IBSEN, Henrik
Poeta norvegese, nato a Skien il 20 marzo 1828, morto a Cristiania il 23 maggio 1906: considerato nel suo tempo come il più profondo interprete dei conflitti morali e sociali della coscienza moderna; in realtà, per il tono severo e cupo della sua spiritualità, non comprensibile fuori del suo mondo nordico.
Natura dotata di potente vitalità ma chiusa, taciturna, senza altri rapporti che di contrasto e di lotta. Bimbo, che dell'infanzia portò nella vita quasi soltanto la visione allucinata della piazza dove sorgeva la sua casa a Skien o il ricordo indignato della vigliaccheria dei falsi amici che, dopo il fallimento del padre nel 1836, abbandonarono la famiglia; adolescente che a Grimstad, garzone di farmacia (1844-49), mentre dosava ricette e risparmiava il soldo per aver modo di riprendere gli studî, s'infiammava di disprezzo contro Cicerone "avvocato delle maggioranze" e s'esaltava su Sallustio, riversando i suoi entusiasmi rivoluzionarî in un dramma su Catilina (ed. 1850), che svolge il motivo: - "Che cos'è la vita altro che una battaglia?" -; studente a Cristiania che, nella Studentfabriken di Mastro Heltberg, insieme con Botten-Hansen e A. O. Vinie, pubblicava un foglio settimanale satirico-rivoluzionario Andhrimner (1851) sul tipo del Corsaro di Goldschmidt e, anche poetando, amava "poetar col martello"); giovane direttore del Nationaltheater a Bergen (1851-1857), che mentre imparava il mestiere su Scribe e portava sulla scena oltre alle proprie composizioni, un centinaio di drammi e commedie, si manteneva corrucciatamente in disparte in sdegnoso isolamento; direttore del Norske Theater e poi libero scrittore a Cristiania (1857-1864), che "non batteva ciglio né moveva costa" nel vedere il suo teatro precipitare verso il fallimento (1862), e, pur senza condividerne le idee conservatrici, si aggregava al gruppo riunito intorno a Botten-Hansen e all'Illustreret Nyhedsblad, soltanto perché anche quelli erano come lui dei malcontenti, acri e scettici verso il presente, in urto con i proprî tempi: per più di trent'anni, nell'età in cui la vita è confidenza ed entusiasmo, dappertutto portò la stessa disposizione d'animo amara, ostinata, ostile. Le seduzioni stesse del cuore poterono appena sfiorarlo: l'idillio che avviò a Bergen con una giovinetta sedicenne, Rikke Holst, si spezzò al primo incidente; lo stesso amore per Magdalene Thoresen, la quale divenne la devota, coraggiosa compagna della sua vita, fu, più che un'esperienza di passione, l'affettuosa scelta di una buona moglie. Era uno di quegli uomini, nei quali l'eccesso medesimo di forze latenti e l'oscuro sentimento dell'opera da compiere creano uno stato interno di compressione che impaccia ogni naturale processo di svolgimento; e non sapeva vivere: gettava invano fra sé e la vita, come ponte levatoio, i suoi ragionamenti, e applicava alle cose la troppo grande misura delle proprie veementi ambizioni spirituali.
