Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il richiamo all’immediatezza dell’esperienza interiore è il punto di partenza della riflessione di Henri Bergson, che, nell’arco della sua opera, definisce una filosofia della durata e della vita in grado di oltrepassare l’opposizione tra materia e spirito tipica della tradizione spiritualista, inaugurando una stagione nuova del pensiero francese ed europeo che si protrarrà per tutto il XX secolo.
Il primo Bergson: la durata e la vita della coscienza
Henri Bergson
Percezione del tempo
L’evoluzione creatrice
Se voglio prepararmi un bicchiere d’acqua zuccherata, per quanto possa darmi da fare, devo aspettare che lo zucchero si sciolga. È un piccolo fatto ricco d’insegnamenti. Il tempo che devo aspettare non è più infatti il tempo matematico che può applicarsi a tutto il corso della storia del mondo materiale, anche se si dispiegasse simultaneamente nello spazio. È un tempo che coincide con la mia impazienza, cioè con una certa porzione di quella che è la mia durata e che non può allungarsi o contrarsi a piacere. Non è più qualcosa di pensato, ma è qualcosa di vissuto. Non è più una relazione, ma è qualcosa di assoluto. E che cosa significa questo, se non che il bicchiere d’acqua, lo zucchero e il processo di soluzione dello zucchero nell’acqua sono appunto delle astrazioni, e che il tutto entro il quale sono stati ritagliati dai miei sensi e dal mio intelletto procede, magari, allo stesso modo di una coscienza?
H. Bergson, L’evoluzione creatrice, trad. it. di F. Polidori, Milano, Cortina, 2002
Henri Bergson
Il possibile e il reale
La filosofia avrà il vantaggio di trovare qualcosa di assoluto nel mondo mutevole dei fenomeni, ma anche noi avremo il vantaggio di sentirci più felici e più forti. Più felici perché la realtà che si inventa davanti ai nostri occhi offrirà a ciascuno, senza sosta, quelle soddisfazioni che l’arte procura, di tanto in tanto, ai privilegiati della fortuna. Ci scoprirà al di là della fissità e della monotonia che i nostri sensi ipnotizzati dalla costanza dei nostri bisogni percepivano inizialmente, la novità senza sosta rinascente, la mutevole originalità delle cose. Ma saremo soprattutto più forti, perché ci sentiremo di partecipare, creatori di noi stessi, alla grande opera di creazione che è all’origine e che si produce continuamente sotto i nostri occhi. La nostra facoltà di agire, cogliendo di nuovo se stessa, si intensificherà. Umiliati fino a quel punto in una attitudine di obbedienza, schiavi di non so quali necessità naturali, ci risolleveremo, autori uniti a un più grane Autore. Tale sarà la conclusione del nostro studio. Guardiamoci dal vedere un semplice gioco della speculazione sui rapporti del possibile e del reale. Può essere un prepararsi a vivere bene.
H. Bergson, Pensiero e movimento, trad. it. di F. Sforza, Milano, Bompiani, 2000
Henri Bergson
L’evoluzione creatrice, cap. III
Agli occhi di una filosofia che si sforzi di riassorbire l’intelligenza nell’intuizione, molte difficoltà potrebbero dunque svanire o attenuarsi. Ma una dottrina di questo genere non facilita soltanto la speculazione: ci dà anche più forza per agire e per vivere. Grazie a essa infatti non ci sentiamo più isolati nell’umanità, né più l’umanità ci sembra isolata all’interno della natura su cui domina. Come il più piccolo granello di polvere è in rapporto con l’intero nostro sistema solare, trascinato con esso in quell’indistinto movimento di discesa che è la materialità stessa, allo stesso modo tutti gli esseri organici, dal più umile al più elevato, dalle prime origini della vita sino ai giorni nostri, in ogni luogo e in ogni tempo, non fanno che rendere manifesto un unico e indivisibile impulso che si oppone al movimento della materia. Tutti gli esseri viventi si aggrappano e si abbandonano alla stessa formidabile spinta. L’animale si appoggia alla pianta, l’uomo cavalca l’animalità, e l’umanità intera, nello spazio e nel tempo, è un immenso esercito che galoppa al fianco di ciascuno di noi, avanti e dietro a noi, in una carica irresistibile capace di sbaragliare tutte le barriere e di superare un’infinità di ostacoli, forse anche la morte.
