STEUCO (Stucchi), Guido
STEUCO (Stucchi), Guido (in religione Agostino). – Secondo i riferimenti autobiografici disseminati nelle opere, nacque tra il 1497 e il 1498 a Gubbio, allora sotto i Montefeltro, dall’agiata famiglia degli Stucchi: il padre si chiamava Teseo; uno dei fratelli, canonico della cattedrale, Francesco; un altro, magistrato della città, Mariotto.
Mantenne il nome Guido fino a quando, nel 1512, entrò nel noviziato di S. Secondo, appartenente all’Ordine dei canonici agostiniani di S. Salvatore, prendendovi l’abito il 1° novembre 1513 e assumendo il nome di Agostino (Nicolai, 1829, p. 7). Nel maggio del 1517, mentre infuriava la guerra tra fiorentini e urbinati, e Leone X fulminava l’interdetto contro Gubbio, lasciò la patria per passare a Bologna nel chiostro di S. Salvatore, centro del sapere dove aveva risieduto Antonio Codro, che, con Pellegrino Fabbri, vi aveva raccolto preziosi manoscritti fondando la biblioteca del convento. Come testimoniano gli atti del capitolo dell’Ordine, vi rimase tra il 1518 e il 1525, salvo una parentesi a Venezia (Freudenberger, 1935, pp. 31 nota, 39). A Bologna completò gli studi di teologia, frequentò i corsi di retorica ed ebraico all’Università, apprese i rudimenti dell’arabo e le lingue utili alla comprensione del testo biblico (il greco da Petros Ypsila, l’ebreo e il caldeo da Giovanni Flaminio), si interessò di fisica e matematica e si guadagnò la stima dei superiori, che lo destinarono a insegnare filosofia e teologia. In anni in cui era vivo il magistero dell’aristotelico Pietro Pomponazzi, Steuco tradusse alcune pagine dei classici e si legò a Romolo Amaseo, Celio Calcagnini (con il quale avrebbe intrattenuto una corrispondenza), Domenico Grimani e Alberto Pio che, secondo alcuni biografi, alla morte gli avrebbe lasciato parte dei propri libri.
Tra l’aprile e il maggio del 1525 venne assegnato al convento di S. Antonio di Castello a Venezia, dove si recò passando per Ferrara. Qui divenne amico di Francesco Massari e arricchì la propria rete di rapporti; inoltre, alcuni studenti dello Studio di Padova (Jacob Ziegler, Julius Pflug) lo tennero informato sui progressi della Riforma in Germania. Nel chiostro coltivò alcuni allievi (Leonardo Malaspina, Tranquillo Zupponi) e mise a frutto l’originale collezione di testi già posseduta da Grimani, morto da cardinale nel 1523. La biblioteca (la seconda pubblica a Venezia dopo quella di Bessarione) includeva i libri e i codici biblici postillati da Giovanni Pico della Mirandola, che Grimani aveva acquistato nel 1498. La raccolta fu ereditata in larga parte da Marino Grimani (che sotto Guglielmo Sirleto l’avrebbe trasferita alla Biblioteca Vaticana); ma i codici e i testi più preziosi rimasero nel convento veneziano. Della loro custodia fu incaricato Steuco, che così ebbe l’occasione di maneggiare manoscritti ebraici, greci, aramaici, arabi, armeni, perfezionando le proprie indagini sul testo biblico.
