MONZINO, Guido
MONZINO, Guido. – Nacque a Milano il 2 marzo 1928, da Franco, fondatore della Società anonima magazzini Standard, poi Standa, e da Matilde Alì d’Andrea-Peirce, di nobile famiglia siciliana.
Trascorse l’infanzia nella villa di famiglia a Moltrasio, sul lago di Como, le cui atmosfere al tempo stesso luminose e austere influenzarono vita e carattere di un personaggio che potrebbe definirsi uno degli ultimi mecenati-esploratori italiani. Conclusi gli studi classici, iniziò il suo lavoro alla Standa, di cui divenne direttore generale, rimanendolo fino al 1966, quando il gruppo passò alla gestione della Montedison. Nel frattempo, quasi per caso, fece l’incontro che avrebbe segnato profondamente la sua esistenza: la montagna. Verso la metà degli anni cinquanta, totalmente digiuno di alpinismo, salì infatti il Cervino con la guida di Achille Compagnoni, protagonista con Lino Lacedelli della prima scalata del K2.
Il contatto con il fascino grandioso e severo delle montagne rappresentò per Monzino quasi una rivelazione che lo spinse a rincorrere mete sempre più lontane, animato non solo da uno spirito romantico di avventura e di conoscenza, ma anche dal desiderio di riportare l’Italia ai vertici dell’esplorazione. Il suo principale scopo di vita divenne inserirsi nel filone delle grandi spedizioni esplorative che a cavallo fra il XIX e il XX secolo erano state organizzate da colui che fu sempre il suo modello ideale, il duca degli Abruzzi. Accanto alle montagne, anche gli spazi sterminati dei deserti, delle foreste, delle regioni polari divennero mete da perseguire e da raggiungere.
La prima spedizione organizzata da Monzino, la traversata da Dakar, in Senegal, ad Abidjan in Costa d’Avorio, nel 1955, fu il prodromo delle 20 missioni che diresse nei due decenni successivi. L’estate seguente iniziò la collaborazione con le guide di Valtournenche che lo seguirono poi in tutte le altre imprese, così come il Duca degli Abruzzi si era giovato quasi esclusivamente delle guide di Courmayeur. L’obiettivo era percorrere integralmente la lunga e complessa cresta che dalle Grandes Murailles, incombenti sulla conca del Breuil, unisce il Cervino al Monte Rosa.
Come Monzino scrisse in Grandes Murailles (Milano 1957), il primo dei volumi che dedicò a ognuna delle sue imprese, lo scopo era «percorrere cresta per cresta, nel ricordo degli esploratori di ogni paese questa lunga catena dello nostre magnifiche Alpi, dove condizioni avverse possono determinare impegni e difficoltà che eguagliano quelle di lontane spedizioni» (p. 6). Le condizioni meteorologiche furono inclementi e fu necessario compiere l’itinerario in due momenti diversi, ma la perfetta organizzazione permise la permanenza di 12 persone oltre i 3500 m per una ventina di giorni, superando tutti i problemi logistici e ambientali che via via si manifestavano. Fu l’unica grande impresa compiuta da Monzino sulle Alpi.
L’anno seguente iniziò la sequenza di attività extraeuropee, dapprima con la spedizione del 1957-1958 sulle Ande cilene (Cerro Paine e Torri del Paine), per la quale Monzino inaugurò quel coinvolgimento di collaboratori locali affiancati alle guide di Valtournenche che divenne un tratto caratteristico delle sue imprese. Tormente di neve e venti gelidi con punte di 200 km all’ora rallentarono l’ascensione alla cima principale del gruppo, che venne raggiunta dopo 30 giorni di fatiche e tre tentativi.
Monzino nel volume Italia in Patagonia (Milano 1958), a proposito del vento che addirittura sollevava gli alpinisti, scrive: «è sempre imprevedibile la potenza di questo elemento; per oltre cinquanta giorni abbiamo odiato il vento e amato il Paine» (p. 11). Vinta la cima principale, la spedizione si diresse verso le Torri del Paine, le tre eleganti cime di granito che si ergono ripidissime per centinaia di metri. Nonostante la neve, il vento e il freddo intenso venne scalata la vergine Torre Sud – con diversi tratti di sesto grado, valutato in quel periodo la massima difficoltà di arrampicata su roccia –, che dalle guide venne denominata Torre Guido Monzino.
