PADELLETTI, Guido
PADELLETTI, Guido. – Nacque a Livorno il 17 luglio 1843 da Pier Francesco e da Angela Piccinetti.
Trascorse l’infanzia fra Montalcino, nel Senese, e Firenze, dove, presso l’istituto letterario fondato da Giovan Carlo Graziani, fu allievo di Antonio Graziani e Gaetano Del Taglia. Il padre, che partecipò alla campagna del 1848, ebbe un ruolo determinante nella sua formazione liberale.
Trasferitosi a Siena con la famiglia, nel novembre 1858 il giovane Guido superò l’esame di ammissione all’Università e l’anno successivo quello di baccellierato, dando così avvio agli studi giuridici che completò in quattro anni.
Il clima universitario del tempo fu descritto in modo esaustivo dall’amico e, per più di un secolo, unico biografo Carlo Fontanelli nelle pagine iniziali della ristampa postuma di alcuni saggi di Padelletti raccolti sotto il titolo Scritti di dirittopubblico (Firenze 1881): «Quella schiera di giovani liberali tutti, anche quando i loro genitori erano codini, anzi allora più specialmente, conservava ancora quelle qualità che per lungo tempo erano state la caratteristica della scolaresca italiana o almeno toscana, un minimum di studio con un maximum di opposizione al governo […]. Eravamo già al 1859. La scolaresca si occupava esclusivamente di politica; pe’ corridoi dell’Università e intagliato in carattere stampatello su tutti i banchi a furia di temperino si leggeva il famoso motto: Viva Verdi, che voleva significare: Viva Vittorio Emanuele Re d’Italia» (pp. XI s.).
Parallelamente al corso universitario, Padelletti si occupò di studi letterari e storici sollecitato dalla lettura dei libri di Cesare Balbo. Risultato vincitore per due volte della medaglia d’onore dell’Accademia dei Fisiocritici per gli studenti, a 18 anni scrisse un libretto popolare inedito dal titolo Veglie di D. Giocondo, o del governo rappresentativo, dove illustrava in modo semplice e didattico il funzionamento del sistema istituzionale coevo. Tale impegno culturale maturò e si fece ancor più preponderante nel suo profilo di intellettuale negli anni successivi alla laurea, quando, rientrato a Firenze nel 1863 per il conseguimento del titolo di avvocato, scrisse in francese una memoria, mai pubblicata, intitolata La satira presso i Romani, in cui mostrava l’influenza della filosofia greca sulla società romana. Si occupò altresì di teatro scrivendo una commedia in tre atti, anch’essa inedita, dal titolo L’indifferente.
Nel 1866 prese parte alla terza guerra d’indipendenza. Al rientro dall’impegno bellico, iniziò a lavorare al libro Teoria della elezione politica, completato nel 1868 (anno in cui conseguì il premio dell’Accademia di scienze morali e politiche di Napoli), ma edito solo più tardi (Napoli 1870).
In quel testo Padelletti sostenne che il voto politico non era un diritto naturale, ma una funzione di governo e criticò duramente la teoria del suffragio universale. Argomentò contro la sovranità popolare, sostenendo in antitesi la teoria della capacità, rivelabile, sulla base di una presunzione legale, da tre circostanze di fatto: l’esercizio di una professione, lo svolgimento di una funzione pubblica e un certo grado di fortuna (oltre al requisito basilare di saper leggere e scrivere). Se capaci dovevano essere gli elettori, la più ampia possibile poteva essere l’eleggibilità, mentre la rappresentanza era da organizzare in modo da assicurare la presenza delle minoranze. Tali tesi si riannodavano al preliminare convincimento della dipendenza del sistema rappresentativo dal concetto morale cristiano e dalla rilevanza degli interessi economici che «sono la materia del diritto politico» (p. 10), nonché alla consapevolezza che «la rivoluzione fu fatta in tutta Italia dalla borghesia, da una classe intelligente ed operosa, ma che dovendo servirsi delle due classi estreme del patriziato e della plebe per compiere l’opera propria e questa opera urgendo, non poté fermare nell’una e nell’altra la convinzione dei principii che la ispiravano» (p. 3). Ne conseguiva l’esigenza per la scuola liberale di volgersi al popolo e «spezzargli in ogni modo, per ogni via il pane della scienza politica» (p. 4). Di particolare interesse era il profilo metodologico dell’opera, dove si sottolineava con nettezza la necessità per il giurista di svolgere una ricerca storica su cui calibrare la ricostruzione teorica, chiamata a risalire ai principi generali muovendo dai fatti rintracciati nella storia, rivelatrice dei bisogni economici e morali dell’uomo. Da tali premesse scaturì una ricostruzione storica del principio rappresentativo in base alla quale l’apparizione di esso era da rinvenirsi non nell’antichità classica, né nei boschi della Germania, bensì ai tempi delle libertà comunali, le quali «resero possibile la formazione di una classe sociale attiva, industriosa, intelligente, quella che fu detta borghesia o terzo-Stato, e che fa ancora la forza delle nostre società moderne» (p. 21).
