Guittone d'Arezzo e i guittoniani
Il tirocinio poetico di D., stando ai componimenti che sono giudicati i suoi più antichi, fu tipicamente guittoniano. G. d'Arezzo, prima del Cavalcanti e della fioritura stilnovistica (e quindi, approssimativamente, fra il 1260 e il 1280), in Toscana e fuori dettò legge, specialmente nel campo della tecnica dell'espressione, ai rimatori della generazione successiva alla sua. Egli aveva aperto la chiusa e aristocratica poetica dei ‛ Siciliani ' al flusso della realtà comunale, adeguandola ai più vari e forti interessi della vita; aveva decisamente infuso nell'attività poetica, riallacciandosi agli antichi trovatori, una forte carica morale, nell'urgenza vivamente sentita di un proprio apostolato; e si era proposto, e aveva risolto per suo conto, il problema di un nuovo linguaggio, utilizzando la tradizione in tutta la sua ricchezza, ma facendo anche ampio credito alle istanze dell'uso vivo e municipale, sotto il vigoroso impulso di un demiurgismo tecnico e linguistico, facilmente incline per altro all'artificio retorico esteriore e additizio, all'irto e difficoltoso bisticcio tecnico fine a sé stesso e alla consegùente ermetica oscurità destinata a far colpo. Ma, come sempre accade, le vere qualità del poeta rimasero generalmente ignote ai seguaci scolastici, i quali - non esclusi quei pochi che avevano una loro seppur debole voce da far sentire - considerarono fondamentale canone d'arte quanto nel maestro costituiva la parte caduca ed esteriore: l'ornamentazione meccanica e la tecnica difficile. E D. fu tra questi.
Nel tempo, assai presumibilmente, della sua incipiente giovinezza, e forse ancor prima che a diciotto anni componesse il sonetto A ciascun'alma presa e gentil core, col quale aprirà poi la Vita Nuova, egli si uniformò, si direbbe conformisticamente, alla moda imperante, pagando con grande coscienza e serietà il suo pedaggio di principiante. I componimenti guittoniani di D. sono quelli con i quali s'inizia il secondo libro della raccolta delle sue Rime nell'ordinamento fissato dal Barbi (dal n. XXXIX al n. XLVII nell'edizione delle Opere). Sono tutti sonetti di corrispondenza con un rimatore dichiaratamente guittoniano, più vecchio certo e allora anche più autorevole di lui: Dante da Maiano.
Costui, secondo un diffuso costume letterario, aveva fatto conoscere nel giro dei quattordici versi una sua " visione " e ne aveva chiesto l'interpretazione: una bella donna gli aveva donato affabilmente una ghirlanda, ed egli, che si era trovato vestito della camicia di lei, aveva abbracciato e baciato la donna alla presenza della propria madre, morta. A questo sonetto rispose anche, fra , gli altri, D. Alighieri (Sapete giudicar vostra ragione), per il quale la ghirlanda simboleggiava il disio verace che nasce da valore e da beltà; la camicia indicava la corrispondenza d'amore da parte di lei, confermata per altro dagli abbracci e dai baci; e infine la figura morta auspicava la fermezza, ancora, della donna. Il giovanissimo poeta s'inseriva così, forse per la prima volta, in un corale di rimatori guittoniani e poneva non indegnamente la propria candidatura a un'emulatoria colleganza.