E anche nella poesia i fantasmi più vivi furono quelli in cui egli rispecchiò questa sua ansia di grandezza, sempre cozzante contro l'impossibile. La signora Inger di Östrat (Fru Inger til Östrat, 1855, ed. 1857), che si è assunta una più che femminea missione e cede, piegata dall'amor materno, e accumula rovine su rovine sulla sua famiglia, e infine, nell'esasperazione, è causa di morte anche per il figlio che voleva salvare; la signora Margit a Sölhaug (Gildet paa Sölhaug, Il banchetto a Sölhaug, 1855, ed. 1856), che nella ricchezza della sua ardente natura, legatasi a un uomo mediocre, s'ammala internamente nel sentimento del vuoto della sua vita, ed è portata dalla sua inquietudine fino alla soglia del delitto; la demoniaca Hjördis (Hørmøndene paa Helgeland. I guerrieri a Helgeland, 1857; ed. 1858; in ital. nota col titolo "La spedizione nordica": composta negli stessi anni in cui anche Wagner e Hebbel in Germania rinnovavano il mito nibelungico) che, vivendo nella sua nordica elementare natura la tragedia della Valchiria ingannata, cerca, nella morte di Sigurd e nella propria, la pienezza di destino che la vita le ha negato - tutte sono incarnazioni di un'oscura istintiva "volontà di potenza", ugualmente estrema nel bene e nel male. Il mondo della saga antica non è più soltanto - come nelle tragedie di Oehlenschläger e come in altri componimenti giovanili minori di I. stesso: Kjømpehöien, Il tumulo dell'eroe, 1850; Sanct Hansnatten, La notte di S. Giovanni, 1853: Rypen i Justedalen, 1850, rifatto più tardi in Olaf Liljekrans, 1856; ecc. - un vago mondo di romantica poesia ma un'etica realtà: la stessa etica realtà, al cospetto della quale, nella Kjørlighedens Komedie (Commedia dell'amore), 1862, gl'idealismi sentimentali di Falk verso la sua Ivanhild, la prolifica matrimoniale convivenza del pastore Stockmann con la sua Maren, le pose convenzionali di Lind con la sua Anna, l'amore cosiddetto poetico e il matrimonio di convenienza comparvero - con universale scandalo - posii sullo stesso piano, sommersi in una stessa onda di ridicolo. Il peggio nel mondo non è che ci sia il male, ma che nel bene e nel male, con la sua vita di continui compromessi, l'uomo sia così piccolo! Il vero dramma nella vita - il solo dramma che è degno di tale nome - è quello formulato da re Skule in Kongsemnerne (Pretendenti alla corona, 1863): "questa è la maledizione che pesa sopra di me: esser vicino a ciò che di più alto esiste - non c'è che un abisso in mezzo - e non c'è che un salto per trovarsi dall'altra parte - e dall'altra parte è il titolo di re, il manto purpureo, il trono, la potenza, tutto - e invece io non ci giungo mai". La figura di re Skule, in cui la coscienza critica e il dubbio approfondiscono la personalità ma minano le forze per l'azione, contrapposta nel dramma alla figura di re Haakon, che crede invece in sé e nella sua idea e alfine trionfa, è come un atto di accusa di Ibsen contro sé stesso; e la figura dello Scaldo Jatgeir, accanto a re Skule, accentua ancora maggiormente, con le sue arcane parole sul mistero dell'arte, questo accento personale della poesia.
Ciò che impedisce a gran parte di questa prima opera di sollevarsi, tranne in singoli momenti, al disopra della - sia pur alta - esercitazione letteraria, è la mancanza di libertà spirituale nel poeta di fronte alla materia trattata e alla propria esperienza. Il superamento definitivo dell'uomo nel poeta e la conquista dell'universalità della poesia furono - come in quei medesimi anni confessava nei riguardi di sé stesso Björnson - il dono dell'Italia: dove I. poté scendere nel 1864 con la pensione dello stato tante volte richiesta invano, e dove rimase ininterrottamente per quasi cinque anni fino al 1868. Gli coceva in cuore la ferita per il crollo dell'idea scandinava, quando la Danimarca era stata lasciata sola in una guerra impari con la Prussia (1864); e anche a Roma, più che mai, il suo pensiero continuò a restar legato al suo paese, ma a Roma, fra tanta storia del passato e tanta nuova storia in formazione - anche a quest'ultima egli fu sensibile - imparò a contemplar la vita in spirituale distacco da sé medesimo, considerando ogni fatto particolare, e anche la propria passione, sub specie aeterni, per trarne immagini di umana verità.