Nel 1868 Padelletti si recò a Berlino, dove ebbe modo di conoscere e frequentare Karl Georg Bruns e Rudolf von Gneist. Nella città tedesca compose l’articolo Leoben e Campoformio,secondo nuovi documenti pubblicato dalla Nuova Antologia (IX [1868], pp. 23-59) insieme al saggio Nuova fase della democrazia in Svizzera (ibid., X [1869], pp. 460-510). Nell’aprile 1869 si trasferì presso l’Università di Heidelberg, dove approfondì gli studi romanistici, frequentando Levin Goldschimdt e Rudolf von Jehring. Nello stesso anno scrisse una dissertazione – pubblicata sia in italiano (Teoria della istituzione d’erede ex re certa, in Archivio giuridico, IV [1869], pp. 139-165, 343-386), sia in tedesco (Die lehre von der erbeinsetzung ex-certa re, Berlin 1870) – che destò grande interesse nella cultura giuridica del tempo pur suscitando un vivace dibattito per le conclusioni raggiunte. A Heidelberg, in occasione del congresso dei giuristi del 1869, conobbe Filippo Serafini, che gli aprì le porte dell’insegnamento universitario. Nella seconda metà dello stesso anno, gli fu affidato l’insegnamento di diritto romano presso l’Università di Perugia.
Fra 1869 e 1870 diede alla luce diversi saggi e recensioni, pubblicati nell’Archivio giuridico, nell’Archivio storicoitaliano e nella Nuova Antologia. Dedicò alcune pagine al volume di Francesco Buonamici Delle legis actiones nell’antico diritto romano (Pisa 1868) nella sua prima rassegna intitolata Nuovi studj sulla storia del diritto romano (Archivio giuridico, III [1869], pp. 154-162, 246-251, 489-494): si trattava di una nota critica tesa a sottolineare l’eccessiva erudizione dell’autore a fronte della esigenza di tratteggiare la vita reale del sistema giuridico romano sulla base di una percezione storica del fenomeno processuale e delle sue variazioni dalle più remote origini fino all’epoca giustinianea. Fu anche l’occasione scientifica per rivendicare, più in generale, l’importanza della metodologia storicistica affermata dalla dottrina giuridica tedesca della prima metà dell’Ottocento che aveva posto come fondamento «che mai si potrà arrivare a capire la ragione di quel diritto senza spogliarsi in gran parte dei concetti moderni, senza rivivere colla potenza della critica storica nella Roma della repubblica e dell’impero» (p. 154). Nella sua seconda rassegna intitolata ugualmente Nuovi studj sulla storia del diritto romano (ibid., IV [1869], pp. 611-629), ribadì la fondatezza del criterio della dimensione storica del fenomeno considerato: per studiare il diritto romano nella sua misura oggettiva occorreva preliminarmente che esso fosse calato nella realtà sociale della Roma antica.
Dopo la pubblicazione del saggio Il suffragio universale sulla Nuova Antologia (1870, vol. 14, pp. 55-70), su consiglio di Serafini, concorse alla cattedra di storia del diritto dell’Università di Bologna, che tuttavia fu assegnata a Emidio Pacifici Mazzoni. Il 27 ottobre 1870 sposò a Berlino Hilda Zumpt, dalla quale ebbe due figli, Carlo (1871) e Sofia (1876); in quello stesso mese divenne professore straordinario di introduzione alle scienze giuridiche e di storia del diritto all’Università di Pavia.
Nel 1871 si trasferì all’Università di Bologna, mentre nel 1873, divenuto professore ordinario di storia del diritto, andò a insegnare all’Università di Roma iniziando il suo corso di lezioni con una prolusione dal titolo Roma nella storia del diritto, pubblicata nell’Archivio giuridico (XII [1874], pp. 191-223).