Assai più importante il secondo episodio del guittonianesimo dantesco, quello noto sotto l'etichetta di " Tenzone del ‛ duol d'amore ' ", e che si svolge, come il precedente, all'insegna dei rapporti, ora più strettamente personali, fra D. Alighieri e Dante da Maiano. Sono cinque sonetti, dei quali i tre dispari generalmente attribuiti dagli studiosi al maianese e i due pari al fiorentino, secondo l'ordine in cui essi appaiono nell'unico testo che ce li ha tramandati (cioè l'edizione Giuntina di rime antiche, del 1527), pur se in esso, per una facile e giustificata ma erronea sostituzione, il terzo sonetto è attribuito all'Alighieri. La ‛ questione ' della tenzone non è peregrina. Dante da Maiano chiede al suo corrispondente (celando il proprio nome) qual sia, a suo giudizio, il maggior dolore nella vicenda d'amore; e l'Alighieri gli risponde che chi non è amato, s'elli è amadore, / che 'n cor porti dolor senza paraggio (Rime XLII 13-14), e cioè che il maggior dolore è amare senz'essere amato. È fuor di dubbio che la " Tenzone del ‛ duol d'amore ' " costituisce il momento più significativo del tirocinio guittoniano dantesco. In fondo, il sonetto inviato dall'Alighieri all'amico a chiosa della ‛ visione ' di lui, si caratterizza più ancora come siculo-provenzale che come tipicamente guittoniano, sia per l'interpretazione dei fatti, sia per il linguaggio (giudicar... ragione, pregio di saver portate, parole ornate, disio verace, amica oppinione, ecc.). E anche le rime vi figurano del tutto normali (una sola della proposta è ripresa nella risposta di Dante). Qui nella " Tenzone del ‛ duol d'amore ' " le cose stanno diversamente per un più spiccato impegno tecnico e stilistico di ascendenza precisamente guittoniana. Intanto, nel primo sonetto di replica (Qual che voi siate, amico, vostro manto) D. risponde pienamente e perfettamente per le rime. Tra queste rime quelle in -oco emergono come ricercate e difficili (gioco - coco - moto - voco); e linguisticamente elette e aristocratiche, e care a G., quelle in -aggio (con i gallicismi coraggio e paraggio). Di più, l'intero sonetto è percorso dal tema del ‛ sapere ', secondo la tecnica retorica della replicatio, nella quale G. era davvero un maestro (saver, v. 3; sacciate, v. 5; saver, v. 6; saggia, v. 7; saggio, v. 8; saver, v. 9; saggio, v. 11); e la disposizione delle parole e il loro timbro echeggiano d'inafferrabili risonanze guittoniane. Ma nel suo secondo sonetto di risposta D. replica con grande estro e vigoria alle provocazioni tecniche dell'interlocutore. Tutte le rime sono equivoche o identiche o composte e insieme equivoche (nomo - nomo - un omo - nomo nei versi dispari della fronte; parla - par l'à - par là - parla nei versi pari; e nella sirma ch'amato - camato; chi ama - chiama; porta - porta), in una prova di abilità davvero straordinaria e da macerato guittoniano. Il gioco sottile della replicatio è ben presente (per es., canoscendo, v. 1; conosco, v. 3; canoscere, v. 5; e inoltre saccio, v. 4; sacci ben, v. 10; e poi amico, amato, amore, ama, amato nei vv. 9-11); così come affiora l'ermetica oscurità di certo linguaggio guittoniano, tanto che taluni passaggi (per es., i vv. 7-8) hanno resistito ai pazienti tentativi della più scaltrita esegesi moderna.
Era difficile procedere oltre per questa strada, specialmente da parte di un giovane che avrebbe rivelato presto una complessa serietà interiore alla base di ogni attività poetica; e perciò il terzo episodio di questa relazione epistolare in versi (terzo solo nel citato ordinamento dei versi, e non necessariamente in senso cronologico) non solo non è altrettanto ricco di estrosità tecniche e linguistiche, ma s'inizia con una fresca enumerazione di virtù (Savere e cortesia, ingegno ed arte, Rime XLVII 1) non priva di una pallida coloritura stilnovistica. Magari si potrà cogliere un atteggiamento guittonianeggiante là dove l'Alighieri al quesito del maianese sull'irresistibile potenza d'Amore risponde ostentando un'inutile terminologia filosofica (Onde, se voli, amico, che ti vaglia / vertute naturale od accidente, vv. 9-10), per concludere che nulla cosa gli è incontro possente, v. 13; o nell'uso di qualche rima difficile (riccore, vaglia, battaglia) o equivoca (in onne parte, v. 5; n'ha parte, v. 8), dato che due sole rime sono riprese nelle risposte e due parole rima.