H. Bergson, L’evoluzione creatrice, trad. di F. Polidori, Milano, Fabbri Editori, 2002
In un clima filosofico segnato dal fronteggiarsi dei difensori del positivismo e dello spiritualismo prende forma il pensiero di Henri Bergson, filosofo di origini ebraiche la cui vita si colloca esattamente a cavallo tra Otto e Novecento (1859-1941) e che rinnoverà profondamente lo spiritualismo dei suoi predecessori. L’opera bergsoniana prosegue inizialmente le critiche al positivismo già avviate dagli spiritualisti sul terreno della psicologia: nel Saggio sui dati immediati della coscienza (1889, trad. it. 1951) egli lamenta in particolare l’insufficienza delle analisi associazioniste delle sensazioni, secondo cui i progressi e i mutamenti psichici sono ridotti a sequenze misurabili quantitativamente, privati di ogni elemento qualitativo o di intensità affettiva. Per Bergson la tendenza della psicologia associazionista di Wilhelm Wundt a ridurre l’intensità degli stati di coscienza alla loro estensione non è che un riflesso del paradigma scientifico dominante della fisica meccanicistica, che porta a confondere l’eterogeneità delle qualità sensibili con la realtà omogenea e quantitativa dello spazio.
Bergson riconosce insomma nella scienza contemporanea un’ossessione spazializzante, la cui denuncia sarà un motivo ricorrente della propria filosofia: il fraintendimento della dimensione temporale è infatti posto all’origine di ogni interpretazione deformante della realtà. Per rispondere alle esigenze utilitaristiche della scienza, il tempo viene ridotto a una dimensione meramente omogenea e quantificabile, ovvero a una sorta di quarta dimensione dello spazio, divisa in istanti esterni gli uni agli altri e privata dei suoi tratti qualitativi e puramente eterogenei. Al tempo della scienza Bergson contrappone la “durata” (durée), sperimentata dalla coscienza come continuo fluire vivente e imprevedibile. La molteplicità dei momenti che la compongono è simile all’interpenetrarsi delle note di una melodia o a un essere vivente in cui la totalità organica precede la molteplicità distinta delle parti. La vita della nostra coscienza appare così sotto un duplice aspetto, a seconda che la si percepisca direttamente o la si rappresenti attraverso le rifrazioni dello spazio: vi sono insomma un io reale, concreto, che vive nella durata, e una sua rappresentazione simbolica e frammentaria, proiettata nello spazio.
Per restituire la realtà del movimento e del divenire Bergson non si accontenta quindi di descrivere la successione simultanea dello spazio percorso, che sarebbe solo una sua traduzione simbolica o “cinematografica”, ma si pone dal punto di vista della durata per cogliere l’atto semplice che ha generato il movimento nel suo farsi. La libertà stessa, se la si considera a partire dalla pura durata in modo immediato, non può essere sacrificata al determinismo: se si considera la coscienza non come aggregato di fatti, sensazioni, sentimenti e idee, bensì come unità organica, i nostri atti non appaiono come determinati da una legge di causalità meccanica a partire dagli stati precedenti, bensì come atti liberi emananti dall’intera personalità. Agire liberamente significa dunque “riprendere possesso di sé, ricollocarsi di nuovo nella pura durata” e non agire per il mondo esterno, obbedendo alle regole imposte dal conformismo sociale.
Il Saggio appare insomma ancora dominato dalla filosofia della coscienza di matrice ottocentesca che porta Bergson a considerare tutto ciò che è esterno all’esperienza dell’io profondo come relativo, superficiale, meccanico, riconoscendo la realtà assoluta nel dato immediato della durata psicologica e nella contingenza delle sue leggi. La stessa vita sociale è colta come luogo della proiezione spaziale dell’io, come ambito impersonale della ripetizione conformista di comportamenti utili e prevedibili. Su questi presupposti Bergson interpreta il fenomeno del comico in un’opera che influenzerà enormemente l’estetica del Novecento: il saggio sul Riso (1900, trad. it. 1916). Le ragioni vitali che sono alla fonte della società producono il riso come funzione di difesa nei confronti dell’eccesso di rigidità e di automatismi meccanici che talvolta si verifica nei comportamenti sociali. Il comico è dunque una reazione intimiditoria e umiliante nei confronti del “meccanico applicato al vivente”, per preservare la tensione e l’elasticità che sono proprie della vita della coscienza ma che tendono ad esaurirsi e irrigidirsi nella vita sociale.
