Guido De Ruggiero
Storia della filosofia e Storia del liberalismo europeo sono le due opere cui è legato il nome di Guido De Ruggiero, con filosofia e politica non sempre in lui conciliate. La precoce adesione all’idealismo, più gentiliano che crociano, lo spinse a tentare un grande affresco della cultura filosofica che avrebbe dovuto autenticarne il percorso. Sia stato per lo spazio di tempo intercorso tra l’avvio e la conclusione dell’opera – trent’anni – sia stato per la revisione della propria posizione teoretica, quell’opera gli si venne sbriciolando tra le mani. Pubblicata nel 1925, la sua Storia del liberalismo europeo fu invece un invito a resistere, un messaggio rivolto alle generazioni future, personificate nella dedica al figlio neonato, per riprendere, rinnovandolo, il cammino interrotto. Divenne così uno dei testi più significativi dell’opposizione culturale al fascismo, e oggi un capitolo imprescindibile per capire quale fu quell’Italia.
Ventiquattrenne, Guido De Ruggiero uscì alla ribalta nazionale con La filosofia contemporanea, pubblicata nella Biblioteca di cultura moderna di Laterza nel 1912, largamente ispirata e voluta da Benedetto Croce. Questi, inviandone il manoscritto all’editore, garantiva un «lavoro eccellente», per poi congratularsi con l’autore per aver «fatto un libro quale io lo vagheggiavo: interiorizzato, quintessenziale, epigrammatico». De Ruggiero era nato a Napoli il 23 marzo 1888, quartogenito di una famiglia borghese. La laurea in legge (1910) non ne aveva spenta la passione per la filosofia, alimentata appunto dalla frequentazione di Croce e della sua biblioteca, dov’era stato introdotto dallo zio, l’archeologo Ettore De Ruggiero. Giovanissimo aveva iniziato a collaborare a riviste e a giornali, mentre, sposatosi con Anna Breglia (1913), entrava nei ruoli dell’amministrazione del ministero della Pubblica Istruzione.
Ancora attraverso Croce entrò in contatto con Giovanni Gentile, del quale si proclamò presto «scolaro», e con Adolfo Omodeo rappresentò l’ala più irrequieta e creativa dell’attualismo. Sempre nel 1912 aveva curato l’edizione delle Opere varie di Gottfried Wilhelm von Leibniz nella prestigiosa collana dei Classici della filosofia moderna, sempre di Laterza. All’attività filosofica e più latamente culturale De Ruggiero cominciò presto ad affiancare quella politica che lo vide legato soprattutto a «Il resto del Carlino» di Mario Missiroli, per il quale fu anche corrispondente da Londra. Un’attività che andò intensificandosi negli anni prossimi alla Prima guerra mondiale, mentre andava già disegnando l’opera della sua vita, quella Storia della filosofia, il cui primo volume, La filosofia greca (1918), lo vide correggere le bozze al fronte. Nel dopoguerra la sua intensa attività politica e culturale fu in parte raccolta ne Il pensiero politico meridionale nei secoli XVIII e XIX (1922), o originalmente rimeditata ne L’impero britannico dopo la guerra (1921), che costituisce la premessa del suo libro più significativo La storia del liberalismo europeo (1925).
La ferma opposizione al fascismo, l’adesione al manifesto Croce, la partecipazione ad altre iniziative antifasciste, sancirono nel 1925 la sua rottura con Gentile. Intanto, dopo La filosofia del Cristianesimo (1920), con cui proseguiva la sua Storia della filosofia, De Ruggiero aveva potuto lasciare il poco amato impiego ministeriale per quello desiderato di professore universitario a Messina (1922) e poi al Magistero di Roma (1925), come docente di storia della filosofia.
Spenta ogni possibilità di libero dibattito politico, si dedicò con alacrità a completare la Storia con il Rinascimento, Riforma e Controriforma (1930), L’età cartesiana (1933), L’età dell’illuminismo (1938), Da Vico a Kant (1940), mentre nel 1927 aveva ripreso la collaborazione a «La critica», interrotta nel 1915 per la sua diversa collocazione, rispetto a Croce, sull’intervento dell’Italia in guerra. Collaborazione che sarebbe divenuta meno intensa nel 1938 per un intreccio di dissensi politici e culturali, ma che entrambi non resero esplicita. Dai saggi pubblicati su «La critica» aveva tratto Filosofi del Novecento (1934), che voleva essere un aggiornamento della Filosofia contemporanea di vent’anni prima, dedicato in modo particolare al pensiero europeo del dopoguerra, a cui avrebbe poi aggiunto un capitolo, L’esistenzialismo (1942), successivamente compreso nella seconda edizione (dello stesso anno), insieme a un’appendice sulla psicoanalisi, entrambe aspramente polemiche.