La verità è che in Savere e cortesia sembra attenuarsi l'iniziale guittonianesimo di D. e concludersi la prima esperienza poetica di lui, fino all'altro sonetto A ciascun'alma presa e gentil core (Vn III 10 ss.), nel quale tuttavia anch'egli sottopone all'esegesi di molti li quali erano famosi trovatori in quello tempo (§ 9) una sua ‛ visione '. L'armamentario simbolistico, in fondo, non vi si muta affatto (Amore, il cuore, madonna dormiente e poi sveglia, ecc.), ma non ha più la grevezza corposa dell'infatuato guittoniano, proprio in grazia di un intenerimento del linguaggio, tendenzialmente già volto alla dolce e soave rarefazione stilnovistica (A ciascun'alma presa e gentil core / ... atterzate l'ore / del tempo che onne stella n'è lucente / ... cui essenza membrar mi dà orrore, ecc. Si capisce come Guido Cavalcanti si potesse interessare allora a quel novizio, concedendogli quell'amicizia che è uno dei fatti salienti dell'ultimo Duecento letterario italiano; e d'altra parte sembra giustificata la volgare e indispettita risposta (pur se in accordo alle credenze mediche del tempo) proprio di Dante da Maiano, niente affatto persuaso da quel linguaggio preannunziante il prossimo divorzio. Il diverso atteggiamento del guittoniano e dello stilnovista nei confronti del giovane poeta diventa così emblematico della posizione spirituale e tecnica di D. in questa sua prima crisi di assestamento e di sviluppo alle origini della propria carriera.
Non passerà molto e D. ripudierà, all'ombra di Guido e di Lapo (Guido, i' vorrei che tu e Lapo ed io, Rime LII), tutta intera quella sua discepolanza guittoniana, sia sul piano dei contenuti e della tecnica stilistica, sia sul piano dei principi. Scriverà nella Vita Nuova: E la cagione per che alquanti grossi ebbero fama di sapere dire, è che quasi fuoro li primi che dissero in lingua di ‛ sì ' (XXV 5); parole, almeno in parte, oscure e sibilline, che però apertamente coinvolgono in una totalitaria condanna la tradizione poetica precedente in lingua volgare, non certo eccezion fatta di rimatori come Dante da Maiano.
Questo atteggiamento e questa coscienza diventeranno poi maturi ed espliciti nel De vulgari Eloquentia, ove, in una sorta di consuntivo della propria attività, il poeta indicherà chiaramente le proprie scelte e ne svelerà le motivazioni. E quando, nella caccia al volgare illustre attraverso le varie regioni della penisola, toccherà dei Toscani, egli affermerà che costoro propter amentiam suam infroniti, titulum sibi vulgaris illustris arrogare videntur, compresi Guittone e i suoi seguaci: Et in hoc non solum plebe[i]a dementat intentio, sed famosos quamplures viros hoc tenuisse comperimus: puta Guictonem Aretinum, qui nunquam se ad curiale vulgare direxit, Bonagiuntam Lucensem, Gallum Pisanum, Minum Mocatum Senensem, Brunectum Florentinum, quorum dicta si rimari vacaverit, non curialia, sed municipalia tantum invenientur (I XIII 1). Costoro sono, dunque, accusati di municipalismo linguistico, di non aver cioè mai aspirato a una superiore ed eccellente e aristocratica forma e lingua d'arte, poiché non si allontanarono mai dal proprio volgare, avvezzi a plebescere: Subsistant igitur ignorantiae sectatores Guictonem Aretinum et quosdam alios extollentes, nunquam in vocabulis atque constructione plebescere desuetos (II VI 8). Essi soli, fra tutti, dacché il volgare dei Siciliani illustri nichil differt ab illo quod laudabilissimum est (I XII 6); e i Bolognesi doctores fuerunt illustres et vulgarium discretione repleti. Maximus Guido... (I XV 6); e dei settentrionali in genere almeno aliquos a proprio [volgare]... divertisse audivimus (I XIV 3). Ma in luminosa contrapposizione