Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Considerato dai contemporanei un eccellente scrittore di libri di viaggi e di avventure, Herman Melville, quando pubblica il suo capolavoro, Moby Dick, a metà del XIX secolo, non incontra il favore di buona parte dei lettori, probabilmente a causa della complessa impalcatura metafisica sulla quale la storia della balena bianca e della nave che gli dà la caccia è costruito. Infatti, Moby Dick, uno dei grandi libri dell’epoca moderna, più che all’Ottocento appartiene alla cultura del Novecento.
Le origini e il richiamo del mare
Herman Melville nasce a New York l’1 agosto 1819 in una famiglia facoltosa, di origini scozzesi e olandesi. Il fallimento negli affari del padre lo costringe a lasciare la scuola all’età di 12 anni. Dopo aver lavorato per due anni come fattorino in una banca e altri due in un negozio di berretti di pelliccia a Albany, nel 1837 Melville prende in mano per alcuni mesi la fattoria di uno zio, a Pittsfield nel Massachusetts. Poi insegna in una scuola di campagna, frequenta dei corsi per diventare agrimensore e, in seguito alla crisi economica del 1837, rimane senza un lavoro. Ritornato a New York, nel 1839 parte su una nave diretta a Liverpool. E da questa esperienza trarrà spunto per scrivere Redburn, il suo quarto romanzo. Nel 1841 Melville si imbarca come marinaio sulla baleniera Acushnet, con la quale raggiunge i Mari del Sud. L’anno seguente abbandona la nave nelle Isole Marchesi e vive per alcune settimane con una tribù di cannibali che non hanno mai avuto contatti con i cosiddetti popoli civili. Raccolto da una nave australiana, finisce a Tahiti, dove esplora l’isola e ne studia la famosa flora e la fauna. Raggiunge Honolulu e si imbarca sulla fregata United States con la quale arriva a Boston il primo giorno d’agosto del 1844. Ha ormai 25 anni, ma è questa la data in cui Melville considera che abbia inizio la sua vera vita.
Gran parte delle esperienze di viaggio viene rielaborata in una serie di libri che lo rendono famoso. Il primo, Typee (1846), è un resoconto romanzato del suo soggiorno nei Mari del Sud. Il protagonista, che i nativi chiamano Tommo, finisce insieme a un compagno di avventura, Toby, nelle mani di una tribù, i Typee appunto, che tengono entrambi in una sorta di amichevole prigionia. Tommo è ferito a una gamba e Toby si allontana allo scopo di trovare qualcuno che lo possa accudire. In realtà ne approfitta per fuggire e Tommo è in seguito amorevolmente curato dalla bellissima Fayaway, una giovane innocente come la natura che la circonda in quelle isole, che lo stesso Melville, anni dopo, ricorderà come "l’ultimo angolo del paradiso terrestre". La tentazione di cedere alla sonnolenta vita vegetativa di questa gente è molto forte, ma l’inquieta personalità di Tommo, che nel frattempo è venuto a sapere dei segreti rituali cannibalistici dei Typee, lo spinge a fare ritorno nel mondo dei bianchi, dai cui orrori era peraltro scappato all’inizio quando, insieme a Toby, aveva disertato la baleniera Dolly. Turbato nella sua coscienza di uomo civile, Tommo tenta di allontanarsi dalla felice ma ferina condizione edenica di quegli uomini primitivi, e nel corso della fuga uccide un guerriero, venendo a sua volta tragicamente meno ai propri principi morali.
Il grande successo di Typee spinge Melville a scrivere un seguito. Pubblicato nel 1847, Omoo (che nella lingua dei polinesiani significa "l’errante") riprende la storia dal punto in cui il protagonista in fuga si imbarca sulla baleniera Julia. Contiene in successione la storia di un ammutinamento, dettagliate descrizioni della incantevole natura delle isole di Tahiti e Eimeo, nonché alcuni memorabili ritratti di personaggi, come il ramponiere Bembo e il dottore ubriacone Long Ghost, che deliziano lettori come Henry Adams e Robert Louis Stevenson.
Il matrimonio e l’inizio dei viaggi attorno alla mente
Sullo slancio del successo editoriale, nel 1847 sposa Elizabeth Knapp Shaw, figlia del presidente della Corte Suprema del Massachusetts, e con gli anticipi sull’eredità della moglie si stabilisce a New York. È, quello che segue, un periodo di vaste e proficue letture che Melville fa convogliare, in maniera massiccia ma poco convincente per i lettori, in Mardi (1849), un romanzo di avventure che ha la forma di un’allegoria e che, a differenza dei primi due libri, è frutto di fantasia. Cinque personaggi sono alla ricerca della Verità assoluta tra le isole di un arcipelago del Pacifico, che simboleggia il mondo intero e oltre i cui confini si stende il mare aperto, ovvero l’infinito verso il quale, tuttora prigioniero del peccato e del rimorso, il protagonista della vicenda alla fine s’imbarca.