Da questa esperienza scaturì la prima opera a stampa, apparsa per le insegne di Manuzio: la Recognitio Veteris Testamenti ad Hebraicam veritatem, collata etiam editione Septuaginta [...] nostraque translatione (Venetiis 1529; Lugduni, S. Gryphius, 1531). Si trattava in realtà di un’analisi limitata al Pentateuco, ma la dedica a Marino Grimani annunciava l’intento di corroborare l’autorità della Vulgata attraverso un commento dell’intero Vecchio Testamento: un progetto mai portato a termine. Steuco esibiva una grande perizia linguistica, da umanista qual era; ma non mancava di attaccare Erasmo senza nominarlo: l’esegesi del testo biblico, ai suoi occhi, doveva servire a stabilire che Girolamo era l’autore della Vulgata e che, quasi sempre, l’antica traduzione interpretava correttamente il testo ebraico. In quegli anni Steuco non fu il solo ad attaccare l’olandese: Alberto Pio e Girolamo Aleandro furono gli artefici di una campagna di denigrazione volta ad assimilarlo a Lutero e a screditarlo agli occhi della Curia. Per questo, dopo avere replicato a Pio, il 27 marzo 1531 Erasmo rivolse a Steuco una lettera sull’interpretazione dei salmi 18 e 138 che pubblicò con modifiche nelle Epistolae Floridae (1531, ora in Opus epistolarum Desiderii Erasmi Roterodami, 1906-1958, IX, pp. 204-224). L’italiano rispose con una missiva datata 25 luglio 1531 (ora ibid., pp. 289-307) che pubblicò, con l’autentica lettera di Erasmo, nella sua In psalmum XVIII et CXXXVIII interpretatio (Lugduni, S. Gryphius, 1533), chiamando Pflug a giudicare della controversia. Questi tuttavia scrisse a Erasmo per biasimare l’attacco (5 maggio 1533, ibid., X. pp. 217 s.), tanto insinuante che ancora l’anno seguente l’olandese si sarebbe lamentato dell’aspra reazione di Steuco con Justus Decius: «pro amica admonitione emisit virulentam epistolam ac plane monachalem, manifestis mendaciis ubique refertam» (22 agosto 1534, ibid., XI, p. 34).
Nel frattempo Steuco era stato destinato dall’Ordine ad assumere l’incarico di priore della canonica di S. Marco a Reggio Emilia (1529); nel 1530 ne divenne praepositus e nel 1531 di nuovo priore a fianco di collaboratori come Malaspina, Valeriano Albini e Fulgenzio Guglielmi (Freudenberger, 1935, p. 71). Forse in quegli anni si occupò anche delle canoniche di Brescia e di Gubbio e stilò alcune opere perdute (un poema sul giudizio universale; i libri De locutionibus Hebraicis, Contra theologiam Platonicorum, Contra cabalisticas superstitiones). In ogni modo nel 1530, trovandosi a Bologna, al seguito del cardinale Alessandro Farnese assistette all’incoronazione di Carlo V (24 febbraio: nel 1532 avrebbe partecipato anche al secondo incontro tra l’imperatore e Clemente VII). Sempre nel 1530 dedicò a Farnese il libro Pro religione Christiana aduersus Luteranos (Bononiae, I.B. Phaellus), in cui attaccò il riformatore tedesco e, ancora una volta, Erasmo, presunto iniziatore dell’incendio della cristianità, reo – come Lutero – di avere demolito le devozioni e l’autorità della Chiesa, aprendo la porta della religione interiore, buona per i dotti, ai comuni fedeli (cfr. Seidel Menchi, 1987, p. 54).
Il 5 maggio 1533 il capitolo dell’Ordine riunitosi a S. Maria in Vado conferì a Steuco la carica di priore di S. Secondo, nella nativa Gubbio, dove sedeva come vescovo Federico Fregoso (Freudenberger, 1935, p. 83). Il 27 aprile 1534, nel capitolo radunatosi a Candiana, gli venne dato il titolo di priore di S. Giovanni Battista a Sant’Arcangelo di Romagna (p. 85), e nel 1535 quello di «prior San Lucae» (forse a Brescia). In quell’anno, inoltre, apparve a stampa la Cosmopoeia vel De mundano opificio. Expositio trium capitum Genesis, in quibus de creatione tractat Moses (Lugduni, S. Gryphius, 1535). Il testo forniva un’interpretazione del racconto biblico della creazione, a cui seguivano, in appendice, alcune opere di taglio minore: il De rerum corporearum visibiliumque creatione; il De rebus incorporeis et invisibilibus e la questione An Vulgata editio sit divi Hieronymi. A quel punto, dopo che il cardinale Farnese divenne papa con il nome di Paolo III, e mentre infuriava la polemica antierasmiana alimentata da Pietro Corsi e dall’umanista Juan Ginés de Sepúlveda, formatosi anch’egli a Bologna, Steuco si trasferì nella canonica di S. Pietro in Vincoli, e a Roma entrò in rapporti con Angelo Colocci, Rodolfo Pio di Carpi, Guillaume Pellicier e Jean Du Bellay.
