Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Henrik Ibsen valorizza una tecnica drammaturgica che si rifà alla tragedia greca, in cui il passato viene progressivamente a riaffiorare, per angosciosi trasalimenti, di fronte ai personaggi e al pubblico, e così trasforma il teatro borghese in una scena perturbante sulla quale vengono discussi i problemi sociali ed esistenziali all’insegna dell’assoluta necessità di emancipare l’individuo da un radicale "disagio della civiltà" che lo serra con le sue convenzioni.
All’origine del teatro moderno
Nel 1948, Martin Lamm, tracciando i caratteri della drammaturgia del XIX e XX secolo, definisce l’opera di Henrik Ibsen "la Roma del dramma moderno", perché tutte le strade del teatro partono da lì e lì riportano. A prescindere dal fatto che – dopo Shakespeare – è oggi l’autore più rappresentato al mondo, Ibsen non solo rielabora in termini esemplari la formula del dramma borghese, ma soprattutto riattualizza e rivitalizza un meccanismo e una visione del tragico che risale segnatamente a Sofocle. Infatti – come chiarisce fin dal 1888, il suo biografo, Henrik Jæger – Ibsen non comincia mai un dramma dove inizierebbe un copione normale: “[…] al contrario, esso si avvia da quello che sarebbe il punto conclusivo di un dramma comune. Tutte le ultime opere di Ibsen non sono altro che delle grandi catastrofi finali. La situazione è pienamente definita prima che il dramma incominci; tutti i momenti critici sono alle spalle e scopo del dramma è solo illuminare la situazione data sino alle conseguenze più remote”.
La pulsione anarchica a svelare quello che Sigmund Freud (attento lettore di Ibsen) definirà il "disagio della civiltà" e i suoi meccanismi sociali repressivi; la capacità di costellare i drammi di una simbologia non troppo trasparente eppure intrigante e, soprattutto, di costruire "opere aperte", sul cui esito e significato (quasi mai deciso dal finale) lo spettatore è chiamato in coscienza a prendere posizione, fanno sì che il corpus dei suoi 25 drammi superi – dopo l’incondizionato successo tributatogli dalle cerchie naturaliste e simboliste europee – le contestazioni delle avanguardie novecentesche (più propense allo sperimentalismo dissociato di August Strindberg) e risulti ancora un solido riferimento sia per nuove e audaci rivisitazioni teatrali, sia per comprendere la nostra epoca. Claudio Magris, nell’Anello di Clarisse (1984), riconosce infatti in Ibsen uno dei grandi maestri della sensibilità moderna: “La disillusione di Ibsen ci è più vicina della geniale enfasi di Strindberg; è nel vuoto di quelle parrocchie e di quelle case di campagna norvegesi, col fiordo quasi sempre sullo sfondo della scena ibseniana, che si sente mancare la vita vera”.
Un drammaturgo senza tradizioni
Henrik Johan Ibsen nasce a Skien, nel Telemark, nella Norvegia meridionale, il 20 marzo del 1828. La rovina del padre commerciante lo spinge a impiegarsi in una farmacia di Grimstad, dove, nel 1846, da un rapporto con una serva gli nasce un figlio che abbandonerà, ma dovrà mantenere con pesanti sacrifici negli anni a venire. Dopo gli sconvolgimenti del Quarantotto europeo, che Ibsen segue partecipe, pubblica nel 1849 su "Christiania-Posten" una poesia e porta a compimento il suo primo dramma, Catilina, ispirato da Sallustio e Cicerone. La Norvegia, che vive una condizione semicoloniale, essendo unita al regno di Svezia, ma largamente radicata nella lingua e nella cultura della Danimarca, che l’ha dominata per secoli, non possiede propriamente una tradizione drammaturgica. Ibsen (con Bjørnstjerne Bjørnson) fa in tal senso da apripista e – per quanto immaturo e quasi ossianico – Catilina presenta già delle strutture riconoscibili nelle sue opere successive: un eroe scisso fra due opposte figure femminili (una dolcissima e l’altra violentemente passionale) e, soprattutto, – come puntualizza l’autore nel 1875, presentando una riscrittura del suo dramma d’esordio – il peculiare “conflitto fra capacità e aspirazioni, fra volontà e possibilità, la tragedia e la commedia insieme dell’umanità e dell’individuo”, che fanno sì che questa drammaturgia sia sofoclea nelle strutture, ma modernamente attratta dalla tragicommedia.