E i frutti furono: Brand (1866) e Peer Gynt (1867): miti della sua propria anima, libere creazioni della fantasia, anche se nel primo di essi abbia trovato eco l'Enten-Eller (Aut-aut) di Kierkegaard, e al secondo abbia offerto lo spunto una fiaba popolare norvegese compresa da P. Ch. Asbjörnsen nella sua raccolta. "Tutto o nulla" è il motto di Brand; e la vita è nel poema della sua passione una volontà inflessibile, protesa verso l'assoluto: qualunque sacrificio costi all'uomo "essere sé stesso", non c'è via di mezzo: l'imperativo della coscienza suona implacabile: muore a Brand la moglie, Agnese, muoiono la madre, il figlio; ma Brand non può cedere; e Gerd sola, folle e veggente, spirito dei monti in cui l'umanità è ancora natura, gli rimane infine accanto, lassù, fra le solitudini dei ghiacciai dove egli ascende verso il suo Dio, finché la valanga precipita sopra di lui e lo travolge. Il poema, concepito a Roma in S. Pietro e scritto in gran parte ad Ariccia, ma sotto l'impressione viva dell'arte di Michelangelo, è indubbiamente la più monumentale espressione che I. abbia dato allo slancio ideale del suo spirito. Ma la voce del "Deus caritatis", che dall'alto risuona al calar del sipario sopra quel mondo dove la "caritas" è ignota, mostra come esso sia anche la coscienza dell'inesorabilità della tragedia, in cui la vita va distrutta. Ed è da questo punto di vista soltanto che si può comprendere, nella sua vera sostanza lirica, il Peer Gynt. Il quale è, sì, il rovescio di Brand, come tante volte si è ripetuto: è la debolezza, fiacchezza, inconsistenza dell'uomo quand'è privo di una volontà ideale. "Guai se si tirano le somme di una tale vita!". È come "sgusciare una cipolla": non ne resta nulla! E I. non ha riguardi, né verso sé né verso i suoi connazionali, nel colpire con la sua satira questa che gli sembra la malattia del suo tempo. Ma Peer Gynt è, insieme, anche un'altra cosa, pur così naturale nell'uomo: l'istintivo desiderio di abbandonarsi ai proprî impulsi, di sognare, di vivere. Come dolcemente quel figliuol prodigo sa accompagnare, con le sue visioni di fiaba, la madre, Aase, nel sonno della morte! "Della mia vita - dice a lui anche Solveig alla fine del poema - tu hai fatto un solo lungo canto!". Dopo aver percorso tutto il mondo - "oh! profonda tristezza! oh! miseria senza fine!" - quando egli "riporterà morendo il piede a casa", sarà più povero di quando n'era partito. Ma prima che egli scenda nella tomba e sulla sua tomba sia scritto: "Qui giace sepolto Nessuno!" I. lo fa salire ancora una volta sulla cima del monte, e lascia che ancora una volta i suoi occhi si inebriino della bellezza del mondo "fissando lo sguardo, dinnanzi al sole che sorge, sulla terra benedetta da Dio". Sullo sfondo oscuro di una satira senza misericordia, il poema - come nessun altro di I. - è uno zampillar continuo di melodie e di canti.
"Libri, sempre libri - esclamerà anche Giuliano l'Apostata in Kejser og Galiløe (Cesare e Galileo, 1873) - Pietre invece di sangue! Ma io non voglio libri! Di vita ho sete io! Io voglio vivere con lo Spirito: guardarlo a viso a viso!". Sotto la tragedia di Brand e sotto la tragicommedia lirica di Peer Gynt è lo stesso insopprimibile grido dell'anima che in sé tutte e due le comprende e le unifica: ed è perfettamente comprensibile che anche per il nuovo dramma I. vi abbia trovato la sorgente della sua ispirazione. O l'uomo perde sé stesso o, quando vuole sé stesso, distrugge la vita. E non c'è salvezza. Al "terzo regno", che Giuliano sogna come sintesi delle contrastanti forze a cui l'uomo è in preda, "non sono maturi i tempi", Giuliano stesso non è maturo. Se una soluzione vi è al tragico dilemma in cui si dibatte invano il "cartaceo imperatore", "figliastro di Dio sopra la terra", non può essere che una: chi vuole agire sopra la vita, deve esserci in mezzo, non "gettare su di essa il capestro delle proprie astrazioni". Brand deve scendere nel mondo di Peer Gynt, e restar "fedele a sé stesso" ugualmente, sopportandovi, qual ch'essa sia, la sua tragedia.
