Guido del Duca
Gentiluomo romagnolo, che il poeta incontra in Purgatorio nella cornice degl'invidiosi (Pg XIV 1-126), addossato, con Rinieri da Calboli, alla livida parete, coperto di vil ciliccio e con le ciglia cucite da fil di ferro (XIII 58, 70-72).
Egli chiede a D. a chi è concesso il privilegio di andar vivo nel regno dei morti, onde venga e chi sia. E D. risponde: " Il mio nome è poco noto; vengo dalle rive di un fiumicel che nasce in Falterona, / e cento miglia di corso nol sazia " (XIV 17-18). Di qui trae spunto la ‛ prima ' parlata di G. (vv. 28-66): diffusa evocazione della trista valle dell'Arno, albergo - dal Casentino alla foce - di porci, cani ringhiosi, lupi, volpi, in crescendo di malizia come il baratro infernale, e prossima - aggiunge con impeto d'ispirazione profetica - ad accogliere in Firenze la ferocia sanguinaria di un podestà, Fulcieri da Calboli, nipote di Rinieri, sterminatore di quei lupi. A richiesta di D., G. dichiara poi il proprio nome, confessa la propria colpa d'immodica invidia e presenta il vicino di pena come 'l pregio e l'onore di un casato romagnolo in cui nullo / fatto s'è redd poi del suo valore (vv. 88-90). Prende così avvio la ‛ seconda ' parlata (vv. 91-126) di questo personaggio, non meno passionato ed eloquente che aspro e grave: epicedio dei gentili Romagnoli che, al tempo suo, tra 'l Po e 'l monte e la marina e 'l Reno praticarono un costume di vita rispondente all'ideale cortese: epicedio nostalgico (le donne e ' cavalier, li affanni e li agi), ma scaturito da una così veemente, accorata e sia pur unilaterale e semplicistica (Cosmo, Fasoli) considerazione della decadenza moderna (Oh Romagnuoli tornati in bastardi!), che l'accento batte sempre drammaticamente sull'asprezza di tale antitesi (Sapegno), e il rimpianto si traduce in apostrofi concitate, duri sarcasmi, presagi apocalittici, risolvendosi, alla fine, in amarissimo pianto.
Sulla biografia di G., del quale i chiosatori non trasmisero per secoli altra notizia ‛ certa ' che quella, presumibilmente inesatta, della sua origine bertinorese, diamo le conclusioni cui giunsero, verso il 1890, le ricerche di Paolo Amaducci, contestate in parte dal Torraca e messe in dubbio da altri (Del Lungo), ma dall'Amaducci ribadite a più riprese con nuovi sussidi di testimonianze plausibili.
G. fu, con ogni verosimiglianza, figlio di Giovanni degli Onesti di Ravenna, duchi di Romagna (" Guido nato de Duca, figliuolo di Giovanni Onesti da Ravenna ", scrive Vincenzo Carrari nell'inedita Istoria di Romagna; e il Rossi: " Honesti Duces, Duces Honesti utroque simul nomine in tabulis appellantur "; e ancora: " Familia Ducum quae item Honesta et Aunesta dicebatur "; e il Muratori: " Ex monumentorum collatione deduci posse videtur illustrem huiusmodi titulum hereditarium olim fuisse in nobilissima quapiam familia Ravennate "). Morto senza prole, nel 1177, Cavalcaconte, ultimo dei conti di Bertinoro, e divenuti gli Onesti, suoi parenti, eredi di parte dei suoi beni, alcuni di essi, tra i quali Giovanni col figlio giovinetto e l'intera famiglia, si trasferirono da Ravenna a Bertinoro. Risulta che G. esercitò per 34 anni, dal 1195 al 1229, ufficio di giudice (come tale è designato negli atti in cui si fa menzione di lui) in varie città romagnole: a Faenza, Rimini, Ravenna, Imola, e a Bertinoro stessa, dove dimorò a lungo, specie nel periodo 1202-1218, quando la ridente cittadina divenne " albergo dei più gentili uomini di Romagna e di ogni amorosa cortesia ". Nel 1218, scrive il Carrari, " si partì con Salomone suo figlio e la famiglia di Brettinoro dove era andato a star col padre et ritornò a Ravenna ". È l'anno nel quale i guelfi di Ubertino, battuti a Ravenna a opera di Pier Traversari, sormontarono in Bertinoro, cacciandone a viva forza consorti e partigiani di Pietro e distruggendo le case e le torri dei Mainardi L'Amaducci ha buone ragioni per ritenere G. (contro il parere del Torraca) seguace del ghibellino Traversari, a cui era imparentato. Il suo nome compare un'ultima volta in un atto del gennaio 1249.
Pensa l'Amaducci che la nobiltà dell'antico casato degli Onesti e l'importanza civile della ‛ giudicatura ' incentivassero la promozione di G. al cospicuo ruolo poetico del canto XIV; ma richiama altresì un copioso repertorio di leggende e tradizioni cortesi, fiorite intorno ai " gentili uomini " di Bertinoro e più o meno adattate a G. e alla sua cerchia; l'Anonimo fiorentino specifica che essi " erono tanto cortesi, che l'uno avea invidia dell'altro chi facesse più cortesia ".