Le prime posizioni di Bergson condizioneranno profondamente la sua ricezione novecentesca, che conoscerà inizialmente un forte entusiasmo da parte di spiritualisti e cattolici (Edouard Le Roy, Jacques Chevalier), accompagnato dalla condanna di coloro che vedranno nella sua filosofia una svalutazione della società, della scienza e dell’intelligenza (Georges Politzer, Paul Nizan). Del resto Bergson, nell’arco della sua opera, aggiornerà profondamente la curvatura intuizionista e individualista iniziale, giungendo a sfidare l’univocità della tradizione spiritualista dalla quale egli stesso proveniva.
Già da Materia e memoria (1896, trad. it. 1983) l’indagine di Bergson si sporge progressivamente verso la realtà materiale, abbandonando l’esperienza interiore per esaminare la percezione delle cose. Se le esigenze pratiche dell’azione frammentano e selezionano i dati dell’esperienza, la percezione pura ci pone in un contatto immediato con le cose, la cui materialità è definita un “insieme di immagini” il cui statuto è intermedio tra le cose in sé e le rappresentazioni.
La relazione tra corpo e spirito viene insomma impostata attorno a un’esperienza percettiva tesa tra realtà immediata della durata e realtà delle cose, all’incrocio tra realtà spirituale della memoria e realtà spaziale della materia. L’essenza dello spirito, della materia e della loro relazione è però oscurata dal nostro modo ordinario di conoscere, fondato sulle abitudini spaziali della nostra intelligenza.
Le interferenze degli schemi dell’azione nella sfera della speculazione possono essere riconosciute a partire dall’intuizione, la modalità di conoscenza immediata che viene indicata come metodo della metafisica, opposto all’analisi della scienza per delimitarne l’ambito di competenza. Mentre l’analisi ruota attorno alle cose e ne offre una visione relativa, esteriore e frammentaria, l’intuizione è “quella simpatia per cui ci si trasporta all’interno di un oggetto, in modo da coincidere con ciò che esso ha di unico e, per conseguenza, di inesprimibile” (Introduzione alla metafisica, 1903, trad. it. 1909). Questa posizione, che suggerisce ancora perplessità nei confronti della natura spaziale, frammentaria e per questo relativa dei concetti generali e del linguaggio, inviterà alcuni interpreti a reagire contro un preteso antirazionalismo bergsoniano. Sarà il caso di Jacques Maritain, le cui critiche di stampo neotomista motiveranno la messa all’Indice di tre opere di Bergson nel 1914, sotto il papato antimodernista di Pio X.
L’ultimo Bergson: la filosofia della vita
L’ultimo Bergson precisa la dottrina dell’intuizione che aveva dato luogo a riprese irrazionaliste del suo pensiero da parte di correnti decadentiste e volontariste di inizio Novecento e definisce intuizione e intelligenza come i due poli inseparabili di ogni atto intellettivo. L’intuizionismo scettico nei confronti della scienza lascia ormai il passo al riconoscimento di una “impresa comune” a scienza e filosofia.
