GUIDI, Guido
Nacque nel 1221 o 1222 dal conte Tegrimo - figlio del conte Guido (VII), detto anche Guido Guerra (III) - e da Albiria, figlia di Tancredi re di Sicilia, data in terze nozze a Tegrimo direttamente da Federico II nel 1220.
Figlio unico, il G., fin da ragazzo, fu col padre al seguito di Federico nelle sue campagne in Italia; non sappiamo però se egli al momento in cui Tegrimo resse come podestà Pisa nel 1236 e nel 1239 fosse con lui o fosse rimasto fra i cavalieri di Federico II. Partecipò con l'esercito imperiale, a cui si era unito il padre, alla presa di Sarsina dove fu imprigionato il vescovo della città, atto per il quale chiese e ottenne, insieme col padre, formale assoluzione dal papa Innocenzo IV nel 1252. Per il prestigio acquisito fra i seguaci di Federico II dal padre e da lui stesso, al G. fu affidata la podesteria di Arezzo nel 1247.
Come podestà fece fortificare il castello di Chiusi e si adoperò, su sollecitazione di Federico d'Antiochia, figlio dell'imperatore e vicario a suo nome in Toscana, a difendere l'abbazia aretina delle Ss. Flora e Lucilla dalle ingerenze dei canonici e del vescovo di Arezzo.
Con la morte di Federico II, come tutti i rappresentanti della casata, dovette subire un brusco cambiamento d'orizzonte. Partecipò nel 1254, a nome proprio e del padre, alla vendita - probabilmente in larga parte imposta - delle loro quote parti nei castelli di Montemurlo, Empoli, Montevarchi, al Comune di Firenze. In quell'anno era sicuramente già sposato con Adelasia, figlia del conte Bonifazio di Panico, che ratificò come consorte tali cessioni; valutando l'età dei figli, è probabile che l'unione sia avvenuta nei primissimi anni Quaranta.
Al di là del titolo di conte di Modigliana - assunto per primo sembrerebbe proprio dal G. stesso - i suoi beni e i suoi interessi si concentravano in tre aree: l'area romagnola, il cui caposaldo era Modigliana, pur condiviso con i parenti, ma dove vi erano quote di diritti anche su vari altri castelli tra la valle del Lamone e quella del Savio e che portava al coinvolgimento nella politica faentina; l'area toscana fra Casentino e Val di Sieve, dove oltre al castello di Porciano nell'alto Casentino teneva San Godenzo e San Bavello, con il prestigioso palazzo dello "specchio", così detto per il raro - per allora - uso di vetri alle finestre che così brillavano al sole; infine il Valdarno superiore allo sbocco della Val d'Ambra, dove egli aveva innescato su una serie di possessi precedenti le basi per ritagliarsi un altro nucleo di potere compatto. Partendo dal castello di Caposelvi e dalla torre di Galatrona che il padre con i fratelli avevano tolto agli Ubertini negli anni Venti del Duecento, il G., dopo la morte di Federico II, si era dedicato specificamente a questa zona tanto da venire in contrasto con il Comune di Arezzo. Nel 1255 si era giunti a un accordo in base al quale egli si poneva in accomandigia al Comune di Arezzo per i castelli di Val d'Ambra. La teorica superiorità aretina non gli impediva però di consolidare il proprio dominio: fra 1260 e 1262 acquistò i castelli di Pogi e di Bucine e ricevette di conseguenza il giuramento di fedeltà dai loro abitanti.
Il territorio fu organizzato in un distretto compatto - cui più tardi venne dato il nome di viscontado di Val d'Ambra - per il quale venne anche predisposta una raccolta statutaria promulgata dallo stesso G., che è una delle prime e più significative testimonianze di legislazione signorile (seppure frutto di un probabile processo di stratificazione in più fasi). Per l'amministrazione di tale territorio fu istituita sul modello cittadino una carica podestarile annuale, che il G. affidò varie volte a esponenti della nobiltà aretina. Il legame creatosi con tale città gli permise di svolgervi, nel 1264, insieme col conte Guido Guidi da Romena, un ruolo di pacificatore fra le fazioni.
Il G. fu comunque attivo in questi anni anche sull'altro versante appenninico. Nel 1258, approfittando di una divisione interna a Faenza, aveva cercato di riedificare e munire le rocche di Cepperano e Pietramora, che i Faentini avevano in precedenza ottenuto di distruggere in quanto minaccia alla libertà cittadina. La città però reagì e, dopo un periodo di guerra, impose nuovamente al G. la distruzione dei due castelli e l'inserimento del loro territorio nel contado cittadino. Nello scontro, o forse prima, i Faentini avevano istigato la ribellione di Modigliana che fu repressa dal G. e dai parenti; tuttavia, per rinsaldare il legame di fedeltà, fu necessario fissare dei patti reciproci fra il signore e i suoi soggetti, patti che assunsero anche in questo caso caratteristiche simili a un testo statutario, ma che dovettero venire ancora rivisti attraverso una mediazione del Comune di Forlì nel 1271. Per converso il G. otteneva nel 1274, dopo un'altra serie di scontri, la distruzione del castello che i Faentini avevano costruito all'interno del suo territorio.