Nell’aprile del 1850, Ibsen si trasferisce a Christiania (oggi Oslo) per frequentare l’università: Catilina, pubblicato da poco, gli dà rinomanza negli ambienti studenteschi, nelle cui cerchie collabora, anche come vignettista, a fogli satirici. Ibsen stringe amicizia con Bjørnstjerne Bjørnson e affianca il movimento dei lavoratori di Marcus Thrane, riuscendo in seguito a sfuggire alla sua repressione. Il 26 settembre 1850 debutta al Christiania Theater il suo "poema drammatico in un atto", Il tumulo del guerriero.
L’impegno teatrale
Nel 1851, l’estroso violinista Ole Bull, fondatore del Norske Theater – la prima scena nazionale che si propone di contrastare l’egemonia culturale danese – invita Ibsen a Bergen, in qualità di "drammaturgo e istruttore". Grazie a questo incarico, in un breve viaggio di studio, Ibsen può prendere per la prima volta confidenza con la vita teatrale europea ad Amburgo, Copenaghen e Dresda. Dal 1852, con La notte di San Giovanni, si avvia una produzione di opere romantiche e nazionali, che si dipana con Donna Inger di Østråt (1854), Festa a Solhaug (1855) – in questa fase il suo dramma di maggior successo, che lo farà conoscere anche in Svezia – e Olaf Liljekrans (1857).
Nel settembre del 1857 Ibsen torna a Christiania, dove assume l’incarico di direttore artistico del Norske Theater, un’altra scena nazionale secondaria, che si contrappone con poca fortuna al maggiore Christiania Theater, nel quale prevale la più ferrata cultura scenica danese. Nel 1858, Ibsen sposa Suzannah Thoresen (dalla quale avrà un figlio, Sigurd) e rappresenta nel suo teatro i notevoli Condottieri a Helgeland, tragedia nella quale – pur in un’ambientazione vichinga – appaiono ben sviluppati sia la tecnica drammaturgica retrospettiva, sia il tema, tipicamente ibseniano, della rinuncia all’amore, per convenienza e opportunismo, che scatena nelle vite degli esseri umani una fatale rovina. La stessa idea s’intravede nella Commedia dell’amore del 1862, anno in cui il Norske Theater fallisce, lasciando Ibsen senza una regolare occupazione.
Dalla Norvegia all’Europa
Nel 1864, in seguito a varie richieste e aiutato da una sottoscrizione patrocinata da Bjørnson – dopo avere allestito, per l’ultima volta, in qualità d’istruttore scenico, il suo ultimo dramma, I pretendenti alla corona (1863), al Christiania Theater – Ibsen lascia la Norvegia con una modesta borsa di studio e si trasferisce a Roma, dove scopre la cultura classica. Nel 1866 il suo imponente dramma, Brand – in parte ispirato alla filosofia di Kierkegaard – pone il problema dei limiti morali della volontà umana di fronte alla scelta fra il tutto e il nulla. L’opera viene pubblicata a Copenaghen e solleva notevole interesse. L’anno successivo, è la volta di uno dei lavori ibseniani più notevoli, Peer Gynt, altro fantastico "poema drammatico" ricco di umori esistenziali e satirici, che, per i norvegesi, corrisponde al Faust o alla Divina commedia. Peer Gynt tratta dell’identità umana, nel contrasto tra l’essere pienamente se stessi e l’accontentarsi nel processo di autorealizzazione personale e sociale; chi non riesce a essere neppure "un peccatore nel senso più alto" merita solo l’annientamento nel crogiolo delle anime malriuscite.
