Alekan, Henri
Direttore della fotografia francese, nato a Parigi il 10 febbraio 1909 e morto ad Auxerre (Yonne) il 15 giugno 2001. Sostenitore della fotografia come artificio e invenzione, erede ideale del gusto di Georges Méliès, fortemente influenzato dalla pittura secentesca di G. de La Tour e J. Vermeer, fu il maggiore rappresentante di quella scuola francese che puntava sulla moltiplicazione di piccole fonti di luce in teatro di posa. Pur avendo sempre preferito il bianco e nero, nel quale ottenne i risultati più significativi, ebbe una carriera talmente lunga da permettergli infine di rivalutare il colore e di raggiungere in età avanzata risultati importanti anche in questo campo. Nato in una famiglia di origini bulgare, compì gli studi inferiori in parte a Nizza e in parte al Lycée Rollin di Parigi, e quelli superiori a Parigi, dove frequentò i corsi serali gratuiti del Conservatoire des arts et métiers e dell'Institut d'optique, e quindi un corso di tecnica di riprese presso la casa di produzione Pathé a Joinville. Parallelamente agli studi, aveva iniziato sin da giovanissimo a lavorare in maniera saltuaria nel cinema: dal 1925 fu aiuto regista e operatore. Ma tre anni dopo abbandonò tale attività per lavorare nei teatri di marionette insieme al fratello, prima al Guignol del parco delle Buttes-Chaumont, poi al Samaritaine; nello stesso tempo faceva il fattorino presso la Borsa di Parigi. Ritornò all'attività cinematografica nel 1931 e fu assistente operatore fino al 1937, con Georges Périnal e Michael Kelber. Collaborò poi come operatore a pieno titolo con un espressionista tedesco emigrato, Eugen Schüfftan, insieme al quale lavorò sul set di film come Drôle de drame (1937; La strana avventura del dottor Molyneaux) e Quai des brûmes (1938; Il porto delle nebbie) di Marcel Carné, e Les musiciens du ciel (1939; Melodie celesti) di Georges Lacombe. Scoppiata la Seconda guerra mondiale, combatté al fronte contro l'esercito tedesco e quindi, fatto prigioniero, evase e raggiunse la zona della Francia non occupata dai nazisti. Negli studi La Victorine di Nizza iniziò così la carriera di direttore della fotografia nei film diretti da Yves e Marc Allégret, ma filmò anche, clandestinamente, le installazioni militari naziste, immagini che fece giungere a Londra, guadagnandosi così una Croce al merito di guerra. Concluso il conflitto, nel 1946 fu autore delle immagini di due film molto diversi ma entrambi di grande rilievo: La belle et la bête (La bella e la bestia) di Jean Cocteau, trionfo barocco del bianco e nero, che faceva rivivere sullo schermo le fantasie dell'incisore ottocentesco G. Doré; e un'opera sulla Resistenza dei ferrovieri francesi improntata a un documentarismo scabro e quasi neorealista, La bataille du rail (Operazione Apfelkern) di René Clément, che aveva collaborato con Cocteau per La belle et la bête. In quegli stessi anni, insieme a Georges Gérard, mise a punto il Transflex, sistema alternativo al classico 'trasparente', che utilizzava la proiezione frontale su uno speciale schermo di biglie di vetro. Illuminò poi Vivien Leigh in una sofisticata Anna Karenina (1948) diretta da Julien Duvivier in Gran Bretagna, Paese nel quale avrebbe lavorato spesso anche in seguito. All'inizio degli anni Cinquanta contribuì a svecchiare il modello del realismo poetico (v. realismo), fotografando La Marie du port (1950; La vergine scaltra) e Juliette ou la clé des songes (1951), entrambi per Marcel Carné. Sempre disponibile a lavorare all'estero, nel 1952 si trasferì in Toscana per girare Encounter (Imbarco a mezzanotte), film con reminiscenze figurative dell'incisore settecentesco G.B. Piranesi, che segnò l'inizio della collaborazione con Joseph Losey, proseguita anche nei decenni seguenti. L'anno successivo raggiunse grandi risultati con il bianco e nero in Roman holiday (Vacanze romane) di William Wyler, per il quale fu candidato all'Oscar. Nel cinema francese degli anni Cinquanta A. realizzò le immagini più belle della sua carriera, come in Quand tu liras cette lettre (1953; Labbra proibite), un mélo di Jean-Pierre Melville, dove seppe trasfigurare la bellezza di Juliette Greco; in Les héros sont fatigués (1955; Gli eroi sono stanchi) di Yves Ciampi; o in Le cerf-volant du bout du monde (1958) di Roger Pigaut, per le cui immagini venne premiato al Festival di Karlovy Vary. In quello stesso anno firmò la regia di un documentario d'arte, L'enfer de Rodin (1958). I chiaroscuri raffinati di A., che aveva imparato il mestiere sul set di Quai des brûmes, si adattavano bene all'acre romanticismo del cinema francese di genere, popolato da amanti maledetti, uomini in fuga e criminali animati dal senso dell'onore.