E fu ciò, precisamente, che I. fece con tutto il resto della sua opera. Si gettò nella mischia, direttamente misurandosi a tu per tu col suo tempo. E da Dresda (1868-1874) e poi da Monaco e - alternatamente - da Roma (1875-1891), per tutta una lunga serie di anni, ogni nuovo dramma che lanciò nel mondo - Kejser og Galiløer è ancora un'ultima eco del primo soggiorno romano - fu una battaglia. "L'indignazione - dice una celebre lettera a Björnson del 1867 - moltiplica le mie forze. Vogliono la guerra: farò la guerra". E fu la guerra, senza pietà. Riunite in un volume le sue liriche (Digte, Poesie 1871), a cui nel corso degli anni non molte altre si aggiunsero, abbandonò per sempre nel suo teatro le forme metriche; per combattere nella realtà, si servì della lingua stessa della realtà, nel suo tono parlato, immediato: la prosa.
Già negli eloquenti giambi della Commedia dell'Amore aveva colpito con la sua satira gli "eroi della frase": ora - mirando a Björnson contro di cui, dopo le discussioni suscitate dal Peer Gynt, aveva del risentimento riprese in più acre tono la satira con De Unges Forbund (La lega della Giovinezza, 1869): rappresentazione caricaturale della nuova generazione, radicale progressista, entusiasta, che, attraverso la figura centrale dell'arrivista Stensgaard, viene accusata di mascherar soltanto con le belle parole l'interna disonestà e ambizione. Una cosa prima di ogni altra gli pareva necessaria: ricondurre gli uomini sul duro terreno della verità di sé stessi. Occorreva svelare le "menzogne sociali", le "false apparenze", le "ipocrisie convenzionali", i "mentiti sentimenti". Björnson aveva descritto con pathos in Un fallimento (1875) la borghese catastrofe d'una famiglia; I. gli oppose in Samfundets Stötter (Le colonne della società, 1877) la cruda rappresentazione di tutto il marciume morale che era in fondo alla vita e non poteva - malgrado l'effimera potenza raggiunta dal console Bernick - non provocare alfine la rovina, nella quale è la sola possibilità che ancora rimane di spirituale rigenerazione. Il problema della posizione della donna nella società era uno dei punti più delicati e sensibili; ed egli l'affrontò, senza arretrare dinnanzi a nessuna conseguenza, in Ett Dukkehjem (Casa di bambola, 1879; 1° abbozzo, Roma 19 ottobre 1878) e rappresentò nella donna - Nora - un'anima viva, che si ribella a essere considerata soltanto come un oggetto di lusso, il più prezioso di tutti, e ha diritto ad aver la sua vita e ha il dovere di viverla e, quando riconosce che a fianco del marito - il fiacco uomo schiavo di tutte le convenzioni - ciò non le è più possibile, se ne va per la sua via, sola, verso il suo destino e verso la verità di sé stessa. Era un gesto rivoluzionario, destinato a suscitare la più violenta tempesta; e I. lo sottolineò ancora facendo che Nora abbandoni anche i figli. Il positivismo aveva impostato il problema dell'ereditarietà nel campo fisiologico; egli lo investì con la sua passione; lo trasportò nel campo sociale, morale con Gengangere (I morti che tornano, 1881; noto in Italia col titolo Gli spettri; composto in un mese, fra il 25 settembre e il 24 ottobre, a Sorrento), dove l'eroe principale non è Osvaldo, come l'interpretò Zacconi, ma la signora Alving; e "i morti che tornano" non sono soltanto le malattie dei padri che si scontano nei figli, ma tutte le idee, convenzioni, consuetudini, false sensibilità del passato che incombono sul presente, e vi creano un'atmosfera avvelenata in cui le forze della vita si corrompono, e infine alla signora Alving, impietrita dalla pena al fianco del figlio che muore invocando il sole, altro non resta che porgergli, con mano tremante, nella piccola fiala, il veleno, ultima e sola liberazione. Simile a una nave, dove la vita si svolge sotto un incubo, perché "la nave porta un cadavere a bordo", è anche la società. E deve gettare da sé ciò che ne è il peso morto. Interessi sentimentali, interessi materiali vi si possono opporre; ma è necessità inesorabile, dinnanzi a cui è viltà arrestarsi o arretrare; e al dottor Stockman, nel dramma En Folkefiende (Un nemico del popolo, 1882) non importa di esser fatto oggetto di odio e di vituperio e di restare solo a combattere anche senza speranza: "colui che è più solo, è colui che è più forte".