Notizie e chiose di tal genere, in mancanza di qualsiasi notizia circa la colpa d'invidia che G. confessa in termini così cocenti (vv. 82-84), suggeriscono l'appropriato orientamento esegetico, in sede sia dottrinale sia psicologica ed estetica, che sfuggì al Porena allorché definì il personaggio o un " paradosso di natura " (livido di ogni letizia altrui e caldo di carità patria fino alle lacrime), o incongruente dal punto di vista estetico: in ogni caso, " un mistero ". D. stesso insegna (Pg XVII 118-120) che invidioso è chi podere, grazia, onore e fama / teme di perder perch'altri sormonti, / onde s'attrista sì che 'l contrario ama; seguendo s. Tommaso, che scrive: " bonum alterius aestimatur ut malum proprium, inquantum est diminutivum propriae gloriae vel excellentiae... Et ideo praecipue de illis bonis homines invident in quibus est gloria et in quibus homines amant honorari et in opinione esse, ut Philosophus dicit, in II Rhet. [10, 1387b 35-1388a 2] ". È notevole che l'Aristotele qui citato (" amatores honoris et gloriae magis invident "), considerando l'invidia " filia inanis gloriae ", come indusse - al dire di Tommaso - Isidoro e Cassiano a ritenerla vizio veniale, non capitale, avrebbe, secondo il Parodi, influito con ogni probabilità anche su D., nella strutturazione morale dell'Inferno.
Si obietta: ma il cieco veggente del Purgatorio fu, per sua confessione, riarso d'invidia, invidioso in grado quasi patologico. Si risponde, col Grana: " Distacco morale e aborrimento del peccato inducono il personaggio a esagerare severamente la propria colpa, con forti rime... che ripetono coerentemente l'energica caratterizzazione psicologica e stilistica del suo dire. E il monito suggerito al personaggio dalla stessa confessione (o gente umana [Pg XIV 86]) conferma, se occorre, quale sentimento di contrizione e di austera avversione del male l'ha dettato ". Sulla traccia dell'Aquinate (" in quolibet genere peccati mortalis inveniuntur aliqui imperfecti motus in sensualitate existentes, qui sunt peccata venialia... Ita etiam et in genere invidiae inveniuntur aliqui primi motus quandoque etiam in viris perfectis, qui sunt peccata venialia ", Sum. theol. II II 36 3c), si può infatti rilevare nel contegno di G., come già in quello di Sapìa, " un impulso impaziente e domato, una repentinità costretta, ma inizialmente selvaggia, di moti " (Apollonio) che s'accorda con la similitudine dello sparviero (Pg XIII 71-72) " crudele e impetuoso, costretto e immobile... la metanoia penitenziale... par ch'abbia paralizzato la rabida potenza della bestia, e il male è lontano... ma l'impulso vitale permane anche costretto e vòlto in direzione opposta ". Il che dovrebbe, per un verso, accentuare l'interesse dei lettori sul felice (a dir poco) rapporto che corre, dal principio alla fine, tra le reazioni psicologiche del penitente, la sua colpa antica e il suo graduale maturarsi alla grazia liberatrice della carità; e temperare, per l'altro, l'equazione che si suole stabilire tra l'asprezza pessimistica (essenzialmente apocalittica, insiste G. Bàrberi Squarotti) di G. e il pessimismo del poeta. Certo, la fantasia animalesca della valle dell'Arno riflette un perentorio giudizio di D.; e nel quadro della Romagna feudale cavalleresca, in contrasto con quello della " rissosa ed esagitata Romagna ‛ tirannica ' " di If XXVII, il poeta " ribadisce il suo atteggiamento e i suoi gusti di aristocratico conservatore, fieramente avverso al livellamento e alla degradazione del costume portati dall'avvento della borghesia plutocratica e mercantesca ", come " sarà detto in più chiare e dure note nei canti XV e XVI del Paradiso " (Mattalia). Ma non è meno certo che, proiettandosi sul volto di G., la passione civile del poeta ne assume i connotati: non li estingue, né li attenua.
Bibl. - G. Biagi, Le novelle antiche, Firenze 1880; P. Amaducci, Sappi ch'io son Guido del Duca, Forlì 1890; F. Torraca, G. del Duca, in " Riv. Crit. Lett. Ital. " VII (1891); ID., Le rimembranze di G. del Duca, in " Nuova Antol. " CXXXI (10 sett. 1893) 1-26, rist. in Studi danteschi, Napoli 1912; T. Casini, D. e la Romagna, in " Giorn. d. " I (1893) 19 ss.; P. Amaducci, Notizie sugli antichi Conti di Bertinoro, in " Atti e Mem. Deputazione St. Patria Prov. Romagna " s. 3, XII (1894); ID., G. del Duca e la famiglia Mainardi, ibid. XX (1902), recens. di F. Torraca, in " Bull. " X (1903) 329 ss.; ID., G. del Duca di Romagna, in " Atti e Mem. Deputazione St. Patria Prov. Romagna " s. 3, XXIII (1905) 538-587; F. Torraca, Studi danteschi, cit., con rist. della recens. cit. sotto il titolo A proposito di G. del Duca; E.G. Parodi, in " Bull. " XXIV (1917) 103-104; P. Amaducci, Lo spirto di Romagna, in Ricordi di Ravenna medioevale, Ravenna 1921, 197-213; ID., La colonna degli Anelli, San Marino 1925; S. Vazzana, Il contrapasso nella D.C. (Studio sull'unità del poema), Roma 1959, 183 ss.; M. Apollonio, D. - Storia della Commedia, Milano 1965³; C. Ricci, L'ultimo rifugio di D., Ravenna 1965³, 199; G. Grana, La polemica civile di D., in Maestro D., Milano 1966, 175-222; G. Bàrberi Squarotti, Il c. XIV del Purgatorio, in Lett. Classensi I, Ravenna 1966. Si vedano inoltre le ‛ lecturae ' di T. Casini (1902), E. Pistelli (1922), A. Messeri (1922), L. Pietrobono (1927), C. Ricci (in Figure e Fantasmi, Firenze 1931), P. Conte (1956), A. Piromalli (1960), G. Grana (1963).