DONEGANI, Guido
Nacque a Livorno il 26 marzo 1877 da Giovanni Battista e Albina Corridi. La famiglia Donegani faceva parte dell'élite imprenditoriale livornese ed era impegnata dalla metà dell'Ottocento in una attività di esportazione e importazione legata al trasporto marittimo.
Il raggio d'affari della ditta andava oltre l'ambito locale. Intensi erano all'inizio del secolo i rapporti con la Banca commerciale italiana, con la quale si era particolarmente impegnata in alcune iniziative in campo minerario, come la costituzione nel 1904 della Société des phosphates tunisiens per l'acquisto delle miniere di fosfati di Kalaa Djerda.
Il D. si laureava in ingegneria a Torino nel 1901. L'anno successivo veniva eletto a Livorno consigliere provinciale nelle liste liberali e in seguito, come assessore ai Lavori pubblici, si segnalò per la costruzione dell'acquedotto di Filettole che risolse il problema dell'acqua potabile della città toscana. Dopo la laurea il D. si era occupato di demolizione di navi presso i cantieri Ansaldo e nel 1903 - il padre e lo zio, Giulio Donegani, erano nel consiglio d'amministrazione da quattro anni - lavorava per la Montecatini come caposervizio della miniera che aveva dato il nome all'impresa.
La Società anonima delle miniere di Montecatini era stata fondata a Firenze il 26 marzo 1888 da possidenti e uomini d'affari italiani e stranieri per sfruttare le miniere di rame di Montecatini in Val di Cecina, un villaggio della Maremma toscana. Il primo presidente della società fu G. B. Serpieri, già proprietario di diverse miniere, mentre vicepresidente era il banchiere parigino Jules Rostand. La scarsità di minerale ricco era uno dei maggiori ostacoli che la nuova impresa dovette affrontare, tanto che già nel 1889, per integrare le risorse cuprifere, acquistava la miniera di Boccheggiano e a fine secolo controllava i giacimenti di Fenice Massetana e Capanne Vecchie, tutti in Maremma. Ma la maggior difficoltà dei primi anni era certamente costituita dalle fluttuazioni dei prezzi del minerale, data la forte instabilità dei mercati internazionali. Particolarmente grave era la crisi che si ebbe nel 1907, allorché il valore della produzione passò dai 4.738.000 dell'anno precedente a 2.782.000 mentre l'utile cadde da 1.365.000 a 4.000 lire. Tuttavia la Montecatini, grazie alla solidità economica che le derivava dalla presenza fra i suoi azionisti delle grandi banche miste e di importanti interessi finanziari e commerciali francesi, attuò una serie di tentativi per sfuggire allo stato di incertezza che le era causato dal prodotto rame. Il più importante fu quello che condusse nel 1908 a Boccheggiano, alla scoperta di un giacimento di pirite, materia prima fondamentale per l'acido solforico, prodotto chiave della chimica per l'agricoltura, uno dei settori industriali più promettenti del paese.
In quello stesso anno Giovanni Battista e Giulio Donegani proposero la fusione fra la Montecatini e l'Unione piriti, il maggiore produttore italiano, a sua volta controllata dall'Unione concimi, la più grande azienda chimica del paese. Nel 1908 il tentativo non ebbe buon esito per l'opposizione della Commerciale e del Credito italiano, azioniste della Montecatini ma interessate anche all'Unione concimi. Ma due anni più tardi l'impresa chimica appariva in una condizione critica non superabile se non con la cessione delle azioni dell'Unione piriti. Il progetto dei Donegani, che attraverso una serie di complicati accordi con le banche italiane e con gruppi francesi esercitavano un ruolo decisivo nell'assetto proprietario della Montecatini, poté quindi realizzarsi.
Nel 1910, alla morte del padre, il D. entrò nel consiglio d'amministrazione ed era nominato amministratore delegato realizzando nello stesso anno l'assorbimento dell'Unione piriti. Da quel momento sino al 1945 l'identificazione fra il D. e la Montecatini fu totale. La nuova guida dell'azienda imponeva fin dall'inizio una serie di misure che segnarono una svolta come la riorganizzazione e il potenziamento impiantistico, la modifica dell'organizzazione del lavoro, la ristrutturazione della rete commerciale. I risultati sul piano economico furono immediati: da una produzione di 118.819 tonnellate di piriti nell'esercizio 1911 si saliva alle 238.895 tonnellate del 1914, mentre il valore della produzione, quasi quattro milioni nel 1911, era più che raddoppiato nel 1914. Le difficoltà a collocare sul mercato questi quantitativi induceva il D. a progettare un tentativo di integrazione verticale verso la produzione di perfosfati, un settore cresciuto caoticamente in Italia dall'inizio del secolo, periodicamente afflitto da crisi di sovraproduzione e tuttavia di grande interesse dato il peso decisivo dell'agricoltura nell'economia del paese. All'iniziativa del D. si opponevano alcuni autorevoli consiglieri della Montecatini, preoccupati di un possibile conflitto con i due maggiori clienti della società, l'Unione concimi e la Colla e concimi. Tuttavia il D. ottenne in questa circostanza il decisivo aiuto del direttore della Banca commerciale G. Toeplitz. La Montecatini costituiva quindi nel 1913 con la Metallurgica italiana di Livorno la Società per lo sviluppo dei superfosfati e prodotti chimici in Italia. Il disegno di integrazione subiva una battuta d'arresto, date le condizioni eccezionalmente favorevoli create dallo scoppio della grande guerra per le attività minerarie. Crebbe naturalmente l'estrazione delle piriti, data la richiesta d'acido solforico per gli esplosivi.