Fu poi la volta del Karakorum, sulle orme dell’amato duca degli Abruzzi, «alla ricerca di una meta che rappresenti un degno programma per le guide del Cervino e per l’alpinismo italiano nel mondo» (Kanjut Sar, Milano 1961, p. 7).
L’inviolata cima scelta come meta, il Kanjut Sar, si alza fino a 7760 m. La scarsa documentazione esistente, innumerevoli problemi di carattere logistico, burocratico, economico e diplomatico, e le cattive condizioni atmosferiche segnarono la fase organizzativa e la marcia dei 12 alpinisti e di oltre 500 portatori. Il carico complessivo era particolarmente pesante (22 t), ma come in ogni spedizione, Monzino volle tenere conto di ogni eventualità, anche per quanto riguardava i problemi dell’alimentazione e dell’organizzazione sanitaria. Alla fine la vetta venne toccata con un’ardita ascensione solitaria dal campo 6 (6670 m) da Camillo Pellissier, una delle guide che con la collaborazione di tutti, come scrive Monzino nel volume sopra citato, «dette all’Italia una pagina certamente pura d’ideale alpinistico in terra straniera» (p. 9).
Dal 1959, oltre un decennio di spedizioni vide Monzino e i suoi uomini calcare le cime più alte dell’Africa (Kilimanjaro, Kenya, Ruwenzori), i massicci montuosi del Sahara (dal Tibesti all’Hoggar) e, in un susseguirsi continuo di contrasti ambientali, le cime e i ghiacciai della Groenlandia, terra che, come scrisse in Spedizioni d’alpinismo in Groenlandia (Milano 1966), «lascia davvero un male o una malia forse ancora più penetrante dell’Africa stessa, certamente duratura, forse leggermente angosciosa» (p. 7). La decina di imprese compiute in questa regione portò alla scoperta di zone sconosciute, alla salita di cime vergini, a lunghi percorsi sulla banchisa artica. Nel 1962, con due distinte spedizioni, Monzino toccò il 72° e successivamente il 77° parallelo, compiendo fra l’altro la prima ascensione della parete sud del Pollice del Diavolo. Nel 1963 e nel 1964 si dedicò alla scalata delle Alpi Stauning nella Groenlandia Orientale, preludio al lungo capitolo dell’esplorazione polare che lo coinvolse in un programma articolato in cinque spedizioni dal 1968 al 1971: dalle crociere nautiche ai viaggi di allenamento con slitte e cani sulla banchisa e infine al balzo verso il Polo Nord nel 1971, quando concluse la sua impresa probabilmente più significativa dal punto di vista della storia dell’esplorazione, raggiungendo i 90° di latitudine nord con i mezzi tradizionali delle slitte e dei cani. Fu la prima volta che la bandiera italiana venne issata al Polo Nord, dopo che il duca degli Abruzzi il 25 aprile 1900 aveva raggiunto gli 86° 43’ nord.
In realtà il Polo Nord era stato già raggiunto in svariate occasioni con aerei, dirigibili, fra cui lo sfortunato Italia di Nobile nel 1926, sottomarini nucleari, slitte a motore. Tuttavia, se si considerano solo le spedizioni con slitte trainate da cani, Monzino fu preceduto unicamente dal gruppo guidato dall’inglese Wally Herbert, che nel 1969 aveva attraversato la banchisa polare dall’Alaska alle Spitsbergen. La spedizione, che partì da Cape Columbia sull’isola canadese di Ellesmere il 2 aprile 1971, era composta, oltre che da Monzino, da Mirko Minuzzo e Rinaldo Carrel della Valtournenche, dal cileno Arturo Aranda come vicecapospedizione, da due tecnici di radiotrasmissione danesi e da 22 guide eschimesi. Le slitte erano 23, trainate da 330 cani, per i quali erano state approvvigionate 25 tonnellate di pemmican, impasto di carne e pesce in polvere. L’equipaggiamento univa le tradizioni esquimesi (come i giacconi di pelliccia di caribù o gli stivali di pelle di foca) ad attrezzature e mezzi moderni (come il bimotore Twin Otter utilizzato per il controllo dall’alto della posizione e per lanci di scorte integrative). La marcia si rivelò lunga e difficile a causa della banchisa molto irregolare e in continua trasformazione, a tratti ricoperta di neve soffice, a tratti interrotta da canali o da dighe di pressione, con temperature anche inferiori a -45°. Il 19 maggio venne raggiunto il Polo Nord, ma il ritorno si presentò ancora più difficile per il progressivo aumento della temperatura che rendeva sempre meno compatta la banchisa sul Mar Glaciale Artico e costringeva a superare canali che si aprivano da ogni parte. Dopo 71 giorni e dopo avere percorso con le slitte poco meno di 5000 km di banchisa, la spedizione si concluse il 20 giugno 1971.