dei guittoniani, ecco per la Toscana il gruppo degli eletti: Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Cino da Pistoia e D. stesso (I XIII 3), i quali dulcius subtiliusque poetati... sunt (I X 4). In effetti, D. nella parte più viva del trattato, sotto un impulso forte, ma segreto e forse inconsapevole, di carattere autobiografico, registra, disegna e sistema la sua prima grande stagione poetica dalla Vita Nuova alle rime ‛ petrose ' e dottrinali, sullo sfondo della grande e comune esperienza stilnovistica; e di questa vuol proprio spiccatamente rilevare l'importanza e l'eccellenza storico-stilistica nei confronti della precedente poetica guittoniana. E non è certo per un caso se, come appunto nel De vulgari Eloquentia (particolarmente in I XIII 1, rispetto a I XIII 3), anche nella Commedia G. è preso a simbolo della tradizione poetica in volgare di contro ai miti della nuova civiltà letteraria stilnovistica. Così nel XXVI del Purgatorio, dove la fama e la grandezza di lui sono accuratamente ridimensionate e contrapposte alla poesia e alla personalità del Guinizzelli (padre / mio e de li altri miei miglior che mai / rime d'amore usar dolci e leggiadre, vv. 97-99); ond'è ripetuto l'ammonimento severo del De vulgari Eloquentia (Subsistant igitur ignorantiae sectatores): e lascia dir li stolti (Pg XXVI 119), nel quale a quel di Lemosì (Giraut de Bornelh) è affiancato appunto G. (vv. 124-126). E già prima, nel XXIV, al ricordo della canzone Donne ch'avete intelletto d'amore e alla formulazione canonica della poetica stilnovistica (I' mi son un, che quando..., vv. 49-54) D. aveva ancora contrapposto G., e con lui Bonagiunta (che accanto a G. è in VE I XIII 1), e anche il vecchio Notato (che pure ai tempi del trattato latino [I XII 8] era stato stimato poeta praefulgens), rifiutando in blocco la tradizione prestilnovistica in volgare, come già analogamente tanti anni prima, nella Vita Nuova.
Questa insistente e decisa presa di posizione contro G. e il guittonianesimo ha la sua spiegazione storico-stilistica (il municipalismo linguistico, la varietà dei contenuti, la tecnica retorica fine a sé stessa, l'ermetismo espressivo); ma ne ha certo un'altra, non meno valida, di carattere psicologico. Bisognava colpire G. perché con lui e in lui la poetica vecchia fosse abbattuta dalle nuove generazioni; perché il grido di coloro che solo a lui davano pregio cedesse alla nuova verità conclamata da più persone; e perché i nuovi maestri avessero, anche loro, la gioia dei nuovi seguaci. Era, in sostanza, l'unico significativo omaggio che la nuova scuola, nella persona di D., potesse rivolgere, appunto in chiave polemica, al vecchio poeta, del quale implicitamente finiva per riconoscere l'alto prestigio, se non la grandezza. Ché, guardando a fondo, la frattura si rivela, almeno in parte, fittizia e si fanno evidenti i necessari legami. Tutti gli stilnovisti, infatti, e D. più di ogni altro, come si è visto, hanno dovuto fare i conti con la prepotente personalità di G. e col peso della tradizione da lui rappresentata; ne hanno ereditato il concetto, se non il sentimento, dell'amore cristiano e nobilitante nel solco del culto mariano; il gusto della canzone alta e distesa sostenuta da una robusta ossatura logica e da una salda coscienza etica (directio voluntatis), col conseguente inserimento dell'arte nella vita morale e politica; e certi aspetti del linguaggio cortese e cavalleresco, che nell'Aretino era stato sottoposto, in qualche modo, a un processo di cristallizzazione. Ovviamente, gli stilnovisti vanno oltre e infondono nuova vita a vecchie forme; ma proprio essi sono i veri, gli storici continuatori di G., e non