Ritornarono attive persino le quasi esaurite miniere di rame necessario alle coroncine dei proiettili di grosso calibro. Si tentarono iniziative in campi nuovi come nel settore della lignite e della torba ma soprattutto dello zolfo, la più rilevante risorsa mineraria dei paese.
Nel 1917 la Montecatini assorbiva la Società miniere sulfuree Trezza Albani Romagna, il più importante proprietario di miniere e raffinatore italiano fuori della Sicilia, ed elevava a 50 milioni il capitale sociale che all'inizio del conflitto era di 15 milioni. Al termine della guerra la Montecatini era il punto di riferimento dell'industria mineraria italiana; dominava nel rame e nelle piriti dove incideva rispettivamente per il 98% ed il 79% del mercato nazionale, controllava direttamente un settimo e indirettamente un terzo della capacità produttiva di zolfo, era largamente presente sia nell'attività di raffinazione di quest'ultimo minerale che nelle iniziative per sviluppare i giacimenti nazionali di combustibili fossili.
La crescita artificiale del settore minerario creata dal conflitto sembrava far considerare seriamente la possibilità di concentrarsi in questa attività anche nel dopoguerra; ciò in relazione sia all'ipotesi di un'ampia domanda di materie prime in una fase di intensa ripresa produttiva, sia alla speranza dell'acquisizione per l'Italia di territori nei Balcani e in Asia ricchi di risorse minerarie. Le aspettative andarono deluse, ma la Montecatini, che non aveva disperso le proprie iniziative né si era lanciata in operazioni borsistico-speculative, evitò la sorte dei "colossi dai piedi d'argilla" come l'Ansaldo e l'Ilva.Alla fine del conflitto fu necessario tuttavia un cambiamento degli indirizzi generali dell'impresa e si ripropose quindi il disegno di integrazione verso il settore chimico. Aveva inizio negli ultimi mesi del 1918 un insistente assedio alle due maggiori società produttrici di perfosfati, l'Unione concimi con sede a Milano, che poteva vantare 70 milioni di capitale sociale e il controllo di un gruppo di 16 ditte operanti nell'Italia settentrionale, e la Colla e concimi di Roma con 30 milioni di capitale che svolgeva la sua attività nel Centrosud. Già nel 1917 era stata assunta una consistente partecipazione nell'Unione concimi; il D. e il fratello Gustavo erano entrati nel consiglio d'amministrazione nell'ottobre 1918, e nel settembre 1919 quest'ultimo assunse la carica di amministratore delegato. Le fusioni con le due società si realizzarono nel 1920 in un clima non privo di seri contrasti interni alla Montecatini.
Affiorava un complesso intreccio d'interessi fra Montecatini, Unione coricimi, Société des phosphates tunisiens, tale da creare un aspro conflitto che oppose il D., tenace promotore dell'iniziativa, al fratello Gustavo, anch'egli consigliere della Montecatini, ma anche amministratore delegato delle altre due società. Con l'assorbimento delle due imprese chimiche la Montecatini divenne uno dei complessi industriali più importanti del paese. Le divergenze fra i fratelli Donegani e le enormi necessità di capitali degli anni successivi al 1915 fecero si che la famiglia livornese non fosse più determinante per ciò che concerneva l'assetto proprietario. Tuttavia nel 1920 il D. era l'indiscusso leader di un'azienda che l'evoluzione economica e finanziaria degli anni precedenti aveva reso libera da pesanti tutele esterne.
Va però rilevato il determinante ruolo dei banchieri presenti al vertice della società nel sostenere il disegno di integrazione verticale. F. E. Balzarotti del Credito italiano agevolò il controllo della Colla e concimi, Toeplitz nel 1918 propose il D. alla presidenza della Montecatini mentre nel dibattito sulle fusioni parlò di queste come di un progetto da lui vagheggiato da lungo tempo nell'interesse della società e del paese.
Dal 1920 la Montecatini fu in una posizione di assoluta preminenza nel settore di prodotti chimici per l'agricoltura. La società gestiva direttamente 35 stabilimenti di perfosfati e acido solforico grazie ai quali controllava rispettivamente il 70 e il 60% dei mercato nazionale dei due prodotti, mentre incideva per quasi un terzo per il solfato di rame. Tuttavia il D. dichiarava che l'obiettivo del nuovo grande organismo aziendale era di forzare i limiti del ristretto mercato interno sino ad ottenere il triplo del consumo di perfosfati che prima della guerra aveva raggiunto un tetto di quasi 1.100.000 tonnellate. Il progetto si fondava su una capillare organizzazione di propaganda e un sostanziale miglioramento dell'apparato produttivo.