Nel 1868 Ibsen si trasferisce a Dresda. L’anno successivo è invitato in Egitto per l’inaugurazione del canale di Suez e, durante questo viaggio, scoppia in Norvegia la contestazione per la rappresentazione della Lega dei giovani, il suo primo dramma realistico e borghese, che viene interpretato come un attacco contro Bjørnson e i liberali. Nell’ambiente germanico e sotto influsso della guerra franco-prussiana, Ibsen è ancora attratto dal grande dramma storico-ideologico e, nel 1873, porta a compimento il vasto affresco in due parti su Giuliano l’Apostata, Cesare e Galileo, che medita da quasi un decennio e che mette a fuoco un altro caratteristico dualismo dialettico: la problematica "conciliazione di dovere e gioia", di Pan (corpo) e (Logos) spirito.
La rivelazione di un nuovo realismo
Nel 1875 il drammaturgo si trasferisce a Monaco e, due anni dopo, pubblica I sostegni della società, opera che, denunciando l’ipocrisia sociale ("Lo spirito di verità e di libertà – questi sono i sostegni della società"), ma sviluppando soprattutto le possibilità del realismo scenico, svela alle nuove generazioni il ciarpame teatrale e la falsità che esibivano le scene europee del tempo.
Nel 1878 Ibsen rientra in Italia, a Roma, e, nell’estate dell’anno successivo, ad Amalfi, termina Una casa di bambola, dramma basato – come ci dicono le note preliminari – sulla convinzione che esistono “due generi di legge spirituale, due generi di coscienza”, quella maschile e un’altra femminile, inconciliabili, anche se alla donna viene applicato dalla società il metro che valuta i comportamenti dell’uomo. Nora “ha commesso un falso e ne è orgogliosa” perché l’ha fatto per salvare la vita del marito Osvald, il quale però, “con i suoi principi banali di onorabilità, è dalla parte della legge e considera la faccenda con occhi maschili”. A conclusione di una convulsa crisi, Nora abbandonerà il coniuge e i figli per mettersi alla ricerca della propria identità di "essere umano". Poiché da questo copione – che all’epoca suscita un acceso dibattito – s’impone l’universale immagine di un Ibsen femminista, è il caso di ricordare le parole dell’autore, in un discorso del 1898 di fronte alla Lega delle Donne Norvegesi, con le quali declina “l’onore di avere consapevolmente lavorato per la causa femminile. […] Per me essa si è posta come una causa dell’umanità. […] Mio fine è stato la descrizione di esseri umani”, rivendicando così di essere "più poeta e meno filosofo sociale".
Nell’ottobre del ’79 Ibsen si stabilisce a Monaco, ma – dal novembre del 1880 sino al 1885 (allorché fa ritorno a Monaco) – risiede di nuovo a Roma. Nell’estate del 1881, a Sorrento, scrive Spettri, teso "dramma domestico", nel quale si denuncia la tenace persistenza, nella morale individuale e sociale, di ogni sorta di "vecchie morte credenze" di cui "non riusciamo a sbarazzarci", ma nel quale si è pure voluto vedere, per la cupa e mirabile sintesi formale, la rinascita della tragedia nella ripresa dei temi del fato e dell’incesto. Il dramma solleva uno scandalo considerevole, ma Ibsen nota in una lettera che il suo testo “segnala solo che il nichilismo fermenta sotto la superficie, in patria e fuori”.
Del 1882 è Nemico del popolo, nel quale si proclama l’orgoglioso individualismo ibseniano ("L’uomo più forte è l’uomo più solo"), e del 1884 L’anitra selvatica, dramma che marca un nuovo orientamento, insieme più psicologico e simbolico, dell’arte del norvegese, che continua e si approfondisce in Rosmersholm del 1886 e La donna del mare del 1888, testi nei quali vibrano gli interessi dell’autore per l’ipnosi, la suggestione e persino l’occultismo e che pongono a diversi livelli il problema di quanta verità possa tollerare la coscienza e, quindi, dell’"acclimatazione" dell’essere umano nei ranghi della morale e della società.