Netta ed esemplare fu la sua opposizione al fascismo: non collaborò neppure a una delle iniziative culturali variamente articolate, dalla Enciclopedia Italiana a «Primato», mentre sia il giuramento imposto ai professori universitari (1931), sia la tessera del Partito fascista (1940), obbligatoria in quanto ex combattente, appaiono davvero incarnazioni della crociana «dissimulazione onesta». Così, quando gli parve d’intravedere nel muro compatto del regime qualche screpolatura, presentò (1941) la seconda edizione della Storia del liberalismo europeo, con le dovute autorizzazioni. Solo un anno dopo «Il popolo d’Italia» si accorse che quel testo, che andò presto esaurito, non era una semplice storia, ma conservava intatto il suo messaggio politico. Rifiutato l’invito del ministro dell’Educazione nazionale, Giuseppe Bottai, a modificare il suo libro, il 1° agosto 1942 De Ruggiero fu destituito dall’insegnamento.
Nei mesi che precedettero il crollo del regime De Ruggiero prese iniziative politiche ed entrò in contatto con quel movimento che la polizia fascista bollò come «liberalsocialista», fase che culminò con il suo arresto nel giugno del 1943. Liberato dopo il 25 luglio, la sua attività riprese intensa nei pochi giorni avanti l’8 settembre, e lo portò a collaborare con il governo Badoglio in nome della gravità della situazione del Paese. Da qui la sua nomina a rettore dell’Università di Roma e a commissario della Confederazione professionisti e artisti. Scampato, dandosi alla clandestinità, alla repressione nazifascista, nel giugno del 1944 fu designato dal Partito d’azione ministro della Pubblica Istruzione del governo Bonomi, succedendo a Omodeo.
Pochi mesi dopo, lasciato il governo, De Ruggiero tornò ad occuparsi del suo tema, i rapporti fra politica e cultura, sulle colonne del settimanale «La nuova Europa», diretto da Luigi Salvatorelli, una pubblicazione da lui vagheggiata con Mario Vinciguerra e altri sodali già prima del crollo del regime. Ne Il ritorno alla ragione (1946) raccolse i saggi più significativi pubblicati sulla rivista, tratteggiando un bilancio non solo delle vicende del Paese, ma della propria attività, ora che gli sembrava giunto il momento di congedarsi dall’impegno diretto, dopo le amare vicende del Partito d’azione. Nel 1947 con Hegel metteva fine alla sua grande Storia della filosofia (nel 1943 era intanto uscita l’Età del Romanticismo). I suoi ultimi anni – sarebbe morto improvvisamente il 29 dicembre 1948 – furono dedicati a quella che lui stesso definì l’«Internazionale della cultura», alla ripresa dei rapporti culturali tra i Paesi usciti dalla guerra, fermamente convinto che da lì, dalla cultura, sarebbero potute ripartire la convivenza e la pace. Fu il primo presidente dell’Associazione Italia-URSS.
«Un capitolo importante della resistenza degli “intellettuali” e della vita culturale fra il 1925 e il 1940». In questi termini Eugenio Garin si accingeva a ripresentare ai lettori la Storia del liberalismo europeo (1962) a quasi quarant’anni dalla prima edizione (1925) nella popolare collana dell’Universale economica di Feltrinelli, ristampata ancora nel 1971. Scritta in meno di un anno, ma frutto di anni di studio, («quattro», precisava De Ruggiero a Croce), preceduta da L’impero britannico dopo la guerra, la Storia del liberalismo europeo rappresentò, prima del lungo inverno del regime fascista, il congedo dell’autore dall’impegnata attività giornalistica e insieme il tentativo di porre un fondamento della ripresa futura. Questo spiega il carattere del libro diviso in due parti: una, la parte storica, dedicata alla nascita del liberalismo nelle varie nazioni europee all’indomani della Rivoluzione francese; la seconda, la parte teorica, tesa a delineare i rapporti del liberalismo con i vari problemi e le ideologie concorrenti e contrastanti. Una lunga introduzione dalla fine del Medioevo alla restaurazione ne tratteggiava la preparazione e gli antecedenti.
Si è detto del precedente volume dedicato quattro anni prima all’Inghilterra, frutto di un soggiorno londinese come corrispondente de «Il resto del Carlino». Opera di storia, non di giornalismo, precisava però subito De Ruggiero, ispirata dal contrasto tra l’atteggiamento dei liberali inglesi e di quelli italiani, all’indomani della fine della guerra. Già allora gli pareva perduta, da un punto di vista politico, la battaglia liberale in Italia, da quando l’inevitabile «andare incontro ai tempi» del dopoguerra si trasformò nell’alternante guardare ora al movimento socialista, ora addirittura al fascismo. Con ciò il liberalismo abbandonava il fatto di essere stato prima di tutto un movimento che combatteva i privilegi, che affermava la «propria universalità, la propria attitudine a includere, ad assorbire in sé […] tutte le forze sociali» (L’impero britannico dopo la guerra, 1921, p. 11). Defunto nella politica, il liberalismo poteva tuttavia vivere nelle coscienze, resuscitare in avvenire. Si trattava per De Ruggiero di fare opera di educazione morale per mostrare «tutto il valore rivoluzionario» della «magica parola ‘libertà’, quando non è soltanto una parola, ma vita, articolazione di pensiero, novità di spirito, nel considerare gli avvenimenti umani» (p. 13). Non più identificabile in un partito, il liberalismo deve caratterizzarsi per un’educazione politica libera e spregiudicata.