Nel 1921 fu istituito un ufficio di propaganda che creò numerosi campi sperimentali, pubblicò decine di opuscoli, utilizzò il mezzo cinematografico, promosse la partecipazione a fiere campionarie ed esposizioni, mantenne rapporti con un importante canale di informazione sugli agricoltori, le cattedre ambulanti. Per l'opera di riorganizzazione degli stabilimenti il D. dichiarava di destinare un quinto dell'aumento di capitale - da 75 a 200 milioni - realizzato per attuare le fusioni. Venivano chiusi gli impianti meno efficienti o troppo concentrati in alcune aree come in Liguria e in Veneto, rimodernati ed ampliati quelli collocati in posizioni più favorevoli, costruite nuove fabbriche fra cui particolarmente importante l'unità di Porto Marghera (1924).
L'iniziativa più importante degli anni Venti fu la produzione su vasta scala di concimi azotati. Il 26 maggio 1921 il D. conosceva a Novara il giovane ingegnere Giacomo Fauser che aveva messo a punto un metodo per ottenere ammoniaca sintetica dal procedimento elettrolitico. Cinque giorni dopo si costituiva la Società elettrochimica novarese al cui capitale di 3 milioni oltre alla Montecatini (2 milioni) e a Fauser (mezzo milione) partecipò il senatore Ettore Conti che aveva promosso l'incontro. Nella seconda metà degli anni Venti la produzione di ammoniaca sintetica venne sviluppata su grande scala, tanto che nel 1927 la Montecatini disponeva di cinque stabilimenti - Novara, Mas (Belluno), Merano, Crotone e Coghinas (Sassari) - in grado di produrre 28 mila tonnellate annue d'azoto. Gli impianti andavano riforniti con grandi quantità di energia elettrica così che nel 1925 entrarono in funzione le centrali di Marlengo in Alto Adige e di Mas presso Belluno e l'anno successivo quella di Tel ancora in Alto Adige.
L'impresa ottenne un significativo risultato: non solo risolse senza il diretto supporto pubblico un problema industriale al quale i governi delle nazioni più avanzate avevano destinato ingenti risorse ma riuscì addirittura ad esportare la tecnologia Montecatini-Fauser in diversi paesi fra cui la Germania. In Italia in questo periodo la Montecatini mantenne una sicura supremazia nel settore dei concimi fosfatici e controllò completamente quello degli azotati, con la sua potenzialità produttiva, mediante partecipazioni azionarie, grazie ad accordi sulla vendita. Un duro colpo venne però dal crollo dei consumi dei primi anni Trenta. Nel 1932 la domanda di concimi fosfatici precipitava a 900.000 tonnellate e la Montecatini toccò il minimo storico della produzione con 410.000 tonnellate. All'origine di queste difficoltà, oltre alle generali condizioni di crisi economica, vi erano le errate previsioni aziendali concepite nel clima euforico della "battaglia del grano".
Anche negli anni migliori la Montecatini doveva registrare una sproporzione fra apparato produttivo e consumi, così che nel settore dei fosfatici l'effettiva produzione si arrestava al 70-75% della potenzialità. La mancata saturazione degli impianti in un periodo di impegnativi investimenti rendeva sempre più impellente per la Montecatini restringere la presenza sul mercato del suo maggiore concorrente, la Federconsorzi, un compito al quale la società si dedicò con particolare determinazione, facendo leva sulla maggiore diffusione dei suoi stabilimenti sul territorio nazionale e sulla più efficiente struttura commerciale.
All'inizio degli anni Trenta la Montecatini, grazie ad una indubbia superiorità tecnico-organizzativa e ad un maggior peso politico, riuscì ad ottenere una schiacciante vittoria. Per ciò che riguarda l'industria dell'azoto alla fine degli anni Venti la Montecatini aderì ad un accordo internazionale che in seguito si sarebbe basato sul criterio di riservare il mercato interno alle imprese nazionali. Del resto nel 1931 un elevatissimo dazio sul solfato di ammonio provocò di fatto la scomparsa delle importazioni di un essenziale concime azotato. Nell'autunno dello stesso anno si giunse ad un'intesa fra Federconsorzi e Montecatini che, regolando la produzione in base alle capacità degli impianti e riconoscendo la piena autonomia della rete distributiva della società industriale, ne sanciva l'indiscusso predominio. In una situazione di forte recessione economica l'accordo prevedeva un aumento dei prezzi di vendita del 10% ponendo termine all'azione calmieratrice delle fabbriche cooperative.
Qualche anno prima Julio Fornaciari, presidente della Federazione nazionale bieticultori, nell'ambito dei lavori di una commissione d'inchiesta nominata dal governo, aveva efficacemente espresso il malumore del mondo rurale parlando di un monopolio tenuto sapientemente in piena efficienza e del timore degli agricoltori italiani di veder conglobato nelle mani di un uomo solo o di pochissimi uomini il movimento dei concimi chimici.
La favorevole conclusione del conflitto con la Federconsorzi mise in evidenza il benevolo atteggiamento del regime nei confronti dell'impresa. Del resto il D. non sembra aver avuto esitazioni nei confronti del fascismo. Nel 1919 tentava l'elezione alla Camera per il partito liberale ma fu sconfitto per pochi voti. Riuscì nel 1921 nella lista del Blocco nazionale e nelle elezioni del 1924 Mussolini lo incluse nella lista nazionale "bis" per la Toscana. Durante la crisi successiva al delitto Matteotti, mentre altri industriali come G. Motta e Conti si schierarono apertamente contro il governo, il D. lavorò a favore del capo del fascismo per il quale votò nella seduta del 15 nov. 1924 in piena astensione aventiniana. Tuttavia un rapporto della polizia politica del 1929 affermava che il D. era un grande industriale e un forte capitalista piuttosto che un vero uomo politico. Nel 1934 scriveva del D. al ministero dell'Interno il questore di Livorno che non constava avesse acquisito meriti speciali nella esplicazione di attività fascista, pur avendo sempre seguito con disciplina le direttive del governo nazionale.