La nascita del figlio Malcolm nel 1849 carica di nuove responsabilità Melville, che pubblica Redburn e poi, nel 1850, White Jacket. Entrambi sono accolti trionfalmente tanto in Gran Bretagna quanto negli Stati Uniti, ed entrambi prendono spunto da esperienze vissute. Redburn, rielaborazione del suo primo viaggio per mare, è la storia della iniziazione alla vita di un ragazzo americano, e dunque per definizione innocente, che arriva a Liverpool e scopre il lato oscuro del Vecchio Mondo e dell’Inghilterra industrializzata. Mentre White Jacket è un libro semiautobiografico, basato sulle vicende accadute sulla nave da guerra United States, da Honolulu agli estremi confini del mondo, fino all’approdo in patria. Costruito sulla traccia di un viaggio simbolico, White Jacket è realistico nei dettagli; un insieme di schizzi e illuminanti considerazioni in cui la ciurma della nave è un microcosmo dell’umanità intera. Contiene peraltro una requisitoria contro il supplizio delle frustate che – è ormai accertato – contribuisce, dopo alcuni mesi, alla decisione del Congresso degli Stati Uniti di sancirne l’illegalità.
L’incontro con Nathaniel Hawthorne e la creazione del capolavoro
Melville inizia a scrivere Moby Dick durante un soggiorno estivo sulle Berkshires, nel Massachusetts, dove ha lavorato da ragazzo. L’acquisto della tenuta di Arrowhead a Pittsfield – dove vivrà tra il 1850 e il 1863 – e la conseguente amicizia con Hawthorne, che per un paio d’anni abitò a poche miglia di distanza, a Lenox, e al quale Melville avrebbe dedicato il suo capolavoro, segna una pagina decisiva nella storia della letteratura degli Stati Uniti. È infatti la lettura del volume di racconti di Hawthorne, Mosses from an Old Manse, a esaltarne l’immaginazione, e in un saggio in due parti sulla rivista "Literary World" (1850) dei fratelli Duyckinck, Melville arriva a sostenere entusiasticamente che è giunta l’ora in cui gli scrittori americani possono finalmente entrare in competizione con Shakespeare e i suoi pari.
Il fallimento di Mardi e il grande successo di Redburn ("una povera cosa che ho scritto per comprarmi un po’ di tabacco") rafforzano una disposizione della mente che porta Melville a creare un ibrido di inaudita potenza. Un libro concepito come documento sulla baleneria che diventa una complessa speculazione di tipo metafisico – che però non arriva a prendere la forma di un enunciato filosofico, ovvero di un coerente svolgimento di pensiero, ma rimane un insieme di tante parti, ciascuna conchiusa in sé, e ciascuna deputata ad attestare attraverso i diversi personaggi, il proprio rapporto con il significato ultimo delle cose. Moby Dick, pubblicato nel 1851, non è però propriamente un’allegoria, come pure lo stesso Melville riteneva che fosse, seguendo il giudizio di Hawthorne. È, invece, una sorta di tavola periodica di straordinario vigore poetico, sulla quale sono registrati i vari modi in cui la realtà può essere percepita da occhi e spiriti diversi. Punto di riferimento per ogni personaggio – e conseguente relativa azione – è la balena, in realtà un capodoglio, con la sua innaturale bianchezza. Al centro, una figura titanica con un nome biblico, Ahab – colui che nel Libro dei Re (I, 21, 26) "commise molti abomini, seguendo gli idoli" –, il quale insegue e persegue ai quattro angoli dell’oceano quella che pensa essere l’incarnazione del male, allo scopo di vendicare l’oltraggio subito tempo addietro, quando l’enorme animale, attaccato, finì per reagire staccandogli una gamba.
