Pereira, Hal
Scenografo cinematografico e teatrale statunitense, nato a Chicago il 29 aprile 1905 e morto a Los Angeles il 17 dicembre 1983. In un'epoca in cui la ricostruzione degli ambienti in teatro di posa costituiva una scelta stilistica obbligata, fu il maggior interprete dello 'splendore del falso' hollywoodiano, pur avvicinando quel modello alla nuova sensibilità emersa nel dopoguerra. Legò così il proprio nome alla stagione più gloriosa della Paramount Pictures, la major che più delle altre puntava sulla magnificenza degli allestimenti. Venne ininterrottamente candidato all'Oscar dal 1953 al 1967 (con la sola eccezione del 1965), spesso per più di un film all'anno, ma ottenne il premio soltanto una volta (insieme a Tambi Larsen, Sam Comer e Arthur Krams), per le scenografie di The rose tattoo (1955; La rosa tatuata) di Daniel Mann.
Dopo gli studi di architettura alla University of Illinois, nel 1933, insieme al fratello minore Willian aprì a Chicago lo studio Pereira & Pereira, che nella seconda metà degli anni Trenta si specializzò nella progettazione di sale cinematografiche (come per es. quelle per Barney Balaban, presidente della Paramount), alcune delle quali vengono ancora considerate importanti esempi di architettura per lo spettacolo. Fu attivo anche come scenografo teatrale. Nel 1942 si trasferì a Hollywood, scritturato come art director dalla Paramount, e iniziò a lavorare sotto la supervisione di Hans Dreier. Tra i suoi primi film spiccano due noir firmati insieme a Dreier, in cui viene riletta in maniera diversa la lezione espressionista e che costituiscono magistrali esempi di materializzazione del perturbante: Double indemnity (1944; La fiamma del peccato) di Billy Wilder, regista con il quale P. avrebbe in seguito collaborato spesso, e Min-istry of fear (1945; Il prigioniero del terrore) di Fritz Lang. Ma il film che lo impose fu Blue skies (1946; Cieli azzurri) di Stuart Heisler, apprezzato per la ricchezza e la fantasia dell'ambientazione dei numeri musicali. Nel 1947 la Paramount gli affidò il compito di supervisore alla progettazione delle sale. Nel 1950, dopo che la nuova legislazione antitrust aveva costretto l'azienda a cedere le sue sale, P. fece ritorno al cinema attivo, succedendo a Dreier come supervising art director. Il suo nome figurò così nel periodo 1950-1968, insieme a quello degli scenografi di turno, in oltre duecentoventi film, anche se è difficile stabilire quale sia stato il suo contributo personale a ciascuno di essi. Negli anni in cui la concorrenza televisiva cominciava a farsi agguerrita, egli fu uno degli artefici della strategia delle superproduzioni della Paramount, che aveva appena lanciato il sistema wide-screen Vistavision e aveva bisogno di vasti apparati scenografici. P. s'impegnò sul terreno del kolossal, mettendo mano sia alle grandi macchine produttive di Cecil B. DeMille, da The greatest show on Earth (1952; Il più grande spettacolo del mondo) fino a The ten commandments (1956; I dieci comandamenti), sia ai western di grandi dimensioni, da Shane (1953; Il cavaliere della valle solitaria) di George Stevens a Gunfight at the O.K. Corral (1957; Sfida all'O.K. Corral) di John Sturges. Lavorò molto anche nel campo della commedia, al fianco di registi come Norman Taurog, Frank Tashlin, Melville Shavelson, per i quali incrementò la quantità di dettagli realistici negli interni, dal momento che la Paramount, senza tradire la sua storica vocazione per lo spettacolo d'evasione, doveva fare i conti con la richiesta di maggiore autenticità proveniente in quegli anni dalla società americana. Raggiunse risultati molto interessanti in film drammatici che richiedevano un realismo più sofferto: disegnò così il mondo rurale in The big carnival, noto anche come Ace in the hole (1951; L'asso nella manica) di Wilder, quello della upper-middle-class in The desperate hours (1955; Ore disperate) di William Wyler, i ranch del Sud in Hud (1963; Hud il selvaggio) di Martin Ritt, il chiuso universo della provincia in The rose tattoo. P. tuttavia resta nella storia di Hollywood soprattutto per la 'teatralizzazione' di un mondo trasformato in puro effetto narrativo attraverso l'algida stilizzazione del design degli interni, in film che ignoravano programmaticamente ogni ambizione di verosimiglianza, come le commedie di Jerry Lewis, i capolavori hitchcockiani Rear window (1954; La finestra sul cortile) e Vertigo (1958; La donna che visse due volte), e le favolistiche rappresentazioni del 'sogno americano' Sabrina (1954) di Wilder e Breakfast at Tiffany's (1961; Colazione da Tiffany) di Blake Edwards.
P. guidò il reparto scenografia della Paramount fino a quando la concorrenza dei produttori indipendenti e della televisione mise in crisi la politica degli alti costi. Nel 1968 abbandonò così Hollywood e tornò a Chicago, dove lavorò come designer e progettista nello studio di architettura Pereira & Associates, e insegnò al College of Fine & Communication Arts della Loyola Marymount University.