Senza dubbio fra la Montecatini e il regime sembrava esistere una particolare sintonia. Con la battaglia del grano lanciata nell'estate del 1925, l'impresa si trovava di fronte all'opportunità di giocare un ruolo quasi istituzionale. Obiettivo comune del regime e della Montecatini fu il consenso del mondo rurale, ritenuto determinante per la costruzione politica totalitaria e altrettanto decisivo per l'espansione aziendale. Allo stesso modo una evidente convergenza di interessi si creava per l'azoto che, ottenuto da "aria acqua elettricità", era elemento base per i concimi, ma anche per gli esplosivi.
Dopo il 1922 nessuna importante misura di politica economica del governo può dirsi contraria agli interessi della Montecatini. La più significativa fu quella che nel dicembre del 1927 fissava il cambio della moneta con le divise estere equiparate all'oro sulla base di 92,46 lire per una sterlina e di 19 lire per un dollaro. Mentre "quota 90" provocava dure reazioni di parte degli industriali, soprattutto dei settori meccanico, tessile e delle fibre artificiali che temevano una forte diminuzione delle esportazioni e l'apertura del mercato interno alla concorrenza estera, il D. dichiarava che il risanamento monetario, pur causando gravi ripercussioni nelle diverse industrie, era di minore importanza per la Montecatini. Nel 1928 l'impresa, usufruendo delle disposizioni del 23 giugno 1927, che le consentivano un risparmio rispetto alla precedente normativa fiscale, incorporava 13 società operanti nei settori degli acidi minerali e dei perfosfati con un capitale sociale complessivo di circa 111 milioni.
Se tutto ciò poneva in rilievo le buone condizioni dell'azienda, va anche ricordato che le fusioni erano possibili grazie ad un'operazione finanziaria realizzata negli Stati Uniti. La stabilizzazione della moneta creò le condizioni di fiducia internazionale tali da favorire un nuovo afflusso di capitale estero, in particolare americano.
La Montecatini emetteva nel 1927 un prestito obbligazionario per 10 milioni di dollari, al tasso del 7% collocato presso due banche americane, la Marshall Field Gore Ward e la Guaranty Trust di New York; contemporaneamente si aveva, con la collaborazione delle stesse banche, un aumento del capitale sociale per 100 milioni di lire.
Sul finire degli anni Venti con diverse iniziative l'impresa superava i confini della chimica per l'agricoltura.
L'espansione e la diversificazione avevano senza dubbio una radice tecnologica: gli impianti per gli azotati, complessi e costosi, richiedevano il pieno impiego della capacità produttiva mentre la sintesi dell'azoto permetteva di ottenere direttamente da un numero limitato di elementi di base una notevole varietà di prodotti. All'azoto erano in particolare collegati due settori, gli esplosivi per legame costitutivo, l'alluminio che con la sintesi condivide a monte la stessa fonte di energia, l'elettricità. Nel 1927 la Montecatini rilevava la maggioranza azionaria della Dinamite Nobel italiana e della Società esplodenti e prodotti chimici, conquistando così un'importante quota della produzione nazionale di esplosivi a base di nitroglicerina e nitrocellulosa.
Due anni prima - nell'ottobre del 1925 - il D. aveva esposto agli azionisti il progetto di destinare parte dell'energia elettrica necessaria per l'azoto alla produzione di alluminio. Malgrado che con l'annessione dell'Istria l'Italia fosse entrata in possesso di vasti giacimenti di bauxite - il minerale da cui l'alluminio veniva ottenuto - il paese importava quasi due terzi del proprio fabbisogno. Con il gruppo tedesco Alluminium Werke detentore del brevetto Haglund - un procedimento elettrochimico per la produzione dell'intermedio allumina - venne costituita quindi nel 1927 la Società italiana dell'alluminio per fabbricare il metallo nell'impianto - con centrale elettrica annessa - di Morì e l'anno successivo la Società italiana allumina che apriva uno stabilimento a Porto Marghera.
Nello stesso periodo il processo di diversificazione toccava due importanti produzioni, le vernici, derivate dall'acido nitrico attraverso la nitrocellulosa, e il rayon, anch'esso esito di un percorso. elettrochimico che aveva come punto di partenza il carburo e come intermedio l'anidride acetica. In entrambi i casi la Montecatini dovette avvalersi della cooperazione di due imprese straniere: l'americana DuPont con la quale costituì'nel 1928 la società Duco per le vernici e la francese Gillet, partner per il rayon nella Rhodiaceta italiana.
Lo sviluppo elettrochimico finiva tuttavia per creare seri problemi di approvvigionamento energetico. Nel 1934 il consumo fu di 1 miliardo 321 milioni kwh (l'azoto incideva per 899 milioni) di cui ben 842 acquistati. Nel 1935 l'azienda dovette contraddire il programma che vantava l'azoto autarchico da acqua aria energia elettrica: con la costruzione, in società con l'Italgas, del grande stabilimento di San Giuseppe di Cairo per l'idrogeno necessario alla sintesi dell'azoto si utilizzarono i gas di cokeria e quindi un combustibile importato.