La storia dell’ossessivo inseguimento che finisce in tragedia, è raccontato in prima persona dall’unico sopravvissuto, Ishmael, che nel libro della Genesi è il figlio ripudiato di Abramo e che in Moby Dick riassume in sé la voce di tutti gli orfani, i diseredati e gli esuli della terra. A bordo del Pequod, la baleniera che prende il nome da una tribù di nativi americani del New England, fanno corona al capitano, tre ramponieri: Queequeg, un "selvaggio" proveniente dai Mari del Sud; l’indiano pellerossa Tashtego, che appartiene a una tribù ormai dispersa di Gay Head nel Massachusetts; e il gigantesco africano Daggoo che, "imbarcatosi spontaneamente in gioventù su una baleniera ancorata in una baia solitaria della costa natale […] conserva tuttora le sue virtù barbariche". Ciascuno di loro pronto a calarsi sulle lance comandate dai tre sottufficiali. Il primo è Starbuck, un diligente e coraggioso quacchero di Nantucket, che è anche l’unico a contrastare Ahab nella folle corsa verso la rovina. Il secondo è Stubb, un gioviale marinaio di Cape Cod, che "presiede alla sua imbarcazione come se lo scontro più mortale fosse soltanto un pranzo, e l’equipaggio gli invitati". Mentre il terzo è Flask, un solido ed efficiente baleniere di Martha’s Vineyard, incapace di vedere le cose oltre il pentolone per fondere il grasso delle balene. C’è però un quarto ramponiere, sinistro e misterioso, salito sul Pequod in tutta segretezza e addetto alla lancia di Ahab. È un parsi, seguace di Zoroastro, e si chiama Fedallah: adora il fuoco – si dice – ed è l’emissario e il cattivo consigliere mandato dal diavolo.
La trama di Moby Dick accoglie quindi in sé tipi e personaggi che appartengono alle più diverse razze nazionalità e confessioni religiose: "un equipaggio fatto di fuggiaschi sanguemisti, di reietti e di cannibali" al cui "spirito inconscio" la balena appare "in qualche modo misterioso e insospettato" come "il gran demonio vagante dei mari della vita". Il male, appunto. Anche se il gigantesco e invincibile cetaceo, non è forse altro, con la sua indecifrabile bianchezza, che il simulacro di quella che si può chiamare "la conoscenza della realtà". Lo specchio, secondo il metodo della correlazione nella dottrina del protestantesimo, in cui le cose sono viste non per quello che sono in sé ma per quello che è chi le osserva. Sicché, per un leader che è in preda a una ossessione qual è Ahab, la balena – ovvero la semplice natura in tutta la sua forza – viene ad acquistare le fattezze di un mostro dotato di intenzioni e sentimenti. Ed è, questa, una distorsione dalle conseguenze disastrose.
L’insuccesso di Moby Dick
Le ambiguità dispiegate nel grande libro sulla balena, peraltro accolto male anche dai giornali, sono riprese da Melville nel sottotitolo del romanzo pubblicato l’anno seguente. Pierre o delle ambiguità (Pierre, or the Ambiguities, 1852) ripercorre infatti la carriera di uno scrittore, inserita in una storia melodrammatica con la quale Melville cerca di ottenere un successo di pubblico che gli sfugge da troppo tempo. È la storia della caduta di un giovane altolocato, Pierre Glendinning, il cui disinteressato e generoso amore per Isabel, che crede essere una sorellastra, è la causa della sua misera fine. Ma anche Pierre, che pure contiene pagine tra le migliori mai scritte da Melville, sarà un fallimento. Qualche giornale scrive che si tratta dell’opera di un folle. In famiglia c’è chi pensa davvero di farlo interdire e i rapporti con gli editori si guastano irrimediabilmente.
Herman Melville
Moby Dick, incipit
Chiamatemi Ismaele. Alcuni anni fa – non importa quanti esattamente – avendo pochi o punti denari in tasca e nulla di particolare che m’interessasse a terra, pensai di darmi alla navigazione e vedere la parte acquea del mondo. È un modo che ho io di cacciare la malinconia e di regolare la circolazione. Ogni volta che m’accorgo di atteggiare le labbra al torvo, ogni volta che nell’anima mi scende come un novembre umido e piovigginoso, ogni volta che mi accorgo di fermarmi involontariamente dinanzi alle agenzie di pompe funebri e di andar dietro a tutti i funerali che incontro, e specialmente ogni volta che il malumore si fa tanto forte in me che mi occorre un robusto principio morale per impedirmi di scendere risoluto in istrada e gettare metodicamente per terra il cappello alla gente, allora decido che è tempo di mettermi in mare al più presto.
