Montfort, Guido di
Figlio di Simone conte di Leicester, cognato e avversario di Enrico III; alla morte del padre, caduto nella battaglia di Evesham (1265), si rifugiò presso Carlo d'Angiò, che accompagnò nelle spedizioni in Italia, ricevendo poi in feudo la contea di Nola. Nominato dall'Angioino vicario in Toscana (1270), si distinse per la sua crudeltà, specie nei confronti dei ghibellini.
È da D. immerso nel bulicame fino alla gola, fra i violenti contro il prossimo (If XII 118-120), quale protagonista di un fosco e agghiacciante fatto di sangue che destò, ai suoi tempi, grande scalpore. Nel 1272, infatti, G. uccise in una chiesa di Viterbo, in periodo di sede vacante, durante la messa, al momento dell'elevazione (in grembo a Dio), Enrico, nipote del re d'Inghilterra e figlio di Riccardo conte di Cornovaglia, per vendicare il padre Simone ucciso combattendo contro quel re, e il cui cadavere era stato trascinato nel fango e barbaramente vilipeso. La vendetta feroce perpetrata a Viterbo contro l'innocente Enrico alla presenza di Filippo III re di Francia e di Carlo d'Angiò, di cui forse ebbe il tacito consenso (" sub custodia regis Caroli ", giunge ad affermare Benvenuto), destò grande orrore. Era la vittima della ferocia di G., secondo Boccaccio, " divoto e buon giovine ", " semplice, dolce, e mansueto, e angelico " a dire dell'Ottimo; la giustizia non colpì l'uccisore per la protezione accordatagli da Carlo d'Angiò che " tam abhominabile scelus dimisit impunitum " (Benvenuto). G., trapassato il cuore di Enrico con un colpo di stocco, infierì poi sul corpo dell'ucciso: ritornato dentro la chiesa, narra Benvenuto, " cepit dictum Henricum per capillos, et turpiter traxit usque extra ecclesiam "; il fatto è anche narrato da G. Villani (VII 39). Dopo questo assassinio, G., scomunicato, si rifugiò in Maremma nei possedimenti del conte Ildebrandino degli Aldobrandeschi di Pitigliano di cui aveva sposato la figlia Margherita nel 1270. Assolto in seguito dalla scomunica tornò al servizio dell'Angioino, e durante la guerra del Vespro fu imprigionato da Ruggero di Lauria (1287): morì quindi prigioniero a Messina nel 1291.
Isolata fra le altre anime dei violenti in un cerchio di solitudine scostante che sottolinea l'enormità del crimine (un'ombra da l'un canto sola), " propter singulare maleficium enormiter commissum ", chiosa Benvenuto (e si ricordi, per contrasto, la solitudine magnanima del Saladino); neppure nominato (colui) perché a identificarlo è sufficiente l'orrere del misfatto, la figura di G. emerge luttuosa dall'acqua sanguigna del bulicame rievocata epigraficamente in un condensato di due soli versi i quali costituiscono una delle più formidabili sintesi storiche della Commedia e che " colgono insieme il centro sanguinante della tragedia (fesse... lo cor) e l'ambiente in cui si svolse (in grembo a Dio) " (Momigliano).
Bibl. - Davidsohn, Storia II II, passim; C. F[oligno], recens. a F.M. Powicke, Guy de Montfort (1265-71), in " Transactions of the Royal Historical Society " s. 4, XVIII (1936), in " Studi d. " XXII (1938) 178-179.