L’11 gennaio 1538 Paolo III lo ordinò vescovo di Kisamo, nell’isola di Creta, dominio veneziano, e il 28 gennaio gli furono donate le spoglie del predecessore Michele Zono (Archivio segreto Vaticano, Arch. Concist., Acta Vicecanc. 5, c. 74r; Eubel - van Gulik, 1910, p. 166). Inoltre il 24 ottobre il papa lo nominò bibliotecario vaticano, titolo confermato da un breve del 2 gennaio 1539 (Archivio segreto Vaticano, Reg. Vat., 1706, cc. 446r-452v, edito in Freudenberger, 1935, pp. 366 s.) che lo dichiarava «praelatus domesticus ac bibliothecarius et continuus commensalis noster». Per ricambiare l’onore Steuco dedicò al pontefice la sua opera più ambiziosa, i dieci libri De perenni philosophia (Lugduni, S. Gryphius, 1540), in cui tentò di continuare il programma ficiniano di concordia tra la prisca theologia e la rilevazione cristiana e aggiunse in appendice il trattato De Eugubinii urbis suae nomine. Il testo verrà ristampato a Basilea nel 1542 (per le cure di Sebastian Francken) e a Parigi nel 1578.
Pur non divenendo un protagonista di primo piano della Curia, Steuco seguì le vicissitudini politiche e religiose che avrebbero portato, dopo molte resistenze, alla convocazione di un concilio, e nel 1541, in occasione dei falliti colloqui di Ratisbona e dell’incontro lucchese tra Paolo III e l’imperatore, tradusse in latino per Carlo V la vita di Costantino di Eusebio di Cesarea e gli indirizzò un’Oratio pro republica Christiana che si richiamava idealmente alla perorazione che Bessarione un secolo prima aveva rivolto ai principi d’Italia perché respingessero il pericolo ottomano stringendo la pace come cristiani (Biblioteca apostolica Vaticana, Vat. lat., 5313, cc. 1-12, ora in Donnini, 1998, pp. 246-256).
Nel testo Carlo V era paragonato ad Alessandro Magno quale iniziatore di un secolo aureo, e gli si affidava la missione di muovere guerra all’islam con lo scopo di soggiogare e convertire l’Asia, pena il soccombere come Roma sotto i barbari o il finire servi della Porta come gli ebrei lo erano stati dei faraoni. Steuco stimava le forze necessarie in ottantamila effettivi contro i ventimila a disposizione di Solimano, che era più debole per mare anche se disponeva di una forte cavalleria fermata comunque a Vienna. Per vincere, inoltre, erano necessari la pace tra le potenze cristiane e l’accordo tra imperatore e pontefice; e occorreva racimolare risorse mobilitando la piccola nobiltà spagnola e italiana con promesse di elevazione sociale e gloria.