Indubbiamente la polemica vizia, dal punto di vista dell'arte, questi drammi nella loro interna struttura; e oggi, a distanza di tempo, non si può negare che ci si sente talvolta una materia rimasta legata al momento storico in cui i drammi stessi sono sorti, non risolta interamente nell'universalità della poesia. Ma l'istinto del poeta creatore era tuttavia così potente da sovrapporsi spesso alla polemica. Ed è singolare come in tutti i momenti in cui la poesia diventa vera e vitale - e in Ett Dukkehjem e in Gengangere tali momenti sono particolarmente frequenti - sempre l'ispirazione, in antitesi con la polemica, attinse in profondità - come già in Brand e in Peer Gynt - a un sentimento romantico della vita, come di un mistero eterno che si rinnova in ogni umana creatura e rende sacra, nella sua più intima verità, ogni anima.
Quando tale sentimento, sgombrato ogni ostacolo d'interessi passionali immediati, poté effondersi con pienezza nella poesia, e, col succedersi d'ogni nuovo dramma le nuove esperienze spirituali condussero il poeta a penetrare sempre più a fondo entro "la labirintica natura del cuore umano", e l'indignazione contro il male del mondo cedette alla pietà verso l'umana sofferenza, allora nacquero i capolavori: Vildanden (L'anitra selvatica, 1884: concepita e incominciata a Roma il 20 aprile; terminata a Colle Isarco il 2 settembre); Rosmersholm (1886: concepito dapprima col titolo I cavalli bianchi; condotto a termine fra il gennaio e il settembre a Monaco, dopo un viaggio in Norvegia nell'estate del 1885); Hedda Gabler (1890: scritta a Monaco in una prima stesura dalla metà d'agosto al 7 ottobre; terminata nella stesura definitiva il 15 novembre).
In questi drammi è bensì ancor pesato con la bilancia il bene e il male degli uomini; ma nella sua fatale commistione di bene e di male, la vita, pur toccando l'ultimo fondo della sua miseria e del suo oscuro destino, s'illumina di un'arcana luce di spiritualità e si trasfigura. Come uno strano e stanco mondo creato in virtù d'un sortilegio pauroso e mirabile compare, in Anitra selvatica, tutto il mondo di casa Ekdal, dove la vita stagna fra rottami di naufragio, disfacendosi in una dissoluzione senza più nessuna resistenza, eppure ogni parola che si pronuncia, sebbene sia intrisa di colore di realtà, ha una risonanza di mistero e un valore di simbolo come se il senso ultimo di ciò che succede sia al di là di ciò che si vede, in un'occulta verità in cui ogni errore, espiandosi, si redime: tutto quel mondo precipiterà; e la piccola Hedwig, che è la vita ancora immacolata, in primo sboccio, sarà fatalmente, nella sua innocenza, colei che ne provocherà lo sfacelo; ogni lembo di sogno ancora rimasto si spegnerà: morirà l'anitra selvatica: anche la piccola Hedvig dovrà morire; ma quale delicato miracolo, così sulla soglia della morte, appare, in quei languori di tramonto, la vita! Ai tempi del Brand I. si era proposto il superbo compito d'insegnare al suo popolo "a pensare e a vivere con grandezza". Ora ha abbandonato la lotta. La realtà è quella che è: impura, e non ci può essere purità, grandezza fuorché nelle anime. Ma questa è la grandezza più vera. Anche Rebekka West, la creatura della realtà con la spontaneità e cecità dei suoi impulsi, poiché è giunta in casa Rosmer, non ha potuto sottrarsi al misterioso potere della purità spirituale, che in casa Rosmer si respira; e infine ne resta rinnovata la sua anima, spoglia di ogni appetito torbido, pronta a ogni dono di sé e a ogni sacrificio: respinti dal mondo della realtà, dove non c'è posto per chi ha fatto sua natura di esser così nella vita, "senza colpa, puri", Rebekka e Rosmer percorreranno "la sola via" che loro è aperta, quella che già la prima moglie di Rosmer, Beata, ha percorso e che conduce alla morte. Tutto il dramma di Romersholm è d'una tristezza senza fine; ma, con quell'ebbrezza d'anime che da capo a fondo lo pervade, è un dramma che santifica la vita. Solo il dramma di Hedda Gabler sembra offrir contrasto a questo tristemente sereno, leopardiano atteggiamento dello spirito: specialmente se lo si consideri nella sua antitesi con la soluzione più borghese del dramma che immediatamente lo precedette: Frue fra Havet (La donna del mare, 1888). Ma, nella poesia in cui I. l'ha fatta vivere, Hedda Gabler non è "un caso patologico", come alcuni critici hanno creduto di intenderla. La sua tragedia e la sua grandezza è nella sua inconciliabilità col mondo mediocre o brutale che la circonda. Collocata dal destino accanto a un professore intento a infilare schede in attesa d'una cattedra universitaria, essa è un'incarnazione della vita con l'elementarità delle sue forze, con l'elementarità del suo bisogno di espansione. E non comprende gli altri e dagli altri non può esser compresa, così che vivere non può esser più che soffrire e far soffrire: finché un colpo di pistola la salverà "in una bella morte", quando le onde salienti della volgarità minacceranno di ghermirla e di travolgerla. Simbolo umano della bellezza e della forza che si corrompono e pervertiscono nell'inutilità del loro impeto vano verso la vita, essa s'innalza, enigmatica, col suo chiuso tormento, al disopra della piatta realtà che la circonda, come una figura antica, veramente, di mito.