Affermazione e declino
La fama internazionale di Ibsen, a partire dalla sua diffusione in Germania dal 1875 in poi, tocca l’apice nei primi anni dell’ultimo decennio del XIX secolo: nel 1890 André Antoine mette in scena, al Théâtre Libre di Parigi, Spettri; l’anno dopo, Eleonora Duse (che considera il drammaturgo norvegese la sua "buona forza") presenta a Milano Una casa di bambola; dal 1893, il teatro simbolista dell’Œuvre si vota al repertorio ibseniano, ma Hedda Gabler (1890) – dramma intessuto di vaghi echi strindberghiani – viene accolto sfavorevolmente e si comincia a notare qualche cenno di riflusso attorno alla nuova produzione del drammaturgo, che s’inoltra per strade espressive non sempre di facile accesso, almeno per il grande pubblico, con Il costruttore Solness (1892), Il piccolo Eyolf (1894) e lo scultoreo John Gabriel Borkman del 1896, che ingigantisce il monito secondo il quale il più grave crimine che un essere umano possa commettere è quello contro l’autenticità dell’amore e della personalità. In questi drammi, caratterizzati da atmosfere di profondo rimpianto per la vita e le passioni sfuggenti e nei quali i principi degli uomini e delle donne appaiono spesso divaricati e inconciliabili, confluiscono probabilmente le emozioni di alcuni incontri dell’autore, nel 1889, con giovani donne come Emilie Bardach e Helene Raff.
Henrik Ibsen
Spettri, Atto II
SIGNORA ALVING. Hm; chi sa, se questo adesso sia proprio un bene. Ma di tresche con Regine non voglio assolutamente saperne. Non deve rendere infelice quella povera ragazza.
PASTORE MANDERS. No, buon Dio, sarebbe tremendo!
SIGNORA ALVING. Se sapessi che lui ha intenzioni serie e se ciò fosse per la sua felicità.
PASTORE MANDERS. Come? Che?
SIGNORA ALVING. Ma così non è; purtroppo Regine non è quella giusta.
PASTORE MANDERS. Allora, che cosa? Cosa vuol dire?
SIGNORA ALVING. Se non fossi cosi pietosamente vile, come sono, gli direi: sposatela, o mettetevi d’accordo fra di voi; niente menzogne però.
PASTORE MANDERS. Per misericordia! Un matrimonio in forma legale per di più! È terribile! Qualcosa d’inaudito!
SIGNORA ALVING. Sì, dice inaudito lei? Mano sul cuore, pastore Manders; ma crede che in giro nel paese non ci siano diverse coppie di sposi, imparentate altrettanto strettamente?
PASTORE MANDERS. Io non la capisco affatto.
SIGNORA ALVING. Oh sì che mi capisce.
PASTORE MANDERS. Be’, lei pensa all’eventualità che. Sì, disgraziatamente, la vita familiare non è certo sempre pura, come dovrebbe essere. Ma quello, cui si riferisce lei, non lo si può mai sapere, almeno non con sicurezza. Qui invece; che lei, una madre, possa voler accettare che suo!
SIGNORA ALVING. Ma io non lo voglio. Non vorrei accettarlo per nessun prezzo al mondo; è proprio quello che sto dicendo.
PASTORE MANDERS. No, perché è vile, secondo la sua espressione. Ma se vile non fosse! Oh mio Creatore, un’unione così repellente!
SIGNORA ALVING. Sì, del resto discendiamo tutti da unioni del genere, si dice. E chi, poi, ha ordinato così le cose di questo mondo, pastore Manders?
PASTORE MANDERS. Sono problemi che con lei non discuto, signora; lei non ha affatto lo spirito giusto. Ma spingersi ad affermare, che sia viltà da parte sua!