gl'innocui guittoniani, solo paghi dell'insegnamento tecnico-letterario dell'ammirato e non discusso maestro. La tecnica guittoniana e l'esigenza di un forte pensiero a sostegno della poesia, che l'Aretino sentì profondamente e instaurò nella letteratura italiana, condizionano radicalmente canzoni come Donna me prega del Cavalcanti (strabiliante prova di guittoniana tecnica versificatoria) e come quelle dottrinali di D., da Poscia ch'Amor del tutto m'ha lasciato (LXXXIII) a Io sento sì d'Amor la gran possanza (XCI) ecc., nelle quali la robustezza del contenuto si rifrange in una fitta trama di rispondenze tecniche e linguistiche. Per questo l'iniziale lezione guittoniana, sebbene sembri che egli abbia fatto di tutto per dimenticarla o per farsela perdonare, fu tutt'altro che inutile a Dante. E non soltanto sotto un profilo ideale e storico, ma anche sotto quello della stretta tecnica letteraria. E se, infine, nella Commedia l'uso di certi espedienti retorici (la figura etimologica, l'allitterazione, l'anafora, il bisticcio ecc.; dalla selva selvaggia a Per me si va, da li 'nfiammati infiammar a Cred'Ïo ch'ei credette ch'io credesse, ecc.) ci riporta bensì a G., ma insieme al costume retorico di tutto l'ultimo Medioevo, cui D. avrà potuto attingere al di là o al di fuori di lui, bisognerà riconoscere che l'uso della rima spezzata o composta (urli - pur lì; chiome - oh me; oncia - non ci ha, ecc.) ci riporta precisamente a G. e all'originaria esperienza guittoniana di D., quand'egli, rispondendo all'amico maianese (e particolarmente nel sonetto Non canoscendo, amico, vostro nomo, XLIV) ingemmava retoricamente il proprio stile anche con questo tipo di rima difficile, come sopra abbiamo ricordato. E del resto, un programma come quello formulato da D. in Pg XXIX 42 forti cose a pensar mettere in versi, sarebbe stato con entusiasmo sottoscritto da G.; da un poeta insomma che di sé aveva affermato: " E dice alcun ch'è duro / e aspro mio trovato a savorare; / e pote esser vero. Und'è cagione? / che m'abonda ragione, / per ch'eo gran canzon faccio e serro motti / e nulla fiata tutti / locar loco li posso, und'eo rancuro; / ch'un picciol motto pote un gran ben fare ", Altra fiata aggio 163-170).
Bibl. - Per la corrispondenza poetica fra D. Alighieri e Dante da Maiano si rinvia al commento e agli utilissimi ‛ cappelli ' di G. Contini alle Rime di D. (pp. 25-40), e di M. Barbi e F. Maggini alle Rime della " Vita Nuova " e della giovinezza di Dante, pp. 155-173, ove si troveranno anche le altre indicazioni necessarie su Dante da Maiano e sulle vicende critiche della suddetta corrispondenza.
Sui rapporti fra D. e G. d'Arezzo la bibliografia non è abbondante, né serve allo scopo quella specifica su G., per la quale sarà sufficiente rinviare al fondamentale ed esauriente volume di C. Margueron, Recherches sur G. d'Arezzo, Parigi 1966. Fondamentale il saggio di C. De Lollis, Arnaldo e G., in Idealistische Philologie. Festschrift für Karl Vossler, Heidelberg 1922, 159-178; insieme con le pp. 16-17 dell'Introduzione di G. Contini al cit. comm. delle Rime di Dante. In " Sole nuovo " e " sole usato ". Dante e G., di S. Santangelo (cfr. Saggi danteschi, Padova 1959, 93-130) il problema generale delle relazioni tra i due poeti è subordinato alla dimostrazione (e convinzione) secondo la quale nella frase " sole usato " di D. si celerebbe un'allusione alle Lettere di G. e al tipo della sua prosa; ma la tesi non ha avuto fortuna. E si vedano anche U. Bosco, Il nuovo stile della poesia dugentesca secondo Dante, in D. vicino, Caltanissetta-Roma 1966, 29-54 (ma partic. pp. 34-37); e M. Marti, Con D. fra i poeti del suo tempo, Lecce 1966, 69-94.