Fra le molte contraddizioni di cui è ricca la storia spirituale del sec. XIX, è anche questa: i più passionati negatori della vita nel mondo del pensiero, furono - da Byron a Wagner - per lo più uomini che alla vita si concessero esperimentandola in sé insaziabilmente, fino al suo ultimo fondo: i più decisi assertori della vita furono invece - da I. a Nietzsche - degli uomini schivi, concentrati in sé medesimi, chiusi nelle solitudini della loro fantasia e del loro pensiero. Nietzsche vi trovò l'ultima interna tragedia e la follìa. E tutti gli ultimi anni di I. furono dominati dal cocente pensiero di avere - nel suo esclusivo sforzo di comprendere e di creare - lasciato passare la vita senza viverla. Già nella Donna del mare - tanto nell'insistente richiamo verso il mare e la solitudine degli elementi, quanto nella mite conciliante scoperta dell'infinità di un cuore umano - si sente un'anima stanca che s'abbandona a un interiore bisogno di silenzio e di pace.
E tutte le opere che seguirono al suo ritorno in patria nel 1891 sono intonate su questa riflessione elegiaca. Bygmestere Solness (Il costruttore Solness, 1892): riconoscimento sconsolato della vanità di ricominciare la vita e la creazione, quando le forze della vita già cadono, anche se un soffio di giovinezza improvvisamente accenda ancora una volta nel cuore la suprema illusione; Lille Eyolf (Il piccolo Eyolf, 1894): confessione intima e travagliata, tutta intessuta di esternamenti stanchi e pensieri di morte: visione allucinata d'un mondo malato dove la vita, senza più capacità di slancio, è sospesa a un filo appena d'illusione o se ancora s'accende d'un'improvvisa fiamma, è per un guizzo effimero di voluttà dei sensi, e la parola di fede che, dopo la morte del bimbo, pare concedere a Rita e Allmers di ricominciare l'esistenza, ha un suono e un accento di rassegnazione; J0hn Gabriel Borkman (1896): atto di accusa grandioso contro sé stesso e quasi inebriamento, in immagini nere di potenza e di morte, con la visione dell'ultimo esasperato sforzo di una titanica volontà che, con improvviso impeto, sui limiti della morte, si esalta e si spezza; Naar vi döde vaagner (Quando noi morti ci destiamo, 1899): atto di accusa ancora più amaro, dove il sacrificio della vita che l'artista - Rubek - ha fatto alla sua arte appare come un sacrificio non soltanto di sé ma degli altri, come un omicidio di anime a cui egli non aveva il diritto. Anche nelle parti in cui i drammi non son grandi per viva potenza d'arte, restano grandi come documenti di umanità.
Colpito da paralisi nel 1900 I. visse ancora sei anni.
