Machiavelli, Guido
Nacque presumibilmente tra il 1512 e il 1513 da Niccolò e da Marietta Corsini, quarto di sette figlie e figli. Di salute cagionevole e di animo sensibile, divenne, con il favore del padre, uomo di lettere e di Chiesa. Il 2 aprile 1527, Niccolò scriveva al figlio dei propri contatti in ambito ecclesiastico («oltre alle grandi amicizie che io ho, io ho fatto nuova amicizia con il cardinale Cibo»), esortandolo, quindi, a dedicarsi allo studio: «se tu ti aiuterai, ciascuno ti aiuterà» (Lettere, p. 455). Nel rispondergli Guido lo rassicurava: «comincierò questa Pasqua [...] a sonare e cantare e fare contrapunto a tre. [...] Della gramatica io entro oggi a’ participii, et àmmi letto ser Luca quasi il primo di Ovidio Metamorphoseos» (17 apr. 1527, Lettere, p. 460). Lo scambio epistolare attesta un profondo legame tra padre e figlio: «era Guido, forse, che egli amava di più» (Ridolfi 1954, p. 360).
Guido divenne priore di S. Martino e S. Giusto a Lucardo (piccola pieve nella zona di Montespertoli, antico feudo della famiglia Machiavelli), da cui si spostava spesso a Firenze per motivi di studio (Caserta 1996, p. 17). La vita agreste gli diede occasione di ripensare il tema classico dell’otium letterario, accentuandone gli aspetti spirituali e strettamente legati all’attività religiosa. In un’epistola a Giulio de’ Nobili la contrapposizione tra campagna e città si nutre di richiami cristiano-neoplatonici, fino a profilarsi come uno scontro tra Bene e Male, tra la Virtù ispirata dalla vita in provincia e i Vizi causati dalle abitudini urbane («invidia», «ambizione»), frutto di un allontanamento dalla natura che equivale a un distacco da Dio (Caserta 1996, p. 18). Le aspirazioni religiose convivono con quelle letterarie in un’altra missiva, anch’essa priva di data, inviata a fra’ Fulgenzio: ringraziando il frate per avergli recato aiuto e conforto in un momento di crisi, Guido allegava un capitolo di contenuto morale, andato perduto; dichiarava di aver voluto lasciare testimonianza degli insegnamenti ricevuti dall’amico, che lo avevano aiutato a «vivere in pace», «stare allegro» e «far meglio le faccende» (Caserta 1996, p. 18). In base a un sermone, dal titolo Exortatio ad fratres, Paolo Caserta (1996, p. 19) ipotizza l’appartenenza di Guido a una confraternita, oppure una sua partecipazione alle riunioni pubbliche dell’Accademia fiorentina.
L’ipotesi di un rapporto più o meno diretto con gli ambienti accademici tiene conto anche della vicinanza degli interessi culturali di Guido a quelli dell’Accademia: in un suo volgarizzamento degli Adelphoe di Terenzio, Guido utilizzava il nome Etrurianus che, oltre a suonare vagamente accademico, riconduceva le origini della lingua fiorentina a quella etrusca, in linea con la ‘mitologia etrusca’ diffusa nella Firenze cosimiana. Nel tradurre il testo terenziano, Guido decise di riscriverne il finale, accentuandone il contenuto morale: «la giovanezza vi fa parere dolce quello che un giorno conoscerete amaro tosco!» (Ex Adelphis traductio Guidonis Etruriani materna lingua).
Oltre ad avvicinarsi al modello umanistico di letterato, recuperando la pratica erudita di tradurre e riscrivere commedie classiche, Guido mostra di condividere l’approccio alla drammaturgia antica offerto dalle lezioni di Angelo Poliziano sull’Andria di Terenzio, in cui si valorizzavano le finalità morali e pedagogiche del genere comico. Lo stesso Niccolò, volendo identificare e definire le finalità della commedia, sceglieva di parafrasare una nota formula del commento a Terenzio del grammatico Donato: «il fine di una commedia» è «proporre uno specchio d’una vita privata» (Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua, § 65). L’interesse di Guido per il comico e la satira morale ha altre conferme. Rimane l’inizio di un suo volgarizzamento del Momus di Leon Battista Alberti, presumibilmente frutto di un lavoro a quattro mani, che vide il coinvolgimento del nipote Giuliano de’ Ricci (→, cui si deve inoltre una copia rielaborata e incompleta della Tizia – vedi oltre – forse derivata da una prima redazione della commedia). Inoltre, Guido promosse la pubblicazione dell’Asino (→) trasmettendone l’autografo o una bella copia ai Giunti, che lo pubblicarono con altre operette machiavelliane nel 1549, e si fece promotore della produzione letteraria paterna trascrivendo il capitolo “Dell’Ingratitudine” (BNCF, CM V 184, ff. 436ra-438ra).
