Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il successo del rock‘n’roll e di Elvis Presley, negli anni Cinquanta, prefigura la possibilità di un mercato internazionale per la popular music destinata a un pubblico giovanile. Ma solo con i Beatles si determinano, all’inizio degli anni Sessanta, le condizioni per un mercato multinazionale sostanzialmente omogeneo, come quello che si sarebbe consolidato in seguito. Elementi importanti di questo processo sono il rovesciamento dei rapporti di forza fra editoria e discografia, e la creazione di un polo produttivo britannico, capace di sfruttare e controbilanciare il gigantesco mercato interno americano.
USA is not UK
Per tutto l’arco degli anni Cinquanta, e ancora nei primi anni Sessanta, fa parte del senso comune degli addetti dell’industria discografica il fatto che le classifiche di vendita britanniche riproducano in larga parte, con qualche ritardo, quelle americane. Rappresenta un’eccezione il fatto che qualche disco di successo negli USA non raggiunga i primi posti in Gran Bretagna, mentre il reciproco è quasi la norma: tra i pochissimi dischi che ottengono in quel periodo un grande riscontro commerciale negli Stati Uniti, nonostante siano stati registrati altrove, figurano alcuni successi italiani (primo fra tutti Nel blu dipinto di blu di Domenico Modugno), e un numero non molto maggiore di prodotti britannici. Dopo aver importato e consumato a profusione dischi di crooners, a partire dalla fine del 1955 gli inglesi accolgono con entusiasmo l’ondata del rock‘n’roll, e l’industria musicale locale reagisce promuovendo alternative locali a Elvis Presley, da Tommy Steele a Cliff Richard (che riesce a emanciparsi da quel modello verso l’inizio degli anni Sessanta). Anche fenomeni indigeni come lo skiffle fanno fatica a varcare le frontiere, se non altro perché una parte del repertorio è comunque di origine americana. Nella trentina di successi di Lonnie Donegan, la figura più in vista dello skiffle, quasi tutti raggiungono i primi venti posti delle classifiche inglesi, una decina figura tra i primi cinque, tre arrivano al primo posto, ma soltanto tre si piazzano nelle classifiche statunitensi. Un caso ancora più significativo riguarda gli Shadows, il gruppo che esordisce come accompagnatore di Cliff Richard e che a partire dal 1960 (con Apache) ha una lunga serie di successi, soprattutto strumentali, consolidando la formazione con due chitarre, basso e batteria, registrando negli studi di Abbey Road, e sostanzialmente preparando la strada ai Beatles. Fino al 1963 una dozzina di 45 giri degli Shadows entrano fra i primi dieci dischi più venduti in Gran Bretagna, cinque dei quali al primo posto; il successo si estende all’Europa continentale (sei titoli in classifica in Italia, tra i quali un primo e un secondo posto), facendo intravedere anche ai discografici inglesi la possibilità di un vasto mercato internazionale, paragonabile a quello che ha accolto il rock‘n’roll americano pochi anni prima. Eppure, della trentina di titoli degli Shadows che sono entrati nelle classifiche britanniche (fino al 1981), nessuno è mai entrato in quelle statunitensi. Apache è ovviamente un grande hit negli USA (seconda in classifica nel 1961), ma nella versione del chitarrista danese Jorgen Ingmann. Del resto, anche quella degli Shadows è una cover, sia pure di un brano scritto da un loro amico, Jerry Lordan.
Come dimostra il caso di Modugno, o quello di un brano strumentale come Apache, non è in primo luogo la barriera linguistica a rendere inaccessibile il mercato statunitense alle produzioni di altri Paesi. È, piuttosto, il primato dell’editoria musicale, che impone a una discografia ancora debole e poco organizzata sul piano multinazionale il ricorso alle cover. Soltanto interpreti con una fortissima immagine internazionale possono sperare di imporre la propria versione su mercati diversi, ed è ovvio che il compito sarebbe stato facilitato se fossero stati autori del proprio materiale, configurando in modo inequivocabile la propria versione come l’originale (quello che accade già nel 1958 a Modugno, di fatto). Ciò che non riesce agli Shadows fra il 1960 e il 1963 sarebbe riuscito, proprio per queste ragioni, ai Beatles, ai Rolling Stones e a un grande numero di altri gruppi britannici, negli anni immediatamente successivi.