Nei progetti di Monzino restava un’altra meta non ancora toccata dagli italiani, il tetto del mondo non nel senso della latitudine ma nel senso dell’altitudine, l’Everest, la montagna più alta della terra. Anche in questo caso l’organizzazione della spedizione, quasi in concomitanza con l’impresa polare, fu gravosissima. Monzino progettò il coinvolgimento di tutte le forze armate italiane con i loro vari corpi. Come scrisse nel volume La spedizione italiana all’Everest 1973 (Verona 1976), «l’intento è quello di portare il tricolore sulla più alta montagna del mondo, per concorrere sul piano internazionale ad un’affermazione di prestigio per la patria» (p. 32).
Alla fine la spedizione vide la partecipazione di 54 militari e 11 civili. Nove C-130 della 46a Aerobrigata trasferirono a Kathmandu in Nepal oltre 100 tonnellate di materiale, inclusi due elicotteri. La carovana che percorse la valle del Khumbu verso l’Everest comprendeva 150 persone tra italiani e sherpa, 2000 portatori e centinaia di yak. Il 20 marzo 1973 fu allestito il campo base a 5360 m ai piedi dell’Everest; fu un vero piccolo villaggio con una sessantina di tende, mensa, bar, alloggi riscaldati, ufficio postale e piccolo ospedale. Vennero poi attrezzati i vari campi in quota. Nonostante il pessimo tempo e le intense nevicate, furono collocate due piccole tende al campo 6 a 8513 m, dal quale tra il 5 e il 7 maggio, accompagnati da tre sherpa, toccarono la vetta gli alpini Rinaldo Carrel, Mirko Minuzzo, Virginio Epis, Claudio Benedetti e il carabiniere Fabrizio Innamorati.
Quella di Monzino all’Everest fu l’ultima grande spedizione himalayana di tipo tradizionale e, come in generale tutte le sue imprese, non incontrò mai totali consensi presso il mondo alpinistico d’élite, soprattutto per la larghezza e il dispendio dei mezzi impiegati. Fu anche l’ultima impresa esplorativa di Monzino, che si dedicò poi ad attività in campo agricolo e industriale in Italia e all’estero e a opere di sostegno per le popolazioni del terzo mondo. Nel 1974, sempre affascinato dal paesaggio del Lago di Como, acquistò e restaurò la settecentesca villa del Balbianello a Lenno, fra Menaggio e Argegno, per farne un grande centro geografico ed esplorativo. Quando morì, sessantenne come il duca degli Abruzzi, volle che la villa e il parco annesso fossero donati al Fondo italiano per l’ambiente (FAI).
Morì l’11 ottobre 1988 a Milano.
Volle essere sepolto, con la testa rivolta a nord, nell’antica ghiacciaia della villa del Balbianello, ora divenuta un museo che raccoglie i cimeli delle sue spedizioni.
Fonti e Bibl.: M. Fantin, Alpinismo italiano nel mondo, Bologna 1972, pp. 198, 497, 499, 502, 831, 1006, 1040; W. Unsworth, Everest, London 1989, pp. 436, 461; C. Ajmone Cat, G. M., l’ultimo signore di Balbianello e le sue ventuno spedizioni, Verbania 1997; L. Revojera, Quando l’alpinista era anche mecenate, in Lo Scarpone, 2009, n. 1, p. 2; A. Ceol, G. M., 20 anni dopo, in Montagnes Valdôtaines, 2009, n. 1, p. 6.