In realtà che la leggenda del "carbone bianco" disponibile senza limiti e a prezzi minimi per l'Italia andasse ridimensionata era chiaro al D. fin dalla metà degli anni Venti; l'aumento che nel 1925 portava il capitale sociale da 300, a 500 milioni era stato in gran parte utilizzato per gli impianti idroelettrici dell'Alto Adige e del Veneto oltre che per l'acquisto dalla Società per forze idrauliche della Sila di 400 milioni di kwh annui necessari per la produzione nel Mezzogiorno.La solidità industriale e finanziaria dell'impresa tuttavia era tale in questa fase da consentirle di affrontare senza eccessive preoccupazioni impegni non certo lievi. Nel 1925 la consistenza delle riserve era di 314 milioni, più di tre quinti del capitale sociale e l'azienda appariva vigorosamente appoggiata e protetta dalle grandi banche. Nel 1927 la Commerciale risultava in possesso di più di un milione di azioni su un totale di cinque milioni, mentre con il Credito italiano e il Banco di Roma deteneva quasi il 30% del capitale. Particolarmente significativo fu il fatto che i banchieri Toeplitz, Balzarotti e Galicier, titolare dell'omonima banca parigina, fossero i soli ad affiancare il D. al vertice dell'impresa in quel comitato direttivo al quale il consiglio d'amministrazione nel 1924 delegava i più estesi poteri per la gestione e l'amministrazione della società. Di speciale rilievo fu il ruolo svolto da Toeplitz, che sin dal 1910 appoggiò il D. nei tornanti decisivi della sua ascesa e che grazie ad una vasta influenza sul mondo industriale italiano risolse a vantaggio dell'impresa alcuni difficili "contenziosi" come nel caso dei rapporti con i "fornitori di elettricità".
Alla vigilia della grande crisi la Montecatini era ormai il maggior gruppo chimico italiano tanto da esercitare una schiacciante superiorità sull'intero settore. Nel 1929 l'azienda controllava 44 società con oltre 27.000 dipendenti e pruduceva l'80% delle piriti italiane, il 55% dell'acido solforico, il 62% dei perfosfati, il 65% del solfato di rame, quasi l'80% dell'acido nitrico, i due terzi dei concimi azotati.
Tuttavia, in un confronto complessivo, la distanza con i maggiori gruppi europei era ancora rilevante. Nel 1925 sei grandi società chimiche tedesche davano vita alla I. G. Farbenindustrie con un capitale di venti miliardi di lire, mentre l'anno successivo le quattro maggiori aziende inglesi formavano la Imperial Chemical Industries (ICI) che dominava l'intera produzione chimica britannica e disponeva di un capitale di circa 6 miliardi.
Più che le dimensioni. un elemento determinante ad indicare il divario fra la Montecatini e i più importanti gruppi continentali era il fatto che questi svolgevano in misura preponderante la loro attività nel più avanzato comparto della chimica organica. In questo senso la posizione della Montecatini fu emblematica del ritardo dell'industria italiana che, attratta dalla possibilità di ottenere energia a basso costo, aveva immobilizzato ingenti risorse nella traiettoria elettrica, risultando quindi incapace di investire in più difficili specializzazioni, come quelle della chimica derivata dal trattamento dei combustibili fossili.
Il ciclone che seguì il crollo di Wall Street fece sentire i suoi effetti anche sulla Montecatini. Tuttavia all'inizio degli anni Trenta l'azienda compiva un importante passo per il completamento del proprio assetto industriale, l'ingresso nel settore della chimica organica, con l'acquisizione, dal crollo dell'Italgas di Rinaldo Panzarasa, delle Aziende chimiche nazionali associate (ACNA), il più importante produttore italiano di coloranti artificiali, un comparto basato sullo sfruttamento dei derivati dal carbone che presenta significative diversità con le precedenti esperienze industriali della Montecatini. La tecnologia era meno complessa rispetto all'azoto sintetico ma richiedeva una maggiore attenzione alla possibilità di ottenere economie di scala realizzando un fluido collegamento fra le diverse fasi produttive. Di primaria importanza era il problema della commercializzazione.
Nel 1931 la Montecatini ereditava dall'ACNA dell'Italgas i tre stabilimenti di Cengio, Cesano Maderno, Rho, un complesso che aveva superato molte carenze dei primi anni Venti, ma che tuttavia si caratterizzava ancora per scarso coordinamento e specializzazione produttiva.
La riorganizzazione fu affrontata con gli stessi criteri adottati dieci anni prima per il settore dei concimi. Subito dopo l'acquisizione si realizzava una ben definita divisione dei compiti per cui la produzione degli intermedi era concentrata a Cengio, quella dei coloranti a Cesano Maderno dove si trasferivano le lavorazioni di Rho che venne chiuso. Allo stesso tempo, per irrobustire la nuova azienda, la Montecatini acquistava una larga partecipazione in una ragguardevole ditta di coloranti, la Società chimica lombarda Bianchi, con la quale si cercava di pervenire ad una integrazione sul piano commerciale. Di fatto fra il 1931 e 1935 si aveva il raddoppio della produzione che passò da 52.000 a 104.000 quintali. Tuttavia ancora nel 1934, per impedire la massiccia presenza sul mercato italiano della concorrenza estera, fu necessario un decreto governativo che istituiva un apposito comitato per l'esame delle richieste d'importazione. Che l'impresa non fosse agevole era confermato dal fatto che nella nuova società veniva dall'inizio coinvolta la potentissima I.G. Farben con il 49% delle quote azionarie.