SIGNORA ALVING. Ora deve ascoltare, come sento io. Io sono pavida e timida, perché c’è dentro di me qualcosa di quegli spettri, di cui non riesco mai del tutto a liberarmi.
PASTORE MANDERS. Che cosa chiama lei in questo modo?
SIGNORA ALVING. Qualcosa di quegli spettri. Quando ho sentito Regine e Osvald là dentro, è stato come vedere degli spettri davanti a me. Ma io credo quasi, che noi tutti siamo spettri, pastore Manders. Non è solo ciò che abbiamo ereditato da padre e madre, che ritorna in noi. È ogni specie di vecchie morte opinioni e ogni genere di vecchie morte credenze e cose simili. Esse non vivono in noi; ma intanto sussistono e non riusciamo a sbarazzarcene. Basta prendere un giornale e leggerlo, ed è come se gli spettri strisciassero fra le righe. Devono esistere spettri per tutto il paese. Devono essere fitti come la rena, mi sembra. E per questo abbiamo tutti così pietosamente paura della luce.
PASTORE MANDERS. Ahà, eccolo qui il risultato delle sue letture. Bei frutti davvero! Oh, quegli scritti detestabili, sovversivi, dei liberi pensatori!
SIGNORA ALVING. Si sbaglia, caro pastore. È proprio lei quell’uomo, che m’ha incitato a pensare; e per questo le devo ringraziamenti e gratitudine.
PASTORE MANDERS. Io!
SIGNORA ALVING. Sì, quando ha sottomesso me a ciò che chiama il dovere e l’obbligo; quando ha esaltato come buono e giusto tutto ciò a cui il mio spirito si opponeva, come fosse qualcosa di abominevole. Fu allora che cominciai a esaminare i suoi insegnamenti in tutti i loro risvolti. Io volevo solo tirare un unico filo; ma sciolto quello, si sfilò ogni cosa. E allora mi sono resa conto che questi punti erano fatti a macchina.
Henrik Ibsen, Drammi moderni, a cura di R. Alonge, Milano, Rizzoli, 2009
Henrik Ibsen
John Gabriel Borkman
John Gabriel Borkman, Atto II
BORKMAN. Abbandonata, dici? Capisci certo molto bene che furono ragioni superiori, oppure, altre ragioni, a costringermi. Senza il suo appoggio non mi potevo muovere.
ELLA RENTHEIM (si domina). Così mi hai abbandonata per ragioni superiori
BORKMAN. Non potevo fare a meno del suo aiuto. E lui pose te come prezzo per l’aiuto.
ELLA RENTHEIM. E tu hai pagato il prezzo. Tutto. Senza obiezioni.
BORKMAN. Non avevo scelta. Dovevo vincere o morire.
ELLA RENTHEIM (con voce tremante, guardandolo). Può essere vero, come dici, che allora per te ero quel che di più caro avevi al mondo?
BORKMAN. Sia quella volta sia dopo, a lungo, a lungo in seguito.
ELLA RENTHEIM. E tuttavia m’hai barattata. Hai mercanteggiato con un altro uomo sul tuo diritto all’amore. Hai venduto il mio amore per un -per un posto di direttore di banca!
BORKMAN (cupo e curvo). La stringente necessità mi sovrastava, Ella.
ELLA RENTHEIM (si alza selvaggia e fremente dal sofà). Delinquente!
BORKMAN (trasalisce, ma si domina). È una parola che ho già sentito.
ELLA RENTHEIM. Oh non devi mai credere che alluda a quello che hai potuto commettere contro le leggi dello stato! Dell’uso che hai potuto fare di tutti quei titoli e obbligazioni – o quello che erano, – checché ne pensi, non m’importa! Solo avessi potuto starti vicina, quando tutto ti è crollato addosso.
BORKMAN (teso). Che cosa, Ella?