Si trattava di un tema che l’autore stesso ritenne di non poter non affrontare in quanto Roma e il diritto consistevano in «due grandezze», in «due potenti fattori dell’incivilimento europeo, così intrecciati fra loro nel fatto e nella opinione degli uomini» che «la storia del diritto in modo speciale è chiamata a risolvere questo grandioso problema del genio di Roma, che né nelle lettere né nelle arti né nelle scienze puramente speculative esso si manifestò nella vera sua essenza in tutta la lunga vita della città, sì bene nell’arte e nella scienza dell’impero e del diritto, in questo lato severo e ferreo della cultura civile» (pp. 193 s.). In tale prolusione sosteneva che Roma avesse una missione come capitale dello Stato e al tempo stesso della scienza e della scienza del diritto, un tema di fondo certamente calato nei toni dello spirito anticlericale di Padelletti, che ebbe nella produzione scientifica successiva un’eco profonda. Infatti, nei numerosi scritti apparsi sulla Nuova Antologia dal 1874 al 1878, e in particolare nei saggi poi pubblicati in opuscolo, Libera Chiesa in libero Stato: genesi della formula cavouriana (Firenze 1875) e La politica ecclesiasticain Italia (ibid. 1878), Padelletti affermò, attraverso un ragionamento originale rispetto ai contemporanei che animavano il dibattito sui rapporti tra Stato e Chiesa, la necessità della separazione giurisdizionale delle due entità, accogliendo l’isolata tesi espressa da Giuseppe Piola in La libertà della Chiesa (Napoli 1873), che aveva criticato il modello separatista sulla scorta dell’argomento che non di reciproca autonomia di due sistemi si sarebbe trattato, qualora tale modello fosse stato attuato, ma di un autentico annullamento, di una sconfitta dello Stato di fronte alle mire della Chiesa di riprendere la guida del potere temporale dell’Italia. Nel saggio Libera Chiesa in libero Stato, Padelletti affermò che se per un verso era condivisibile l’argomento, proprio del modello separatista, della salvaguardia della coscienza dei singoli da parte dello Stato, per altro verso tale salvaguardia non poteva dirsi prerogativa di quella configurazione, tanto che egli la auspicava in un rinnovato modello giurisdizionalista, di matrice liberale. Nel saggio La politica ecclesiasticain Italia criticò la nozione sulla quale si fondava l’idea stessa di separatismo, vale a dire il concetto di incompetenza dello Stato rispetto alle materie religiose: necessitava, secondo Padelletti, individuare preliminarmente ciò che era religioso e ciò che non lo era e, dunque, garantire l’estraneità dello Stato solo dai principi supremi e dogmatici della religione e non invece da quegli atti della società civile che la Chiesa sottoponeva al suo controllo senza motivi puramente religiosi.
Negli anni accademici 1873-74 e 1874-75 tenne un corso speciale sulle Institutiones del giureconsulto romano Gaio. Nell’estate 1876 pose fine al lavoro Storia del diritto romano. Manuale ad uso delle scuole pubblicato a Firenze nel 1878 e dedicato a Serafini con una lunga lettera in cui Padelletti metteva in evidenza il carattere antidogmatico e non sistematico dell’opera. Il lavoro venne tradotto ed edito a Berlino nel 1879 da Franz Philipp von Holtzendorff con il titolo Lehrbuch der römischen rechtsgeschichte.
Nel 1877 Padelletti pubblicò a Torino il primo (e unico) volume delle Fontes juris italici Medii Aevi con una elegante prefazione latina in cui sottolineava la necessità di rifondare gli studi medievistici sulla scia della grande tradizione muratoriana e dello storicismo graviniano, senza trascurare gli apporti della storiografia giuridica italiana e tedesca più recente, e l’opportunità di restituire un più concreto approccio allo studio delle fonti. Il volume conteneva Edicta regum Ostrogothorum, Edictum regum Langobardorum, Capitulare italicum, Expositio ad librum legis Langobardorum.
Morì a Montalcino la notte del 3 luglio 1878.
Opere. Oltre ai testi citati, si segnalano: L’Alsace et la Lorraine, et le droit des gens, Bruxelles 1871; La rappresentanza proporzionale in Italia, Firenze 1871; Contributo alla storia dello studio di Perugia nei secoli 14 e 15, Bologna 1872; Una pagina della letteratura tedesca durante la guerra 1870-71, Padova 1873; Del nome di Gaio giureconsulto. Nota critica, Bologna 1874.
Fonti e Bibl.: Roma, Archivio storico dell’Università degli studi ‘La Sapienza’, Personale docente, AS 189, Guido Padelletti; necr., E. Brusa, Nécrologie. G. P. 1843-1878, inRevue de droit international et de législation comparée, X (1878), pp. 445-453; L. Palma, G. P., in Nuova Antologia, XL (1878), p. 387; A. Del Vecchio, Necrologia di G. P., in Archivio storico italiano, s. 4, II (1878), pp. 488-493. Inoltre: M.C. De Rigo, I processi verbali della Facoltà giuridica romana 1870-1900, Roma 2002, ad ind.; L. Borsi, Storia, nazione, costituzione. Palma e i ‘preorlandiani’, Milano 2007, pp. 5, 47-49, 51; L. Forni, La laicità nel pensiero dei giuristi italiani: tra tradizione e innovazione, Milano 2010, pp. 10, 82-84, 109, 140; A. Fiori, «Il più atteso postliminio». La Sapienza diRoma da università pontificia ad universitàitaliana, in Retoriche dei giuristi e costruzione dell’identità nazionale, a cura di G. Cazzetta, Bologna 2013, pp. 135-162; G. Negri, P. G., in Dizionario biografico dei giuristi italiani(XII-XX secolo), a cura di I. Birocchi et al., II, Bologna. 2013, p. 1482.