Il salvataggio della più importante azienda italiana di coloranti fu però per la Montecatini una scelta per molti versi obbligata. Premettero sicuramente ragioni strategico-difensive. Altrettanto valide erano motivazioni di ordine tecnico-economico. Non bisogna però sottovalutare le conseguenze del rapporto che negli anni Venti si era instaurato fra impresa e potere politico: la logica del do ut des che esso implicava emerge con grande evidenza nel decennio successivo. L'intervento nell'ACNA fu in modo esplicito richiesto dal capo del governo. Similmente nel 1934 per scongiurare il pericolo di disoccupazione dei 1.500 operai della Società miniere di Montevecchio che in Sardegna gestiva gli omonimi giacimenti piombiferi, la Montecatini, insieme con l'altra grande azienda del settore, la Monteponi, fu invitata a ricostruire la società. Il 17 ott. 1934 venne istituito un dazio protettivo sul minerale di piombo cosi che la Montevecchio poté risollevarsi.
La prima metà degli anni Trenta segnò per la Montecatini un rallentamento rispetto all'intenso processo di crescita che si era registrato nel periodo precedente. Il capitale sociale fu quadruplicato fra 1911 e 1920, triplicato nel decennio successivo, mentre passò da 500, a 600 milioni fra il 1930 e il 1936. L'industria dell'azoto, cresciuta del 53% tra il '27 e il '29, nei due anni seguenti aumentava solo del 13%, il consumo di energia elettrica, salito del 65% dal 1928 al 1930, nel triennio 1930-32 aveva un incremento che non andava oltre il 15%. Anche in questa fase non mancarono tuttavia episodi di espansione.
Le novità potenzialmente più interessanti si ebbero nella chimica industriale. Nel 1930, riorganizzando la produzione di litopone, il gruppo partecipava più largamente al settore dei pigmenti, mentre quasi contemporaneamente iniziò la produzione dell'alcool metilico, materia prima per la fabbricazione della formaldeide, a sua volta essenziale per le resine sintetiche e le materie plastiche.
Inoltre, dall'Italgas la Montecatini rilevava anche lo stabilimento di Bussi, in Abruzzo, che le consentiva, grazie all'elettrolisi dei cloruri alcalini, di rafforzare la produzione di esplosivi, e l'azienda farmaceutica Schiapparelli con lo stabilimento di Settimo Torinese, in seguito riorganizzata nell'ambito della Farmaceutici Italia, l'impresa, costituita in società con la Rhône-Poulenc, con la quale dopo il 1935 il gruppo entrava con notevole impegno nel settore dei prodotti medicinali.
La Montecatini non sembrò sfavorita dalla politica industriale del governo che cercava di affrontare i gravissimi problemi creati dalla crisi con la limitazione e il controllo delle capacità produttive. Nel giugno 1932 fu approvata una legge sulla costituzione di consorzi obbligatori fra esercenti uno stesso ramo di attività economica, completata nel gennaio successivo da una normativa sulla disciplina degli impianti industriali. Alla fine degli anni Trenta la Montecatini esercitava un peso determinante nei cartelli del settore minerario e chimico, come nell'azoto con la quota del 71%, negli anticrittogamici con il 60%, negli esplosivi con il 65%.
Maggiori problemi per la leadership aziendale avrebbero potuto derivare dai cambiamenti nell'assetto della proprietà provocati nel 1933 dal definitivo tramonto della banca mista e dalla nascita dell'Istituto per la ricostruzione industriale (IRI). Rilevando le quote della Commerciale, del Credito italiano, del Banco di Roma, l'IRI era diventato il maggior azionista della Montecatini; alla fine del secondo conflitto mondiale ne controllava circa il 20% del capitale. È questo un dato di fatto che evidentemente preoccupava il D., se nel 1937 l'imprenditore livornese risultava essere fra i più tenaci oppositori della costituzione dell'IRI in ente permanente.
Tuttavia il modo di operare di A. Beneduce attento a non compromettere gli equilibri faticosamente raggiunti fra sfera pubblica e capitalismo privato dopo la grande crisi, e deciso a non invadere campi di attività per i quali non disponeva di autonome risorse manageriali, non sembrò creare all'impresa vincoli di alcun genere; Beneduce faceva parte del comitato esecutivo dal 1932, ma il suo atteggiamento appariva del tutto simile a quello di Toeplitz.
Quando il 23 marzo 1936, in un discorso tenuto all'assemblea nazionale delle corporazioni, Mussolini dichiarava l'assoluta necessità dell'autarchia economica da ottenersi mediante un piano regolatore dell'economia italiana, la sintonia fra impresa e regime sembrò raggiungere il suo apice.