In quegli stessi anni scrisse una commedia, Tizia, la cui data di composizione è da collocarsi presumibilmente intorno al 1550 (cfr. Caserta 1996, pp. 33-43). Il protagonista è Luzio di Baldo Anselmi, mercante fiorentino innamorato di Julia, giovane siciliana da lui messa incinta e abbandonata per fuggire la punizione del fratello, di cui Luzio era servitore. L’antefatto si ispira direttamente a due novelle decameroniane: la settima della settima giornata, in cui Lodovico entra al servizio di un aristocratico bolognese al fine di sedurne la moglie; e la settima della quinta giornata, dove un giovane, tenuto per servo, ama la figliuola del padrone e rischia perciò di finire sulla forca. La struttura della Tizia prevede, tuttavia, un raddoppio del contrasto erotico: Luzio, su esortazione del parassita Parmeno, trova rimedio alle sofferenze amorose causate dalla relazione con Julia, corteggiando la vedova fiorentina Lucrezia, amata anche dal vecchio senese Matteo. Lo scioglimento dell’intreccio si serve di una serie simmetrica di agnizioni: Matteo si scopre essere il padre di Lucrezia, che a sua volta ritrova il marito, creduto morto; Luzio, raggiunto a Firenze da Julia, la prende in sposa.
Il motivo base della commedia, quello del conflitto tra vecchi e giovani, permette a Guido di riutilizzare un espediente comune alla Casina di Plauto e alla Clizia di M. padre: la sostituzione dell’innamorato con un suo fattore, a cui la giovane amata dovrebbe andare in sposa per sottrarsi al vecchio pretendente. Attraverso questo personaggio, a entrare in scena nella Tizia è l’elemento della ‘beffa’, di cui sono vittime sia il fattore sia il vecchio innamorato, qui nei panni dello sciocco più che dell’antagonista.
La figura di Matteo Intronati rappresenta la sintesi di due culture teatrali in contrasto: quella senese, a cui rimanda il cognome del personaggio, e quella fiorentina. La prima, caratterizzata dal riutilizzo di motivi tragici e trattatistici, offre a Guido il materiale erotico-romanzesco per la costruzione della trama; la seconda, da cui è preso in prestito il motivo della ‘beffa’, lo indirizza in modo più diretto verso il recupero della tradizione comica e novellistica toscana.
Se M. padre aveva istituito un rapporto preciso, di natura soprattutto linguistica, con la commedia terenziana (Raimondi 1972, pp. 173, 183), Guido, pur tenendo presente l’archetipo strutturale della commedia antica, si rivolge alla tradizione canterina, attingendo, a livello linguistico ed espressivo, al Morgante di Luigi Pulci (Caserta 1996, p. 44). Considerato che questa stessa opera era stata segnalata da M. padre quale modello esemplare di lingua fiorentina (Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua, § 45), l’iniziativa da parte di Guido di pubblicare opere del padre e la composizione di una commedia potrebbero essere interpretate come tappe di un medesimo percorso, volto alla valorizzazione, attraverso il genere comico, del volgare fiorentino, in linea con la politica del duca Cosimo. Sono anche da notare i probabili contatti di Guido con il senese Antonio Renieri, Accademico Intronato, autore di una produzione letteraria organica «alle direttive culturali del potere mediceo» (Caserta 1996, p. 53 nota) che potrebbe essere stata presente nella biblioteca di Guido, accanto ad altri testi considerabili vere e proprie fonti per la scrittura della Tizia: dalle commedie senesi (in particolare Gli ingannati e L’amor costante) a La cortigiana e I ragionamenti di Pietro Aretino, passando per La pisana di Lorenzo Strozzi, situata alle origini del teatro rinascimentale fiorentino, in versi e con finalità esplicitamente morali.
