Intervista a Publio Fiori. “1993-2003: i primi dieci anni di Alleanza Nazionale”, Roma 2003, pp. 108 segg.
55 Cfr. La destra allo specchio. La cultura politica di Alleanza nazionale, a cura di R. Chiarini, M. Maraffi, Venezia 2001.
56 Cfr. M. Mapelli, La controversa partita dei diritti civili, ibidem, p. 160.
57 Cfr. A. Ambrosioni, Intervista a Publio Fiori, cit. Fiori ha lasciato An nel 2006 in disaccordo con la decisione di Fini di votare sì a tre dei quattro quesiti referendari sulla procreazione medicalmente assistita.
58 Ibidem, pp. 46 segg.
59 Ibidem, p. 96.
60 Cit. da S. Bertolino, R. Vignati, «Terza via» e liberismo, in La destra allo specchio, a cura di R. Chiarini, M. Maraffi, cit., p. 234.
61 Travagliate sono state anche le vicende degli eredi del Partito comunista di Togliatti e Berlinguer. Nel 1991 il segretario Achille Occhetto sancisce la svolta del nome oltre che dell’indirizzo politico socialdemocratico per cui il Pci diviene il Partito dei democratici di sinistra avente come simbolo la quercia; nel 1998, con la segreteria di Walter Veltroni durata fino al 2001, il Pds diventa Ds, partito retto dal 2001 al 2007 da Piero Fassino, che lo ha portato a confluire nel Partito democratico nell’ottobre del 2007.
62 Cfr. www.romanoprodi.it (18 settembre 2010).
63 R. Bindi, Cattolici e laici, in Partito democratico. Le parole chiave, a cura di M. Meacci, Roma 2007, pp. 31-36.
64 Cfr. P. Scoppola, Identità come ricerca: il caso storico del cattolicesimo democratico in Italia, in Non passare oltre. I cristiani e la vita pubblica in Italia e in Europa, Bologna 2003, pp. 85-94.
65 Cfr. A. Parisi, Scelte e riconoscibilità del cristiano nella transizione italiana, ibidem, pp. 95-108.
66 Cfr. F. De Giorgi, La «Repubblica delle coscienze». L’esperienza della Lega democratica di Scoppola, Gorrieri e Ardigò, in Quando i cattolici non erano moderati. Figure e percorsi del cattolicesimo democratico in Italia, a cura di L. Guerzoni, Bologna 2009, pp. 139-190.
67 Cfr. M. Carrattieri, M. Marchi, P. Trionfini, Il padre di due Repubbliche (1994-2004), in Ermanno Gorrieri (1920-2004). Un cattolico sociale nelle trasformazioni del Novecento, Bologna 2009, pp. 723-828.
68 Cfr. l’intervista della senatrice Binetti rilasciata a Paola Festuccia su «La Stampa» il 1º febbraio 2010, p. 14, in cui esplicita le ragioni del suo addio al Pd, dal titolo Il lungo addio della Binetti: “Il Pd ha fallito”.
69 Cfr. F. Rutelli, La svolta. Lettera a un partito mai nato, Venezia 2009.
70 Ibidem, p. 17.
71 Cfr. www.cambiamentoebuongoverno.org (18 settembre 2010).
72 Cfr. A. Riccardi, Il “partito romano”. Politica italiana, Chiesa cattolica e Curia romana da Pio XII a Paolo VI, Brescia 2007. Una breve cronologia sulla vicenda di Forza Italia il 29 giugno 1993 presso lo studio milanese del notaio Roveda viene costituita «Forza Italia! Associazione per il buon governo» da alcuni professionisti vicini agli interessi economici del presidente di Fininvest Silvio Berlusconi. Tra questi vi sono futuri ministri e parlamentari come Antonio Martino, Marcello Dell’Utri, Giuliano Urbani, Antonio Tajani, Cesare Previti; il 25 novembre nasce l’Associazione nazionale del Club di Forza Italia con sede a Milano; il 15 dicembre 1993 si inaugura il primo Club forzista a Milano, e a Roma in via dell’Umiltà (la stessa della sede del vecchio Ppi sturziano) si colloca la sede capitolina del Club. Il 18 gennaio 1994 si dà vita al Movimento politico Forza Italia e il 26 gennaio Berlusconi annuncia attraverso le sue televisioni la «discesa in campo» per le elezioni del marzo successivo, che saranno vinte dal suo partito con le due coalizioni: il Polo delle libertà al Nord con la Lega e il Polo del Buongoverno al Sud con An e Ccd. Dopo la breve esperienza di governo del 1994 (marzo-dicembre) Berlusconi torna al governo nel 2001, ma viene sconfitto per pochi voti nel 2006 dall’Unione guidata da Romano Prodi. Apparentemente fuori dai giochi politici Berlusconi il 18 novembre 2007 annuncia in piazza San Babila a Milano dal predellino della sua vettura (di qui la cosiddetta «rivoluzione del predellino») la nascita di una nuova formazione politica: il Popolo della Libertà in cui sarebbe confluita Forza Italia. Il 21 novembre 2008 il Consiglio nazionale di FI ha sancito la sua confluenza nel Pdl, il cui Congresso costituente si è svolto fra il 27 e il 29 marzo 2009 a Roma e al quale hanno preso parte i seguenti soci e partiti fondatori: Forza Italia, Alleanza nazionale, Democrazia cristiana per le autonomie, Popolari liberali, Riformatori liberali, Circolo della libertà, Destra libertaria, Italiani nel mondo, nuovo Psi, Azione sociale, Partito repubblicano italiano, Circolo del buon governo, Cristiano popolari, Per la Liguria.