In effetti il piano autarchico della chimica esposto dal vicepresidente della corporazione Angelo Tarchi nell'agosto del 1937 aveva nella Montecatini un indispensabile perno e la seconda metà degli anni Trenta coincise per l'azienda con alcune impegnative realizzazioni ed interessanti esperienze sul piano tecnico-scientifico: la grande cokeria di San Giuseppe di Cairo, il potenziamento del ciclo dell'alluminio, la fondazione con l'Azienda generale italiana petroli (AGIP) e le Ferrovie dello Stato dell'Azienda nazionale idrogenazione combustibili (ANIC) per l'idrogenazione degli olii minerali, la collaborazione fra Giacomo Fauser e Giulio Natta per la sintesi dei metanolo.
Tuttavia il clima creato dalla politica autarchica faceva compiere all'azienda scelte che una strategia dettata da logica squisitamente economica avrebbe probabilmente evitato. Ad esempio nel settore minerario nel 1936 si rilanciava la produzione e la ricerca della lignite a Ribolla sebbene solo un anno prima fonti ufficiali dell'impresa affermassero che da tempo non sussisteva la pura convenienza diretta della gestione. Allo stesso modo si può ricordare che nel 1936 la Società italiana dello zinco della Montevecchio metteva in funzione a Porto Marghera un grande impianto elettrolitico proprio nel momento del crollo dei prezzi internazionali, mentre per produrre alluminio "totalmente italiano" si preferiva il processo Haglund (che poteva servirsi delle bauxiti nazionali a basso tenore di alluminio) al sistema Bayer, più efficiente sotto il profilo energetico e utilizzato con successo dalla concorrenza straniera.
Quando scoppiò la seconda guerra mondiale la Montecatini offriva l'immagine di una potenza dell'economia italiana.
Tutte le variabili dimensionali erano in fase di crescita accelerata: il capitale sociale era più che raddoppiato rispetto ai 600 milioni del 1936; i dipendenti erano quasi 60.000, il consumo d'energia elettrica raggiungeva la decima parte del totale nazionale, l'egemonia nelle produzioni "tradizionali", le piriti, i perfosfati, i concimi azotati si era rafforzata, e senz'altro considerevole era la quota del mercato interno nei nuovi campi dei cloruri alcalini, degli intermedi, dei coloranti, dello zinco elettrolitico, dell'alluminio.
Il prestigio dell'azienda era al suo apice. Il D., che nel 1943 verrà nominato senatore, era definito nel celebre Taccuino di Ettore Conti fra i pochissimi che dominavano completamente i vari rami dell'industria mentre l'acquisto delle azioni Montecatini era paragonato all'investimento in titoli di Stato.
Il divario con i grandi gruppi chimici stranieri si mantenne però in proporzioni notevoli. Nonostante. da quando era entrata nella chimica, la Montecatini avesse considerato con notevole interesse la prospettiva di sviluppo e collaborazione internazionale - lo dimostrano la massiccia esportazione degli "impianti Fauser", la nascita di importanti consociate estere, la cooperazione per iniziative in Italia con imprese quali la DuPont, la I. G. Farben, la Rhône-Poulenc -, nonostante negli anni Trenta l'azienda avesse seriamente perseguito la via della chimica industriale, dopo il successo nell'azoto sintetico non era riuscita a raggiungere i massimi livelli tecnologici mondiali mentre il baricentro produttivo era rimasto saldamente legato alla chimica per l'agricoltura.
È necessario a questo proposito dare adeguato rilievo alle condizioni del mercato nazionale, caratterizzato rispetto a quello di paesi come la Francia, l'Inghilterra, la Germania, gli Stati Uniti da un'elevata incidenza della popolazione attiva occupata in agricoltura, da una bassa produzione manifatturiera pro capite, da una scarsa diffusione di alcuni beni di consumo durevole come l'automobile, indispensabili allo sviluppo della chimica industriale.
Le caratteristiche del mercato nazionale, un contesto politico-economico che garantiva l'impresa dalla minaccia di una seria competizione, non costituivano certo gli stimoli migliori per l'innovazione organizzativa. Mancava alla Montecatini quel circolo virtuoso che sistematicamente lega marketing, ricerca e sviluppo, produzione, tipico delle imprese chimiche americane e tedesche. La strategia tecnologica dell'azienda italiana era affidata negli anni fra le due guerre ad un "geniale imprenditore", Giacomo Fauser; un grande laboratorio centralizzato fu aperto a Novara solo nel 1939.
Ma era il disegno organizzativo generale a sottolineare particolarmente la diversità fra la Montecatini ed i giganti stranieri. Negli anni Trenta la DuPont, la ICI e la I. G. Farben, pur con un differente grado di coerenza, si orientavano verso la struttura multidivisionale che, specializzando la funzione strategica e diffondendo il potere decisorio grazie al decentramento organizzativo, consentiva una maggiore attenzione ai problemi di sviluppo a lungo termine e una efficace reattività ai cambiamenti del mercato.