In quell’arco di tempo Steuco dedicò al papa anche due opere sul riordino dei trasporti fluviali e delle risorse idriche di Roma, il De via Pauli, et de fontibus inducendis in eam e l’orazione De restituenda navigatione Tiberis a Trusiamno agri Perusini castello vsque Romam (entrambi Romae, B. Cartularius, 1541), in cui esibì la sua erudizione classica, con citazioni di Strabone e Plinio, invitando il pontefice a ripristinare la navigazione sul Tevere, utile per i commerci e per approvvigionare l’Urbe. Sempre alle fonti idriche della città avrebbe dedicato il De Aqua Virgine in Urbem revocanda (Lugduni, S. Gryphius, 1547) in cui propose un progetto che sotto Paolo III restò lettera morta. Eco immediata ebbe invece la sua dissertazione Contra Laurentium Vallam. De falsa donatione Constantini (Lugduni, S. Gryphius, 1547), in cui Steuco difese l’autenticità del costituto accusando Lorenzo Valla di essersi servito di un solo testimone, e non affidabile, per corroborare la propria tesi e mettere in ridicolo i diritti pontifici.
Adottando il metodo umanistico (l’emendatio ope codicum), e dichiarando di ispirarsi alla filologia di Ermolao Barbaro, il canonico citò quattro manoscritti greci e uno latino, custoditi a Venezia e a Roma, che riportavano le parole della presunta donazione, attestata da epigrafi e fonti diverse dal Decretum Gratiani impiegato da Valla. Ai suoi occhi, si trattava di prove inoppugnabili di autenticità; e per di più il fatto che il costituto fosse riportato, pur tardivamente, persino in codici provenienti dal mondo greco significava che gli imperatori di Bisanzio, di fatto, avevano accettato e avvalorato l’atto di Costantino in favore dei papi romani.
Steuco non mostrò grande interesse per il concilio che si era aperto nel 1545 a Trento, ma quando l’assise fu trasferita a Bologna si recò nella città dei suoi studi per parteciparvi (8 settembre 1547). Nei mesi precedenti Marcello Cervini aveva criticato a più riprese la sua trascuratezza di bibliotecario, tanto che il canonico si indispettì per un parente del cardinale che aveva parlato del suo ufficio «con grande impudentia et insolentia» (Archivio di Stato di Firenze, Carte cerviniane, 42/8, in Concilium Tridentinum, 1901-2001, X, p. 920). In effetti, Steuco ebbe la leggerezza di non registrare sistematicamente i prestiti, e Cervini lamentò che alcuni libri e manoscritti di cui necessitava per i lavori del concilio a Trento – come il Contra haereses di Teodoreto, poi ritrovato – risultavano irreperibili nella biblioteca apostolica; e fu tanto il suo disappunto da minacciare di segnalare la negligenza al segretario papale Bernardino Maffei, «acché la biblioteca sia meglio tenuta e che i libri si trovano quando si ha necessità» (cit. in Batiffol, 1890, pp. 17 s.). Steuco ebbe come collaboratori i custodi Fausto Sabeo e Niccolò Maiorano, Fernando Ruano e Michele Rosaita, che iniziò a compilare il catalogo dei manoscritti greci di cui Steuco avrebbe fatto avere copie ai cardinali Ippolito d’Este e Antoine Perrenot de Granvelle.
A Bologna Steuco intervenne in materia di decreti sul matrimonio, mettendo forse a tacere le velate accuse di eresia formulate da alcuni teologi iberici (in particolare dai frati domenicani Domingo de Soto e Jerónimo de Azambuja: Concilium Tridentinum, 1901-2001, I, Diario di Massarelli, p. 381, 20 gennaio 1546) all’indirizzo di un umanista incline all’ermetismo che, pur avendo polemizzato con Erasmo e con Lutero, aveva mostrato troppo fervore per il testo biblico, per la tradizione cabalistica e per quella neoplatonica, e scarsa propensione per la scolastica. In ogni modo, avvertendo l’aria stanca delle sezioni conciliari, e con la scusa che la propria salute peggiorava, Steuco ottenne di ritirarsi a Venezia, dove attese alla stampa di parte dei commenti sui salmi (Enarrationum in Psalmos pars prima, qui est primum Psalmorum liber, iuxta divisionem Hebraeorum, Lugduni, S. Gryphius, 1548).
A Venezia spirò tra il 17 e il 18 marzo 1548 e fu sepolto in S. Antonio.