Il momento di svolta è rappresentato dal passaggio dal punto di vista psicologico al punto di vista cosmologico che avviene con l’opera più importante di Bergson, L’evoluzione creatrice (1907, trad. it. 1925), pubblicata all’apice della sua fama come professore al Collège de France e che nel 1927 gli varrà il premio Nobel per la letteratura. Qui Bergson trova una convergenza tra teoria della conoscenza e teoria cosmologica e dell’evoluzione per cui l’intelligenza e la materia hanno una genesi simultanea, rappresentando entrambe un movimento di inversione e interruzione dello slancio vitale (élan vital). Mentre l’intuizione va nel senso stesso della vita, l’intelligenza è piuttosto “caratterizzata da un’incomprensione naturale della vita” ed è a suo agio nella materia inerte, ma come attestano il successo dell’azione e della scienza, essa “tocca qualcosa di assoluto”. La rivalutazione del ruolo dell’intelligenza è riscontrabile anche sul piano antropologico: la figura in parte pragmatista dell’homo faber rivela tutto il carattere ambivalente dell’intelligenza fabbricatrice, che emerge come “annesso della facoltà di agire” votato a costruire strumenti, ontologicamente intesi come organi amovibili e versatili che prolungano l’azione del corpo. Il pensiero fabbricante contribuisce inoltre all’avanzare della coscienza, così come l’intuizione è sempre uno sforzo mediato e riflesso, e così come la vita, pur essendo “di ordine psicologico”, si sviluppa solo nella mediazione spaziale e materiale: su questi presupposti Bergson può rivendicare una causalità specifica del vivente che non va solo contro la causalità del determinismo positivista, ma anche contro il finalismo su cui si appoggiavano le tesi spiritualiste. Che il divenire sia determinato in base alle parti che ne compongono il passato (meccanicismo) o in base a un fine predisposto verso cui tutto tende (finalismo), in entrambi i casi si è sviati dal pensiero geometrico, che considera la somma delle parti anziché il tutto nel suo divenire organico e spontaneamente creativo.
L’assolutezza finita e in divenire dell’élan vital, oltre ad avvicinare la filosofia della vita di Bergson a quella del filosofo tedesco suo contemporaneo Georg Simmel, sarà uno dei fulcri della filosofia di importanti interpreti di Bergson come Vladimir Jankélévitch e, per suo tramite, Maurice Merleau-Ponty. Accanto a essi, uno dei filosofi più influenti per la riconsiderazione di Bergson nella seconda metà del Novecento sarà Gilles Deleuze, che rifletterà specialmente sulla descrizione bergsoniana del cambiamento vitale come movimento di differenziazione interna e di attualizzazione imprevedibile delle proprie virtualità (Il bergsonismo, 1966, trad. it. 1983).
Negli anni Dieci e Venti la vita di Bergson attraversa la prima guerra mondiale prestandosi in diverse occasioni ufficiali alla causa nazionalista antiprussiana, e nel dopoguerra dedicandosi alla costruzione di una cultura della pace in veste di presidente della Commissione Internazionale di Cooperazione Intellettuale della Società delle Nazioni. Le esperienze politiche e sociali di quegli anni accompagnano l’elaborazione dell’ultima grande opera di Bergson, Le due fonti della morale e della religione (1932, trad. it. 1947), in cui il filosofo si confronta con le società umane a partire dalla filosofia della vita de L’evoluzione creatrice. I diversi tipi di società, di morale e di religione riflettono la polarità tra “i due sensi della vita” (Frédéric Worms) che sottendono costantemente al pensiero bergsoniano: il senso scientifico, conservativo, e il senso metafisico, creativo, dell’élan. Si distinguono quindi la società chiusa e aperta, ovvero rispettivamente il gruppo ristretto, regolato da principi morali costrittivi e mantenuto coeso da una religione statica e dottrinale, improntato a un ordine gerarchico e sempre sul piede di guerra – e il gruppo che si estende invece idealmente all’intera umanità, i cui principi morali pretendono di essere universali e aspirano a emulare la vita e gli insegnamenti di grandi uomini e donne le cui vite testimoniano un’esperienza mistica, fonte della religione dinamica. Alla luce della dicotomia del chiuso e dell’aperto Bergson propone una lettura della società industriale contemporanea e offre prescrizioni affinché si orienti all’apertura, dunque affinché trovino realizzazione la democrazia e la pace. Nel processo di liberazione dell’umanità viene riconosciuto un ruolo ineludibile alle macchine, che assumono così un importante valore morale e politico. Dopo aver descritto la durata comune della materia e della memoria, della materia e dello slancio vitale, Bergson afferma l’origine comune e l’avvenire condiviso della meccanica e della mistica. L’opera che è stata letta a lungo come la più tradizionalista di Bergson sembra così definire il più immanente e il meno conservatore degli spiritualismi.