La vita di Guido conobbe momenti difficili. Al potente funzionario della segreteria di Cosimo, Agnolo Biffoli, Guido si rivolgeva in un momento di crisi economica e familiare: nel 1556 il fratello Piero, navigatore e cosmografo, era stato catturato dai turchi per la terza volta. A preoccupare non era solamente la salute del fratello minore, ma anche le difficoltà finanziarie che rischiavano di finire sulle spalle di Guido stesso e dell’altro fratello, Bernardo, questore pontificio a Perugia, descritto nella lettera come «annoso e infermo» (Guido ad Agnolo Biffoli, 5 dic. 1556, BNCF, CM V 122).
La sua carriera rimase circoscritta ad ambienti ecclesiastici di provincia. Non risulta avesse esito positivo la richiesta di ottenere un ‘decanato’, che ha lasciato traccia in lettere di Guido a Piero (12 apr. 1563) e di Cosimo I de’ Medici a Guido (27 ag. 1563). Nel 1564 Guido scrisse un Epitaffio per Piero Machiavelli, a testimonianza di un rapporto privilegiato con il fratello minore, a cui nel 1544 egli, gravemente malato, aveva ceduto i propri benefici. Guido morì il 15 ottobre 1567 e fu sepolto nella chiesa di S. Croce in Firenze il giorno 25 dello stesso mese.
Bibliografia: Fonti: Guido Machiavelli a Piero Machiavelli a Livorno, di Firenze il 12-4-1563, BNCF, CM V 117; Guido Machiavelli a Dionisio Lippi in risposta ad una sua lettera, da Montespertoli il 26 ottobre 1564, BNCF, CM V 118; Attilio Renieri a Guido Machiavelli da Colle il 15-12-1565, BNCF, CM V 119; Guido Machiavelli a Mess. Giulio de’ Nobili, BNCF, CM V 120; Guido Machiavelli a Fra’ Fulgenzio monaco di Valleombrosa, suo intimo amico, BNCF, CM V 121; Mess. Guido Machiavelli a Mess. Agnolo Biffoli, di Firenze il 5-12-1556, BNCF, CM V 122; Epitaffio per Piero Machiavelli di mano del sacerdote Guido suo fratello, BNCF, CM V 170; Ode latina funebre: “Ad Uidum Maclavellium in Petri fratris obitum”, BNCF, CM V 177; Sermone di Guido Mach. intitolato Exortatio ad Fratres, recitato in una compagnia, BNCF, CM V 179; Traduzione dell’inizio del libro primo del Momo di Leon Battista Alberti, BNCF, CM V 182; Ex Adelphis traductio Guidonis Etruriani materna lingua, BNCF, CM V 450; Lettere del Duca Cosimo I, ASF, Mediceo del Principato, filza 219, c. 176v; G. Molini, Carte appartenenti a Guido Machiavelli sacerdote, BNCF, CM V 178-187.
Per gli studi critici si vedano: N. Tommasini, La vita e gli scritti di Niccolò Machiavelli nella loro relazione col machiavellismo: storia ed esame critico, 1° vol., Torino-Roma 1883, pp. 218-19; P. Villari, Niccolò Machiavelli e i suoi tempi illustrati con nuovi documenti, 3° vol., Milano 19143, pp. 39, 356, 365, 367, 474; R. Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, Roma 1954, pp. 359 e segg., 366-67, 468, 479-80; E. Raimondi, Politica e commedia. Dal Beroaldo al Machiavelli, Bologna 1972, pp. 173, 183; M. Baratto, La commedia del Cinquecento: aspetti e problemi, Vicenza 1975, p. 72; S. Bertelli, P. Innocenti, Bibliografia machiavelliana, Verona 1979, pp. XXXVII, XLI; G. Cipriani, Il mito etrusco nel Rinascimento fiorentino, Firenze 1980, pp. 71-112; L. Riccò, L’Accademia e la novella nel Cinquecento: Siena e Firenze, in La novella italiana, Atti del Convegno, Caprarola 19-24 settembre 1988, 2° vol., Roma 1989, pp. 923-37; P. Ventrone, Gli araldi della commedia. Teatro a Firenze nel Rinascimento, Pisa 1993, pp. 169-77; P. Caserta, introduzione a G. Machiavelli, Tizia, Roma 1996, pp. 15-66.