Ediz. e trad.: Samlede Vørker, ed. J. B. Halvorsen, voll. 10, Copenaghen 1909; Samlede Digter-Vørker, ed. D. A. Seip., voll. 7, Oslo 1919; Samlede Skrifter, ed. del centenario a cura di D. A. seip e F. Bull, 20 volumi, Oslo 1928 e segg.; Breve, ed. H. Koht e J. Elias, voll. 2, Copenaghen 1904. Fra le versioni tedesche quella di G. Brandes, I. Elias, P. Schlenter, in 10 voll., Berlino 1898-1905; poi riveduta e accresciuta di 4 voll. di Nachgelassene Schriften, a cura di J. Elias e H. Koth, Berlino 1907 e segg.; e seguita da una buona scelta in edizione popolare, a cura di J. Elias e P. Schlenther, voll. 5, Berlino 1907. Fra le versioni inglesi v. quelle di W. Archer, Collected Works, voll. 11, Londra 1906-08; e di A. Orbeck, ancora incompleta, in Scandinavian Classics, Londra 1921. Fra le traduzioni francesi v. quelle di M. Prozor, Parigi 1889; P. G. La Chesnais, Parigi 1914 segg.; e del Colleville, Parigi 1920 e segg. In italiano v. Il Teatro di Ibsen, voll. 16, Milano 1892 e segg.; e numerose traduzioni di opere singole a cura di P. Ottolini, A. Ahnfelt, L. Zini, ecc. In spagnolo v. quelle di Pellicana, Madrid 1921 e segg.
Bibl.: Cfr. J. Ten Eyck Ferikins, H. I. A. bibliography, New York 1921; la bibl. di J. B. Halvorsen in Norsk Forfatterlexikon, III, 1890 e la bibliografia aggiunta di A. Farinelli in La tragedia di Ibsen, Bologna 1923; F. Meyer, Ibsen-Bibliographie, Brunswick 1928; E. v. G. Brandes, H. I., Copenaghen 1898; e Berlino 1906; H. Jaeger, H. I. og hans Vørker, Cristiania 1892; H. Lindgren, H. I., Stoccolma 1903; G. Gran, H. I,. voll. 2, Oslo 1918; E. Kihlman, Ur Ibsen-dramatikens idéhistoria, Helsinki 1921; S. Höst, H. I., nuova ediz., Stoccolma 1927; H. Kohl, H. I., Oslo 1928; e, per i rapporti con Björnson, C. Collin, B. Björnson, Cristiania 1902-07. In Germania v. H. Bahr, H. I., Vienna 1887; O. Brahm, in Kritische Schriften, I, Berlino 1913; L. Berg, H. I., Colonia 1901; B. Litzmann, I.s Dramen, Amburgo 1901; R. Lothar, I., Lipsia 1902; P. Ernst, H. I., Berlino 1904; B. Kahle, I. und Björnson, Lipsia 1908; G. Neckel, I. und Björnson, Lipsia 1921; W. Hans, I.s Selbstportrait in seinen Dramen, Monaco 1911; E. Mauerhof, I., der Romantiker des Verstandes, Halle 1908; E. v. Aster, I. und Strindberg, Monaco 1923; e, particolarmente, O. Walzel, in Vom Geistesleben des 18 u. 19 Jhs., 2ª ed., Lipsia 1922; E. Reich, I.s Dramen, 13ª ed., Berlino 1919; R. Woerner, H. J., 3ª ed., voll. 2, Monaco 1923. In Inghilterra, oltre ai saggi di W. Archer, v. B. Shaw, The Quintessence of Ibsenism, Londra 1891; 3ª ed., 1913; E. Gosse, I., Londra 1908; O. Heller, H. I., Boston 1912; A. E. Zucker, I., the Master builder, New York 1929. In Francia v. A. Ehrhard, H. I. et le théâtre contemporain, Parigi 1892; A. Suarès, I., in Trois hommes, Parigi 1913; W. Berteval, Le théâtre de H. I., Parigi 1912. In Italia v., oltre al vol. di Farinelli cit., G. M. Scalinger, I,. Napoli 1895; L. A. Schiavi, Ibseniana, Roma 1903; E. Giglio Tos, La morale nel teatro di I., Torino 1904; S. Sighele, La donna nel teatro di I., Milano 1913; B. Croce, I., in La Critica, 1921; G. Gabetti, in Letterature Scandinave, Padova 1926; S. D'Amico, I., Milano 1928; e, particolarmente, S. Slataper, I., Torino 1916.