Nella Montecatini, nonostante la politica di diversificazione, prevalse un forte accentramento decisionale. Da quando, nella seconda metà degli anni Venti, la Montecatini si espanse in campi diversi dalla chimica per l'agricoltura, per controllare i nuovi settori venne utilizzata la forma giuridico-organizzativa della "consociata", alla quale si avrebbe voluto garantire flessibilità e autonomia operativa. In realtà al vertice delle società affiliate vennero spesso posti stretti collaboratori del D., e non tanto per controllarne i risultati economici quanto per garantirne la conformità gestionale alle direttive della Montecatini, che delle consociate mantenne il controllo di funzioni fondamentali, la contabilità, il personale, le vendite, gli approvvigionamenti. Una così stretta tutela traeva probabilmente origine dalla consapevolezza della fragilità del processo di diversificazione, per la novità delle tecnologie, per le difficoltà della commercializzazione in un mercato ristretto come quello italiano. L'accentramento decisorio era infine il risultato delle peculiarità della genesi e dell'evoluzione del vertice aziendale. Il D., pur con i vincoli che gli ponevano il potere politico e, forse, i grandi azionisti, determinava da solo le strategie della Montecatini e delle consociate mentre seguiva da vicino l'attività gestionale di entrambe; le sue caratteristiche di leader erano tali che, nonostante le dimensioni e la relativa dispersione della proprietà, la Montecatini appariva ancora un'azienda imprenditoriale. Il secondo conflitto mondiale non rappresentò per la Montecatini quella ulteriore occasione di crescita che era stata la guerra del 1915-18. Se inizialmente si ebbe un naturale incremento di alcune produzioni minerali, di esplosivi, di prodotti farmaceutici, dopo il 1941 le difficoltà di approvvigionamento, la scarsezza di manodopera, le distruzioni, le vicissitudini provocate dalla divisione del paese posero l'impresa in una situazione fra le più critiche.
Gli ultimi anni del D. furono molto amari. Accusato di collaborazione con il nemico fu arrestato e poi rilasciato dai Tedeschi nel marzo del '44. Di nuovo arrestato per lo stesso motivo dagli Inglesi nel maggio del '45, dopo la scarcerazione, nel luglio successivo fu colpito da mandato di cattura del Comitato di liberazione nazionale che gli addebitava l'attivo sostegno al regime. Visse quindi per circa un anno, fino al proscioglimento, in clandestinità e morì, in stato di grave deperimento psicofisico, il 16 apr. 1947 a Bordighera (Imperia).
Fonti e Bibl.: La principale fonte attualmente disponibile per ricostruire l'opera del D. come capitano d'industria sono gli atti degli organi statutari della Società Montecatini, assemblee generali degli azionisti, consiglio di amministrazione, comitato esecutivo, conservati presso la sede della società Montedison a Milano. Sulla ditta Donegani e sull'attività nell'ambito di quest'ultima del D. si veda: Livorno, Archivio storico della Camera di commercio filza 20, cartelle 1110 e 1111. Sulla sua attività nel periodo fra le due guerre si hanno notizie presso l'Archivio storico della Banca d'Italia a Roma, Fondo Beneduce, pratica 33, bobina 15. Presso l'Archivio centrale dello Stato cfr. Segreteria particolare del Duce, Carteggio ordinario, busta 1254, nn. 546-635, e Ministero dell'Interno. Direzione generale della Pubblica Sicurezza. Divisione polizia politica, Fasc. per s., busta 450.
Un profilo biografico del D. di taglio encomiastico ma ricco di notizie è il saggio di A. Damiano, G. D., Firenze 1957, che reca in appendice la Lettera di commiato dell'ing. D. ai lavoratori e agli azionisti della Montecatini, Milano 1946, un documento autobiografico che ricostruisce sinteticamente ma con una certa efficacia le strategie della società dal 1910 alla seconda guerra mondiale. Fonte essenziale per il Damiano sono le pubblicazioni giubilari edite dalla Montecatini negli anni Trenta come La Società Montecatini ed il suo gruppo industriale nel 25ºanno di amministrazione dell'on. ing. D., Milano 1936, e Cinquant'anni di storia della Montecatini, Milano s.d. Per collocare la vicenda della Montecatini nel più ampio contesto dello sviluppo industriale italiano cfr. R. Morandi, Storia della grande industria in Italia, Torino 1975, in particolare pp. 240-247; R. Romeo, Breve storia della grande industria in Italia 1861-1961, Milano 1988, in particolare pp. 114, 120, 143. Sulla Montecatini il lavoro più recente è Montecatini 1888-1966: capitoli di storia di una grande impresa italiana, a cura di F. Amatori - B. Bezza, Milano 1989, all'interno del quale, per le ampie indicazioni contenute sia per ciò che attiene alla storia della società sia per quanto riguarda l'evoluzione dell'industria estrattiva e della chimica italiana, si segnala il saggio bibliografico di L. Segreto.
Sull'importanza del D. nel mondo industriale italiano si veda E. Lodolini-A. Welczowsky, Biografia finanziaria italiana, Roma 1934, p. 277, e Chi è? 1940, p. 351. Si vedano anche i giudizi di due testimoni come E. Conti, Dal taccuino di un borghese, Bologna 1986, p. 432, e F. Guarneri, Battaglie economiche fra le due grandi guerre, Milano 1953, p. 58 Sui rapporti fra il D. e il fascismo ed in particolare sull'appoggio offerto dall'imprenditore livornese a Mussolini nel 1924 cfr. P. Melograni, Gli industriali e Mussolini, Milano 1980, p. 112. Sull'opposizione del D. alla costituzione dell'IRI in ente permamente cfr. E. Ciancì, Nascita dello Stato imprenditore in Italia, Milano 1977, p. 323. Un necrologio del D. in Corrieredella sera, 17 apr. 1947.