Cervini, che gli successe come bibliotecario prima di diventare papa, fece ispezionare le sue carte e recuperò un libro in greco e uno in ebraico che non risultavano più nei palazzi apostolici. La libreria personale di Steuco fu affidata al fratello Fabio, anch’egli canonico, e da questi passò a Cervini e ad altri, prima di confluire nella Vaticana nel Settecento. Nel 1591 il corpo di Steuco fu traslato a Gubbio, nel santuario di S. Ambrogio. In S. Pietro in Vincoli, dove risiedette a lungo, lo ricordano due epigrafi e un busto. Sappiamo di opere inedite e perdute (per esempio l’Historia Hispanica), mentre postume apparvero le Enarrationes in librum Iob (Venetiis, Cominus de Tridino, 1567).
Nel XVI secolo si ebbero due edizioni degli Opera omnia: la prima a Parigi per Jamet Mettayer e Michel Sonnius nel 1578 (ma non includeva lo scritto contro Lutero); la seconda a Venezia per Domenico Nicolini nel 1591. Quest’ultima, in apertura, riportava la prima biografia di Steuco stilata del canonico bolognese Ambrogio Morandi. Parti della Cosmopoeia erano già confluite nel Genesis cum catholica expositione ecclesiastica, id est, ex universis probatis theologis [...] excerpta [...] Sive, Bibliotheca expositionum Geneseos del riformato Augustin Marlorat (Genevae, H. Stephanus, 1562), che fu inserito nell’Indice. Ma dopo la morte dell’autore la stessa Cosmopoeia, già attaccata da Ambrogio Catarino e da Calvino, finì nell’Indice e nel Catalogo espurgatorio dell’Inquisizione spagnola (1583, 1584), in quello di Lovanio, in altre liste dell’Europa cattolica e nell’Indice romano del 1596 donec expurgatur (Index, 1984-2002, VI, pp. 788 s., IX, p. 466). Il nodo che attirò i fulmini dei censori della congregazione dell’Indice (Lelio Pellegrini, Mario Altieri, Alfonso Chacón) fu soprattutto la dottrina di Steuco circa la natura increata del cielo empireo. La discussione iniziò nel 1587, nell’Indice del 1590 si ebbe un primo inserimento dell’opera donec expurgatur, anche se il decreto di condanna fu emesso il 14 novembre 1592. La congregazione salvò comunque la ristampa emendata del testo negli Opera curati da Morandi, che corrispose con i censori prima di completare la sua edizione veneziana di Steuco (i documenti sono riportati in Catholic Church, 2009, III, pp. 2388-2401).
Edizioni moderne. De perenni philosophia, introduzione di C.B. Schmitt, New York-London 1972 (ed. anast. dell’ed. del 1540); A. Steuco, La navigazione del Tevere da Torgiano a Roma (sec. XVI), a cura di M. Pecugi Fop, Perugia 2012.
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C. Calcagnini, Opera aliquot, Basileae 1544, pp. 116-124, 132 s., 145, 147 s., 192, 197 s. (14 lettere a S.); S. Nicolai, Compendio della vita ed opere del dottissimo e celebratissimo monsignore A. S. canonico regolare, Roma 1829, p. 7; G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, III, Milano 1833, pp. 458-460; P. Cavalieri - V. Garofali, Biblioteca compendiosa degli uomini illustri della Congregazione de’ canonici regolari del SS. Salvatore, I, Velletri 1836, pp. 22-59; [P.C. Andreoli Giordani - F.C. Andreoli Giordani], Biografia di mons. A. S., canonico regolare vescovo di Kisamo e bibliotecario della Vaticana, Orvieto 1879; P. Batiffol, La Vaticane de Paul IV à Paul V, Paris 1890, pp. 17 s.; Clarorum Hispaniensium epistolae ineditae ad humaniorum litterarum historiam pertinentes, a cura di A. Bonilla y San Martín, Paris 1901, pp. 237-240 (lettera a Juan de Vergara, 1546); Concilium Tridentinum. 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