Hellzapoppin
(USA 1941, bianco e nero, 84m); regia: Henry C. Potter; produzione: Jules Levy per Mayfair; soggetto: dall'omonima commedia musicale di Nat Perrin; sceneggiatura: Nat Perrin, Warren Wilson; fotografia: Woody Bredell; effetti speciali: John P. Fulton; montaggio: Milton Carruth; scenografia: J. Otterson, M. Obzina; costumi: Vera West; coreografie: Nick Castle, Eddie Prinz; musica: Don Raye, Gene de Paul, Sammy Fain, Frank Skinner.
Nel mezzo di un balletto ambientato all'inferno arriva un taxi e ne escono Ole e Chic: i due dichiarano di essere lì solo in quanto protagonisti di un film e cominciano a raccontare questo possibile film a Selby, incaricato di scriverne la sceneggiatura. Interviene il regista a ricordare loro che ci deve essere una storia d'amore. Ed ecco allora la storia di Kitty, promessa a Woody, quando in realtà ama Jeff; e Kitty trattiene Jeff con la scusa di mettere in scena uno spettacolo, intitolato appunto Hellzapoppin. In realtà quella che vediamo è la storia del film che racconta questa storia, interrotta continuamente da una serie di gag del tutto incongrue: un uomo deve recapitare una pianta a un'introvabile signora Jones e la pianta è ogni volta più grande (alla fine è un albero); una donna cerca disperatamente il suo Oscar; un detective cambia continuamente travestimento e identità fino a trasformarsi in un mago che divide in due Ole e Chic senza ricordare come si fa a rimetterli insieme; Betty, vivace e aggressiva amica di Kitty, dà una caccia serrata a Pepi, fantomatico principe russo, alquanto riluttante ad accettarla. Ma, come dice uno dei protagonisti all'inizio, durante il grottesco balletto infernale: "Ricordati che siamo in un film" e a chi chiede "un intreccio", replica: "Un intreccio? Ma questo è pazzo!" La love story tra Kitty e Jeff sembra andare all'aria quando un equivoco spinge Ole e Chic a credere che Kitty abbia una relazione con Pepi: i due fanno di tutto per impedire il matrimonio che prima volevano favorire e per mandare a monte lo spettacolo, ma in realtà saranno proprio tutte le operazioni di sabotaggio messe in opera a determinarne il successo.
Nei primi anni Quaranta Henry C. Potter aveva alle spalle una dignitosa carriera d'artigiano, senza punte di particolare rilievo (aveva comunque speso la sua vena migliore in commedie d'impianto teatrale e musicale, come The Story of Vernon and Irene Castle ‒ La vita di Vernon e Irene Castle, 1939, e Second Chorus ‒ Follie di jazz, 1940, entrambi con Fred Astaire); d'altro canto Ole Olsen e Chic Johnson (una strana coppia comica, in cui non si capisce chi è il comico e chi la spalla) dovevano la loro fama a una lunga carriera teatrale a Broadway. Il film che i tre realizzarono insieme diventò rapidamente un cult movie, fino a rientrare, ancora oggi, nel linguaggio comune come sinonimo di guazzabuglio. Eppure Hellzapoppin è stato ed è tuttora pressoché ignorato dalla critica, anche quella di spiccato gusto rétro.
In effetti lo si potrebbe anche indicare come una specie di bandiera del postmoderno ante litteram, visto che la prima caratteristica di questa farsa composita e imprevedibile è il miscelamento di generi diversi (comico, parodia, musical) e il continuo gioco di scambio dei meccanismi della finzione cinematografica, il continuo slittamento da un piano all'altro, dalla fiction (qui per altro ridotta a pochi frammenti slegati) all'ostentazione quasi epica del 'falso'. Di fronte a ogni trucco, immagine, azione, sorpresa interviene qualcuno a dirci: "Questo è un film". Non solo Olsen e Johnson parlano con il pubblico, ma anche con i loro doppi nel film che si gira nel film; se il proiezionista lascia cadere la pellicola, subito l'immagine va fuori quadro e i personaggi cercano invano di spingerla o tirarla in modo che vada a posto; e basta che due pellicole si sovrappongano perché nella non-storia di Hellzapoppin entri anche la creatura di Frankenstein o un film western. Le invenzioni nascono dallo spettacolo di Broadway, ma se ne liberano ben presto, sfruttando la specifica cinematograficità delle gag, così come effetti speciali ottici quali le sovrimpressioni o le sparizioni.