The Beatles
L’esordio discografico dei Beatles in patria (hanno registrato qualche pezzo in Germania nel 1961, come accompagnatori di Tony Sheridan) avviene nel 1962, con Love Me Do, una canzone firmata da John Lennon e Paul McCartney. Fin dal principio, il loro produttore George Martin li esorta a comporre canzoni proprie: nella discografia ufficiale del quartetto solo 24 canzoni su 211 sono di autori diversi dai componenti del gruppo, e si tratta di brani (incisi nei primi anni di attività: l’ultimo è Act Naturally, registrato nel giugno del 1965) che costituiscono facciate B o riempitivi di album, nessuno dei quali ha mai avuto un successo autonomo. Il modo particolare con cui i Beatles mettono insieme elementi eterogenei degli stili americani che hanno frequentato (dal rock‘n’roll “classico” alle armonizzazioni vocali a parti strette degli Everly Brothers), le loro capacità di intrattenitori e la compattezza strumentale, la grande qualità delle registrazioni realizzate in studi e con tecnici che hanno alle spalle quasi tre anni di esperienza con il sound pulito ed energico dei predecessori Shadows, il look nuovo delle pettinature e degli abiti di scena, e soprattutto l’improvvisa e rigogliosissima vena con cui Lennon e McCartney sfornano canzoni efficacissime, costruite per lo più sul modello chorus-bridge (CCBCBC) della canzone classica di Tin Pan Alley, sono gli elementi che portano rapidamente il gruppo all’attenzione del pubblico britannico. Nel 1963 le classifiche dei 45 giri li ospitano prima al secondo posto (Please Please Me), e poi tre volte di seguito al primo. Per trovare un singolo dei Beatles che non raggiunga il primo posto bisogna arrivare al 1967 (Penny Lane/Strawberry Fields Forever). Intanto nel 1968 per la prima volta dopo l’abbandono sul mercato del formato a 78 giri le vendite degli album avrebbero superato anche in quantità quelle dei singoli. Un fenomeno in larga parte determinato proprio dal lavoro dei Beatles nel triennio 1966-1968. Si ritiene comunemente che l’album Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, pubblicato nel 1967, rappresenti l’inizio di una nuova era per l’industria discografica e per la popular music tutta: prodotto da un gruppo che ha già abbandonato le esibizioni dal vivo, basato su un progetto musicale e acustico interamente centrato nello studio di registrazione, concepito come album senza incorporare o estrarre singoli, uscito contemporaneamente su tutti i mercati principali, l’album prende atto di una nuova configurazione dei media e delle ideologie che attorno a questa fermentano. Il 1967 è l’anno della prima trasmissione in Mondovisione, del Festival di Monterey, dei figli dei fiori, della Summer of Love, della comparsa sul mercato consumer delle cuffie stereo, della codifica del termine rock (senza “and roll”) per descrivere la musica giovanile. Ma tutto ciò è stato instradato – e in parte non sarebbe stato possibile altrimenti – dal travolgente successo dei Beatles e degli altri gruppi inglesi negli Stati Uniti di due anni prima: la British Invasion del 1965.
La rivincita inglese
I trionfi americani dei Beatles iniziano già nel 1964, e mostrano chiaramente la tendenza dell’industria statunitense a modellare il prodotto estero secondo quelle che ritiene siano le specificità del mercato interno: le uscite dei singoli e le scalette degli album sono organizzate diversamente da quelle inglesi (significativamente, solo a partire da Sgt. Pepper’s la track list inglese e quella americana coincideranno). Love Me Do, che non ha raggiunto mai la vetta in Gran Bretagna, sale al primo posto negli USA, e le classifiche americane del 1964 registrano varie volte ai primi posti canzoni che nella patria dei Beatles sono state delle facciate B o non sono uscite come singoli. Ma nel 1965 non c’è strategia dei discografici statunitensi che possa controllare o arginare il flusso di prodotti inglesi. I giovani americani sembrano voler comprare solo dischi di gruppi britannici: sulla scia dei Beatles e dei Rolling Stones arrivano gruppi di varia qualità, alcuni importanti anche per l’influenza che eserciteranno sulla musica americana (come gli Animals, ispiratori della svolta “elettrica” di Bob Dylan), altri francamente mediocri. Gli stessi gruppi americani sono costretti a forgiare la loro immagine sul modello beatlesiano (i Byrds, esecutori dell’unico grande successo americano del 1965, la dylaniana Mr Tambourine Man) o ricorrono ad altri travestimenti (il Sir Douglas Quintet, band di San Antonio, Texas). La British Invasion, comunque, non è solo il risultato di una moda: nasce dalla maturazione di uno stile che si è formato nell’arco di un biennio, dove gli elementi americani (afro-americani) sono spesso più accentuati che nella musica dei Beatles. Riff incalzanti e altri materiali costruttivi provenienti dal rhythm and blues, sonorità stratificate (diverse dal sound trasparente degli studi di Abbey Road), strutture modulari. È il rock‘n’roll delle origini che ritorna, dopo che gli stessi industriali del disco americani lo hanno addolcito o annichilito nell’ondata “perbene” della fine degli anni Cinquanta.