Herman Melville, Moby Dick, o la Balena, trad. it. di C. Pavese, Milano, Adelphi, 1990
Melville continua a scrivere, soprattutto racconti per i mensili "Harper’s" e "Monthly’s", ma spesso distrugge parte di quello che crea. Dopo la vendita parziale di Arrowhead (1853), il vecchio giudice Shaw, suo suocero, finanzia un viaggio in Europa e nel Levante per lui e la moglie, e Melville a Liverpool fa visita a Hawthorne, che è nel frattempo diventato console degli Stati Uniti. A lui confida di avere perduto la voglia di girare il mondo. Da ormai più di dieci anni i suoi viaggi hanno soprattutto luogo dentro i misteriosi meandri della coscienza. Tornato in America, per tre stagioni tiene conferenze nelle città dell’Est e del Midwest. Finalmente, nel 1866, ottiene un posto di vice-ispettore alla dogana di New York dove rimane per quasi vent’anni, finendo peraltro per essere visto anche in questo ambiente come un tipo originale perché incorruttibile.
Ultime opere e postume
L’ultimo periodo dell’attività di Melville è contrassegnato da un romanzo, Israel Potter (1855), che pubblica a puntate su "Putnam’s Magazine" e che è ambientato all’epoca della rivoluzione americana; nonché dai racconti e dagli sketch finalmente raccolti in volume con il titolo di I racconti della veranda (The Piazza Tales, 1856), in cui compaiono tra gli altri, due composizioni di straordinario valore come Bartleby, lo scrivano (Bartleby, the Scrivener) e Benito Cereno.
Bartleby è un piccolo misterioso capolavoro ed è il ritratto di un impiegato in un ufficio legale di New York, inerte e chiuso in sé in maniera quasi surreale, che finisce in prigione e si lascia morire di fame. Benito Cereno, che a causa della sua ambiguità è stato letto da alcuni come un testo razzista e da altri invece come abolizionista, è anch’esso una delle prove più alte dell’intera carriera di Melville. Cereno è il capitano di una nave negriera spagnola caduta nelle mani dei rivoltosi comandati da Babo, in seguito a un ammutinamento. A raccontare la storia è un candido capitano yankee salito sulla nave durante una sosta al largo delle coste del Cile, ed è attraverso i suoi occhi che Melville guida magistralmente il lettore alla scoperta della verità che si nasconde dietro l’imbroglio.
L’ultimo libro pubblicato in vita è L’uomo di fiducia (The Confidence-Man: His Masquerade, 1857). Ma sarà, anche questo – per il pubblico e la critica – una riscoperta del XX secolo. Oggetto di qualche attenzione in Inghilterra, quando appare nel 1857, viene ignorato del tutto in America. L’azione ha luogo su un battello, Fidèle, che percorre il Mississippi, e L’uomo di fiducia è una farsa deliberatamente sgangherata – cioè composta di schizzi e ritratti che si accavallano e che ricordano lo stile di Rabelais – nella quale è messa alla berlina la nozione stessa di fiducia che sarebbe alla base dell’etica e dello spirito della nazione.
Alla fine della guerra civile Melville pubblica un volume di versi, Pezzi di battaglia: aspetti della guerra (Battle-Pieces and Aspects of the War, 1866), e, dieci anni dopo, un lungo complicato poema gnostico, Clarel: una poesia e un pellegrinaggio in Terra Santa (Clarel: A Poem and a Pilgrimage in the Holy Land, 1876), che rimane lettera morta presso i lettori. Pubblica inoltre, in poche copie e a proprie spese, due volumi di poesie che passano sotto silenzio. Dopo la morte (1891), e dopo la riscoperta dell’intera sua opera, vede la luce l’ultimo grande libro, rimasto inedito fino al 1924. È un altro capolavoro. Si intitola Billy Budd (Billy Budd, Sailor e racconta la storia di un marinaio, amato dall’equipaggio e dal capitano della nave, che colpisce a morte accidentalmente il suo persecutore ed è condannato all’impiccagione. Una sorta di reincarnazione del Cristo che perdona chi lo uccide in ottemperanza alla lettera della legge e contro lo spirito della giustizia.
Le interpretazioni della critica
Dopo un periodo di quasi oblio, Melville è riproposto all’attenzione dei lettori negli anni Venti del XX secolo quando, prima D. H. Lawrence e poi Carl Van Doren e Lewis Mumford ne mettono in luce le qualità artistiche. Da quel momento le sue opere, e non solo Moby Dick, sono oggetto di una riflessione critica sistematica – sottile e talora fin troppo scaltra – che oltre a imporlo, giustamente, come un classico della narrativa lo rappresentano come autore di insolita e stravagante esotismo intellettuale. Come se la sua familiarità con alcuni classici del Rinascimento – a partire da Robert Burton e John Bunyan, nonché dalla Versione Autorizzata di re Giacomo (che era peraltro solo una delle sei traduzioni delle Scritture che Melville teneva sul tavolo) – fossero altro che il normale bagaglio di letture di un letterato della sua generazione.