Negli anni Sessanta A. era ormai all'apice della fama, ma divenne anche uno dei bersagli della critica 'antiaccademica' della Nouvelle vague; tanto più che si affermò quale raffinato interprete dell'immaginario visivo di grandi coproduzioni internazionali e di costosi film statunitensi girati in Europa, come Le couteau dans la plaie (1962; Il coltello nella piaga) di Anatole Litvak e Topkapi (1964) di Jules Dassin, uno dei suoi capolavori. Mise le sue capacità anche al servizio dei kolossal di Terence Young (Mayerling, 1968, e Soleil rouge, 1971, Sole rosso), smarrendo però l'identità del proprio stile sotto le pressioni delle grandi case di produzione. In questo quadro costituisce un'eccezione un film singola- re come Figures in a landscape (1970; Caccia sadica) di Losey. Dopo un decennio trascorso lontano dal set, negli anni Ottanta A. visse una nuova giovinezza professionale, collaborando con Raúl Ruiz per Le territoire (1981), e soprattutto ritrovando i fasti del bianco e nero grazie a Wim Wenders nel film Der Stand der Dinge (1982; Lo stato delle cose); il regista tedesco gli affidò anche Der Himmel über Berlin (1987; Il cielo sopra Berlino), comprese le parti a colori. La qualità del suo lavoro sul colore si può apprezzare anche in La truite (1982) di Losey, premio César per la fotografia. Dopo questa riscoperta colta di A., molti registi della nuova generazione si rivolsero alla sua lucida intelligenza figurativa, da Alain Robbe-Grillet a Jean-Marie Straub, da Thomas Harlan a Robert Kramer, fino ad Amos Gitai, che gli affidò anche un ruolo in Naissance d'un Golem (1991). Anche Wenders lo volle come interprete-simbolo, nel film In weiter Ferne, so nah! (1993; Così lontano, così vicino), dove l'ultraottantenne A. appare come il capitano della chiatta che porta in salvo i protagonisti, una scena che rappresenta un omaggio commosso a uno dei grandi vecchi del cinema. A. narrò la propria visione del lavoro fotografico in un'autobiografia illustrata dalle sue stesse immagini, Des lumières et des ombres (1984), che rappresenta il suo testamento poetico e testimonia una volta di più il suo gusto estetizzante per un bianco e nero barocco, nel quale all'elegante densità dei neri si alterna una enorme varietà di chiaroscuri; nel 1999 diede alle stampe un secondo volume di ricordi, Le vécu et l'imaginaire. Alla sua vita e alla sua opera sono stati dedicati vari documentari, il più importante dei quali, di Michel Dumoulin, è stato trasmesso nel 1988 dalla rete televisiva francese France 3 in due parti (Alekan la lumière e Alekan la mémoire).
R. Prédal, Les grands opérateurs (IV), in "Cinéma 72", 1973, 173, pp. 87-95.
L. Ferrah, The alchemist, in "Films & film-ing", 1987, 392, pp. 20-22.
R. Trainor, Henri Alekan. Black and white light, in "Sight & sound", 1993, 6, pp. 14-17.
N. Herpe, Entretien avec Henri Alekan, in "Avant-scène cinéma", 1995, 442, pp. 1-4.
B. Bergery, Henri Alekan, the doyen of French cinematography, in "American cinematographer", 1996, 3, pp. 46-48 e 50-52.