In realtà più che preparare il postmoderno, questo gioco irriverente e leggero risponde ad alcune caratteristiche fondamentali del comico, che da sempre ama strizzare l'occhio allo spettatore e cercarne la complicità. Pensiamo ai celebri ammiccamenti allo spettatore di Oliver Hardy, alle continue battute metalinguistiche di una coppia comica di successo dell'epoca, Bob Hope e Bing Crosby, nei film della serie Road to ma soprattutto alla comicità dei cartoons, molto sviluppata negli anni Trenta e Quaranta, in particolare da Tex Avery e Chuck Jones. Più tardi toccherà al Woody Allen di Play It Again, Sam (Provaci ancora, Sam, Herbert Ross 1972), Zelig e The Purple Rose of Cairo (La rosa purpurea del Cairo, 1985), nonché al cosiddetto comico demenziale che avrà la sua fioritura negli anni Ottanta.
Sarebbe inutile cercare qualche traccia di racconto in questo accumulo frammentario di sequenze scollegate e rimandi metalinguistici: le gag hanno il solo scopo di interrompere continuamente il racconto, trasformandolo in una serie di scene che potrebbe anche proseguire all'infinito o essere proiettata cambiando l'ordine delle sequenze, come del resto accade quando al proiezionista nel film cade la bobina del film. Tutto il mondo di Hellzapoppin non è che un funambolico palcoscenico senza confini, in cui si mescolano gag, balletti, canzoni, inseguimenti, capitomboli, un caleidoscopio di suggestioni (love story, farsa, musical) e di occasioni puntualmente raccolte e immediatamente abbandonate per fare spazio ad altre invenzioni, altrettanto gratuite nel trionfo del nonsense. Il cinema rimane solo un meccanismo spettacolare mandato allegramente in pezzi, in modo che sia possibile riconoscerne il passato funzionamento (la retorica, i luoghi comuni, i trucchi), ma impossibile ricomporlo.
Da questo punto di vista il limite di Hellzapoppin sta semmai nel non osare abbastanza, nel non sapersi liberare del tutto dei modelli che irride: soprattutto nella seconda parte del film lo spazio riservato alla commedia sentimental-musicale, con quelle canzonette in stile operetta, la finta improvvisazione jazz con Rex e Slam Stewart, le coreografie che citano espressamente Busby Berkeley obbediscono a regole che sono quelle del musical dell'epoca e non certo la loro parodia. E il rovesciamento finale (la distruzione dello spettacolo dall'interno e il disastro che diventa successo), più che l'ultima trovata esplosiva, è un cliché e segue una tradizione ampiamente collaudata dal comico.
Interpreti e personaggi: Ole Olsen (Ole), Chic Johnson (Chic), Robert Paige (Jeff Hunter), Jane Frazee (Kitty Rand), Lewis Howard (Woody Taylor), Martha Raye (Betty Johnson), Clarence Kolb (Andrew Rand), Nella Walker (Mrs. Rand), Mischa Auer (Pepi), Richard Lane (regista), Elisha Cook Jr. (Harry Selby), Hugh Herbert (Quimby, detective trasformista), Olive Hatch (se stessa), Shemp Howard (Louie, proiezionista), Andrew Tombes (Max Kane, produttore), Hal K. Dawson (fotografo), Rex e Slam Stewart.
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