73 Sul tipo di lotta politica condotta in Italia cfr. A. Ventrone, Il nemico interno. Immagini e simboli della lotta politica nell’Italia del ’900, Roma 2005. Sul controverso tema del postfascismo cfr. G.E. Rusconi, Resistenza e postfascismo, Bologna 1995.
74 C. Ruini, Nuovi segni dei tempi. Le sorti della fede nell’età dei mutamenti, Milano 2005 da cui sono tratte le successive citazioni della riflessione del cardinale reggiano.
75 Cfr. E. Galavotti, Il ruinismo, cit; cfr. anche G. Formigoni, La lunga stagione di Ruini, «Il Mulino», 5, 2005, pp. 834-843.
76 Associazione di impegno religioso e politico costituita il 31 gennaio 1998 a Piacenza da Agostino Sanfratello, esponente del partito neofascista Forza Nuova, e dai fratelli Giovanni e Pietro Cantoni, quest’ultimo sacerdote lefebvriano. Cfr. www.alleanzacattolica.it (18 settembre 2010).
77 Ibidem, p. 52.
78 Ibidem, p. 74.
79 Ibidem, pp. 94-95.
80 Mantovano, sulla scia del politologo americano Russell Amos Kirk (autore de Le radici dell’ordine americano: la tradizione europea nei valori del nuovo mondo, Milano 1996), esprime l’umore di un cattolicesimo politico capace di integrare l’Italia all’Europa e questa all’America del Nord in una unica civiltà occidentale cementata da comuni radici: il giudeo-cristianesimo, la cultura greca, il diritto romano e la common law anglosassone sono infatti tutti lineamenti di una sola forza politica, morale e sociale chiamata a difendersi dall’aggressione dell’Islam e del relativismo etico.
81 Cfr. E. Roccella, L. Scaraffia, Contro il cristianesimo. L’ONU e l’Unione europea come nuova ideologia, Casale Monferrato 2005.
82 L. Scaraffia, I diritti dell’uomo: realtà e utopia, in ibidem, p. 88.
83 Intervista rilasciata da Giuliano Ferrara a Maria Teresa Meli, Ferrara: mi candido con la Lista per la vita. E corro anche da solo, «Corriere della sera», 12 febbraio 2008, p. 9.
84 Cfr. Lettera del card. Tarcisio Bertone Segretario di Stato all’Arcivescovo Angelo Bagnasco, «L’Osservatore romano», 28 marzo 2007, p. 5; cfr. anche L. Accattoli, Bertone ai vescovi: meno politica. La Cei corregge la bozza sui Dico, «Corriere della sera», 28 marzo 2007, p. 11.
85 Su questo nuovo versante di conflittualità politica cfr. A. Cazzullo, Disagio dei cattolici, «Corriere della sera», 23 agosto 2010, p. 1, in cui si parla di «nuova questione romana» dopo i malumori e i dissensi su due temi particolarmente rilevanti e spinosi: etica dei comportamenti individuali e federalismo, che può diventare un fattore di disgregazione del paese.
86 Cfr. B. Del Colle, Il Cavaliere rampante e la Costituzione dimezzata, «Famiglia cristiana», 35, 25 agosto 2010, p. 35; si veda anche il Primopiano dal titolo Cenerentola d’Europa per la famiglia nel numero 36 (1° settembre 2010), p. 5. Per la posizione leghista sui temi della sicurezza e della immigrazione in polemica col settimanale cattolico cfr. in partic. G. Reguzzoni, Famiglia cristiana lontana dalla gente, «La Padania», 14 febbraio 2009, p. 9.
87 Cfr. M. Sechi, Caro Silvio fai la svolta, «Il Tempo», 12 settembre 2010, p. 1, in cui si consiglia in forma epistolare a Berlusconi di varare una serie di cambiamenti urgenti all’interno del Popolo della Libertà al fine di salvare il conservatorismo e il suo patrimonio politico e morale dall’immobilismo politico e dalla divisione innescatasi con Fini.
88 Cfr. P. Pellai, Lega e Vaticano, la stessa... parrocchia, «La Padania», 12 dicembre 2009, pp. 4-5.
89 Cfr. www.fondazionefarefuturo.it (18 settembre 2010).
90 G. Fini, Il futuro della libertà. Consigli non richiesti ai nati nel 1989, Milano 2009, pp. 109 segg.
91 Ibidem.
92 F. Perina, La nostra destra dei diritti, in In alto a destra. Attorno a Fini: tre anni di idee che sconvolgono la politica, a cura di G. Compagno, Roma 2010, pp. 13 segg.
93 Cfr. E. Gentile, Il mito dello Stato nuovo. Dal radicalismo nazionale al fascismo, Roma-Bari 2002.