Groot, Huig van
Giurista e filosofo olandese (Delft 1583 - Rostock 1645).
Ingegno precocissimo, a dodici anni fu ammesso all’univ. di Leida dove ebbe per maestri G.G. Scaligero e Francesco Junius, e dove coltivò gli studi classici. Si laureò però in legge a Orléans, a quindici anni, ed esercitò l’avvocatura, senza rinunciare agli studi umanistici e teologici: curò infatti edizioni di autori classici e scrisse versi e drammi. Un conflitto diplomatico con il Portogallo gli diede occasione di scrivere il trattato De iure predae (rimasto inedito fino al 1898). Un capitolo di esso, con il titolo Mare liberum, fu pubblicato anonimo nel 1609 e diede l’avvio a celebri polemiche sulla libertà dei mari, sostenuta da Groot. Nel 1607 G. divenne avvocato generale delle province d’Olanda, Zelanda e Frisia occidentale. Partecipò attivamente alle lotte politico-religiose del suo paese, prendendo partito, nella controversia tra arminiani (o rimostranti) e gomaristi (o antirimostranti), per i primi. In polemica con i gomaristi, calvinisti ortodossi, gli arminiani sostenevano che la predestinazione non è assoluta ma condizionata, e che la grazia, anche se necessaria all’uomo, non è irresistibile. G., umanista ed erasmiano, vedeva nella dottrina della giustificazione per sola fede un disconoscimento dei più profondi valori umani e propugnava una politica di reciproca tolleranza; gli sembrò quindi che la dottrina arminiana si prestasse meglio alla causa della pace. Coinvolto sempre di più nelle dispute teologiche che andavano inasprendosi, nel 1613, diventato pensionario di Rotterdam, intervenne a sostegno dei capi rimostranti. G. non aveva dubbi sulla legittimità dell’intervento dello Stato nelle lotte religiose e sul suo diritto di decidere anche in merito a questioni teologiche, nell’interesse pubblico e della pace (tesi sostenuta nel De imperio summarum potestatum circa sacra, 1614). Ed è proprio in questa prospettiva che ruppe con il particolarismo religioso nato dalla Riforma protestante a favore dell’idea di una religione universale fondata sulla tradizione evangelica, e di un’unità religiosa dell’umanità nelle forme del diritto e con l’appoggio dello Stato. Dopo la condanna subita dall’arminianesimo nel sinodo di Dordrecht (1619), fu condannato all’ergastolo; ma riuscì a evadere avventurosamente con l’aiuto della moglie, Maria van Reigersbersh, e a riparare a Parigi, dove pubblicava nel 1625 la sua opera più famosa, il De iure belli ac pacis. Riusciti vani i tentativi per tornare in patria, nel 1634 accettò la carica di ambasciatore di Svezia a Parigi che tenne per dieci anni con scarso successo a causa dell’ostilità di Richelieu. Rientrato a Stoccolma (1645), ne ripartì subito dopo per fare ritorno in Olanda. Durante il viaggio che lo avrebbe riportato in patria, sfuggì a un naufragio ma si ammalò e morì. Scrisse moltissime opere letterarie, filologiche, storiche, teologiche, politiche e giuridiche. Tra le opere teologiche si segnalano: De veritate religionis christianae (1627) e Via ad pacem ecclesiasticam (1642); tra quelle storico-politiche: De antiquitate reipublicae Batavae (1610), sulla rivolta olandese contro la Spagna. Tra le numerosissime edizioni e traduzioni del De iure va ricordata quella con il commento di Barbeyrac, apparso in latino (1720) e successivamente riprodotto nelle varie edizioni della trad. franc. a cura dello stesso Barbeyrac, che contribuì moltissimo alla diffusione dell’opera.
G. è generalmente considerato il fondatore del diritto naturale, o giusnaturalismo (➔), moderno, per il suo distacco da preoccupazioni di ordine teologico o ecclesiastico e per un senso di autonomia della ragione, più vivo rispetto a Tommaso o a Suárez, alle cui dottrine possono essere avvicinate alcune sue formulazioni. Egli era convinto che l’attuazione della sua idea di una pace religiosa fondata sull’unità di tutte le confessioni (non esclusa la cattolica) fosse condizionata dall’organizzazione giuridica degli Stati, indipendentemente da qualsiasi presupposto teologico e dogmatico. Di qui l’idea centrale del De iure belli ac pacis, cioè quella di un diritto naturale valido universalmente e sganciato da credenze religiose. Nei prolegomeni e nel 1° libro del De iure G. afferma, infatti, l’esistenza di una giustizia universale, le leggi naturali dettate dalla retta ragione (dictamina rectae rationis), la quale ci fa riconoscere se una determinata azione, a seconda che sia o no conforme alla nostra natura razionale, ha in sé la qualità di necessità morale, e quindi deve essere perseguita, o se invece deve essere evitata. Si può infatti riconoscere nell’uomo «oltre a una spiccatissima tendenza alla vita sociale [...], anche la facoltà di conoscere e di agire secondo principi generali: e quanto si riferisce a tale facoltà non è certo comune a tutti gli animali, ma è proprio della natura umana». Il diritto naturale procede per G. dall’innato appetitus societatis che porta l’uomo a unirsi con i suoi simili in una convivenza pacifica e razionalmente ordinata. Conservare la società umana è il fine del diritto naturale, «il quale comprende l’astenersi dalle cose altrui, la restituzione dei beni altrui e del lucro da essi derivato, l’obbligo di mantenere le promesse, il risarcimento del danno arrecato per colpa propria, il poter essere soggetti a pene tra gli uomini». Tutto questo – sostiene G. – sarebbe valido anche nell’empia ipotesi che Dio non esistesse o non si occupasse dell’umanità (etiamsi daremus […] Deum non esse). Tale affermazione, che in realtà riprende formulazioni della tarda scolastica in polemica contro un’impostazione strettamente volontaristica, ha dato a G. un’enorme fama, presentandolo come un precursore. Questo concetto dell’autonomia della ragione è ripreso anche altrove, quando G. ribadisce la razionalità del diritto, che neppure Dio potrebbe mutare, come non può influire sull’esattezza di una proposizione matematica. Il criterio per stabilire se una determinata norma è di diritto naturale o no è duplice: un criterio a priori, consistente nel commisurare tale norma alla natura razionale e sociale dell’uomo, un criterio a posteriori, consistente nello stabilire se essa è ritenuta giusta presso tutti i popoli, o almeno presso i più civili.
All’ordinamento interno degli Stati deve corrispondere un ordine nei rapporti internazionali fondato sul diritto naturale. È questo, propriamente, il tema del De iure: per G. il problema della guerra e della pace è inscindibile da quello della giustizia. Inoltre, egli è uno dei primi a sostenere la necessità di procedure giuridiche anche in stato di guerra: vi sono guerre giuste e guerre ingiuste; quando vi è violazione del diritto, la guerra diventa la giusta e necessaria sanzione. D’altra parte, non vi sarà una pace vera se questa non si fonda sulla giustizia. Le convenzioni fra gli Stati determinano fra di essi la norma di giustizia volontaria che non può essere violata senza provocare, come legittima reazione, la guerra. Questa, anche se giusta, deve essere condotta secondo norme di umanità dettate dal diritto naturale, in rapporto ai suoi fini.
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