ELLA RENTHEIM. Credimi, gioiosamente avrei sofferto con te. La vergogna, la rovina, tutto, tutto t’avrei aiutato a sopportare.
BORKMAN. L’avresti voluto? Ce l’avresti fatta?
ELLA RENTHEIM. L’avrei voluto e ce l’avrei fatta. Perché allora non conoscevo il tuo grande, tremendo delitto.
BORKMAN. Quale! A cosa alludi?
ELLA RENTHEIM. Alludo a quel delitto, per il quale non c’è remissione.
BORKMAN (la fissa). Devi essere fuori di testa.
ELLA RENTHEIM (gli va più vicino). Tu sei un assassino! Tu hai commesso il grande peccato mortale!
BORKMAN (indietreggia verso il pianoforte). Devi essere matta, Ella!
ELLA RENTHEIM. Hai ucciso in me la vita dell’amore. (Più vicina a lui) Comprendi, cosa voglio dire? Si parla nella Bibbia d’un peccato misterioso, per il quale non c’è remissione. Finora non ero mai riuscita a capire quale fosse. Ora lo capisco. Il grande peccato senza misericordia, è il peccato di assassinare la vita dell’amore in una creatura.
BORKMAN. E tu dici, che io l’ho commesso?
ELLA RENTHEIM. Tu l’hai commesso. Non mi ero mai ben resa conto di quello che in effetti mi era accaduto prima di stasera. Il fatto, che mi avessi lasciata per scegliere Gunhild, l’avevo ritenuto solo una volgare incostanza da parte tua. E una conseguenza dei suoi spregiudicati maneggi. E credo quasi di averti disprezzato un po’, nonostante tutto. Ma adesso vedo! Hai lasciato la donna, che amavi! Io, io, io! Quel che di più caro, conoscevi al mondo, eri pronto a venderlo per guadagnarci. Questo è il duplice delitto, di cui ti sei reso colpevole! Hai assassinato la tua stessa anima e la mia!
BORKMAN (freddo e controllato). Come riconosco il tuo carattere inquieto, senza ritegno, Ella. Per te è senz’altro normale considerare la cosa, come stai facendo. Tu sei una donna. E tu non riesci a concepire che esista, che valga nient’altro al mondo.
ELLA RENTHEIM. No nient’altro.
BORKMAN. Solo le tue faccende di cuore.
ELLA RENTHEIM. Quelle sole! Quelle sole! Hai ragione.
BORKMAN. Ma non devi dimenticare che io sono un uomo. Come donna eri per me quel che di più caro avevo al mondo. Ma alla bisogna, una donna può scambiarsi con un’altra.
ELLA RENTHEIM (lo guarda con un sorriso). L’hai fatta l’esperienza sposando Gunhild?
BORKMAN. No. Ma la mia missione nella vita m’ha aiutato a reggere anche quello. Io volevo sottomettere per me tutte le fonti del potere in questa nazione. Tutto, quel che la terra e la montagna e i boschi e il mare assemblano di ricchezza volevo soggiogare e creare un dominio per me stesso e con quello il benessere per molti, per molti altri a migliaia.
Henrik Ibsen, Drammi moderni, a cura di R. Alonge, trad. it di F. Perrelli, Milano, Rizzoli, 2009
Nell’agosto del 1891 Ibsen fa definitivamente ritorno a Christiania, dove gli viene attribuita una relazione con la giovane pianista Hildur Andersen. Nel 1898, il suo settantesimo compleanno viene celebrato con solennità in Scandinavia e in Europa e, l’anno dopo, giunge il suo ultimo dramma, Quando noi morti ci destiamo, titolo che richiama il malinconico nucleo concettuale del testo: “L’irreparabile lo vediamo solo, quando – […] Quando noi morti ci destiamo. […] e cosa vediamo in realtà? Vediamo che non abbiamo mai vissuto”.
Il 23 maggio 1906, Henrik Ibsen muore dopo una lunga infermità.