Non sembra che il G. abbia preso parte all'accordo di pace che il papa Gregorio X mediò nel 1273 tra Firenze e i principali esponenti ghibellini dei Guidi, forse per un suo maggior coinvolgimento in questo periodo nell'area romagnola. Con il prevalere a Faenza della fazione ghibellina e l'accoglimento in essa dei fuorusciti bolognesi della parte dei Lambertazzi, il G. si riaccostò politicamente alla città, militò quindi con i suoi uomini sotto Guido da Montefeltro contro i guelfi bolognesi e partecipò alla vittoria su di essi nella battaglia del ponte a S. Procolo dell'aprile 1275, avendo attorno a sé gran parte dei figli maschi, che costituivano di fatto un nutrito gruppo di giovani cavalieri, alcuni dei quali si erano già distinti nelle lotte di fazione in Faenza, Arezzo e Bologna.
Dal matrimonio con Adelasia erano nati otto maschi: Ruggero, Bandino, Tegrimo, Bonifacio (Fazio), Tancredi, Guido, Corrado, Gualtieri e tre femmine: Tancia, Albiera e Margherita. Quest'ultima morì nel 1275; le sue nozze, poco più che bambina, nel 1256 con Bonifacio di Susinana erano state importanti poiché, oltre a essere una delle ultime occasioni di riunione pacifica di molti dei conti Guidi, avevano costituito un tentativo di creare una alleanza fra i conti Guidi e i Pagani da Susinana, signori di una vasta area nella valle del Senio.
Nel 1275 il G. con i figli, in netto contrasto con l'orientamento espresso da Firenze e dalle città guelfe, era fra i signori che accolsero a Faenza Rodolfo di Hoheneck, cancelliere di Rodolfo d'Asburgo, cui in tale occasione giurarono fedeltà oltre che appoggio nella sua aspirazione a scendere in Italia per essere incoronato imperatore. L'anno successivo il G. e i figli fronteggiavano, insieme con Maghinardo di Susinana, l'esercito guelfo fiorentino inviato in Romagna sotto il comando di Guido Salvatico Guidi di Dovadola, che costrinsero a ripiegare oltre Appennino. Nel 1280 anche il G. e i figli aderirono alla mediazione di pace fra le fazioni guelfa e ghibellina promossa da papa Niccolò III e portata a termine dal suo legato cardinale Latino Malebranca. Nei ripresi rapporti con i vertici dell'élite guelfa si inserisce la richiesta nello stesso anno da parte del G. al potente Vieri Cerchi di un prestito di 1000 lire. Sul versante romagnolo, una concreta trattativa di pace fra i conti di Modigliana e i rappresentanti militari della Chiesa in Romagna fu intrapresa solo l'anno successivo. Nel gennaio 1282 i conti di Modigliana, e con loro il conte Manfredi Guidi figlio di Guido Novello, si accordarono con Guillaume Durand e Jean d'Eppe: passando dal sostegno a Guido da Montefeltro a quello della Chiesa i conti ottenevano di salvaguardare i loro beni e diritti in Romagna, compresi palazzi e beni a Faenza - anche se Modigliana doveva temporaneamente essere tenuta dal guelfo Guido Salvatico di Dovadola - ma erano costretti a scendere in campo contro lo stesso Guido da Montefeltro insieme con le truppe del legato papale. Lo scontro, avvenuto il 1° maggio 1282 a Forlì e risoltosi con la vittoria del Montefeltro, vide forse per l'ultima volta il G. combattere insieme con i figli. Più o meno tutti tornarono presto a schierarsi dalla parte ghibellina, a parte Fazio e poi Ruggero, ma per ragioni di prestigio o di interesse scelsero ognuno percorsi diversi e a volte in contrasto l'uno con l'altro.
Nell'agosto dello stesso anno il G. fece riprendere a un suo vassallo, con gli armati radunati nei castelli della Val d'Ambra, il castello e il borgo di Caposelvi, che si erano ribellati alla sua signoria, con uccisione di alcuni abitanti, incendi e saccheggi. A seguito di tale fatto il governo fiorentino, che aveva promosso la ribellione, condannò il G. e i suoi uomini. Nel 1284, egli si oppose alla pretesa della Chiesa e dei Faentini di inglobare nel loro territorio i castelli di Cepperano, Bertinoro e Marradi, ma non prese parte alla successiva nuova guerra di Romagna in cui i figli furono protagonisti.
Nel 1287 come suo ultimo incarico politico tenne la podesteria di Siena.
Morì il 23 maggio 1293, preceduto tre anni prima dal figlio Corrado e seguito dopo poco dalla moglie. La vasta, ma disarticolata, compagine di territori e diritti che aveva costruito e difeso passava ai figli che però, fra divisioni interne e assalti esterni, non poterono preservarla.
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