Nel 1922 De Ruggiero era ritornato sul tema, pubblicando sulla «Rivoluzione liberale» di Piero Gobetti (e anzi attirandosi una sua precisazione) I presupposti economici del liberalismo. Figlio della rivoluzione industriale, il liberalismo aveva trovato in Inghilterra il terreno ideale di crescita. Individualismo, antistatalismo, liberismo erano state le caratteristiche di quel movimento, il quale, tuttavia, una volta giunto al potere rivide, anche profondamente, quei principi. La nascita del grandi trust, l’accaparramento delle merci, l’espansione commerciale, la crescente pressione delle masse operaie hanno paradossalmente impresso nuova forza a quello Stato che proprio il liberalismo delle origini aveva considerato un ostacolo da abbattere, conferendogli nuova forza e compiti più vasti. Il trionfo politico del liberalismo segna così l’inizio della sua decadenza. Il saggio virava poi, un po’ bruscamente, sulla situazione italiana. Qui la debolezza, se non proprio l’assenza, di quei fattori economici che in Inghilterra erano stati all’origine del liberalismo era stata compensata dalla passione patriottica risorgimentale. L’abolizione della feudalità, la vendita delle grandi proprietà terriere aveva costituito per il nostro Paese, e in parte per la Germania meridionale, l’equivalente del processo di industrializzazione inglese. Il problema dell’indipendenza aveva preservato il movimento liberale italiano da esiti conservatori, senza però garantire, a unificazione avvenuta, sviluppo e affermazione. Anzi, il successo della Destra, pur benemerita in quel contesto storico, aveva concentrato nello Stato tutta la forza spirituale, etica, della nazione, cosicché, quando venne meno dopo la Prima guerra mondiale la ragione patriottica, il già debole liberalismo si trovò costretto tra le forze conservatrici e reazionarie e quelle popolari. Per motivi diversi anche il liberalismo italiano, dopo quello inglese, è in una fase di declino, sottolinea De Ruggiero, ma ciò non è motivo di disperazione. La «fiamma» della libertà continua ad ardere sotto le ceneri della crisi presente, alimentata nelle coscienze e destinata ad alimentare una nuova stagione.
La lunga introduzione storica della Storia del liberalismo europeo serviva a De Ruggiero a dimostrare come sul limitare del 19° sec. una coscienza liberale europea fosse emersa da forze economiche e culturali diverse. Sarà tuttavia solo l’idealismo tedesco, prima con Immanuel Kant, ma soprattutto con Georg Wilhelm Friedrich Hegel, a trasformare il liberalismo, facendo coincidere la libertà con la realtà dello spirito. Non si nasce liberi, come pretendeva il giusnaturalismo e come pretenderà Jean-Jacques Rousseau, ma si diviene liberi, quando cioè la libertà individuale coincide con l’organizzazione della società umana nelle sue forme più elevate e complesse, sì che lo Stato appare infine la massima espressione della libertà. Certo si tratta di uno Stato che il maturo liberalismo, richiedendo nuove funzioni, contribuisce a elevare intellettualmente e moralmente, ma segna anche la separazione tra liberalismo e partito liberale, dato che quello ha impregnato di sé tutti gli schieramenti politici, così come lo Stato stesso è frutto di ogni forza politica impressionata dai principi liberali. Ciò che in Francia e in Inghilterra si agitava sul terreno politico intorno alla concezione dello Stato si ritrova in Germania formulato nel linguaggio giuridico. Così, secondo De Ruggiero, persino un pensatore come Heinrich von Treitschke, comunemente considerato un fiero avversario del liberalismo, poteva trovarvi posto, in quanto rivendicava di fronte al ‘panstatismo’ hegeliano l’autonomia degli individui garantita da quella amministrativa degli enti locali.
Ciononostante, è proprio nel tempo della sua massima espansione e riconoscimento che lo Stato liberale ha incrociato due terribili avversari, quali la democrazia e il socialismo. Quella ritiene che l’uguaglianza degli uomini preceda lo Stato e che questo non abbia altro compito che far rispettare e promuovere tale uguaglianza, anche a scapito dell’iniziativa individuale. È lo Stato che si deve occupare di elargire diritti e benefici senza preoccuparsi di sollecitare e di favorire dall’interno l’elevazione degli individui.
Dall’altra parte il socialismo, che pure De Ruggiero ritiene il più grande movimento d’emancipazione dopo la Rivoluzione francese, ha degradato la lotta politica a mera lotta economica. In tal modo, la conquista del potere non rappresenta la vittoria di un partito valida per ogni membro della comunità, ma il trionfo di una classe ai danni dell’altra, senza nessuna coscienza dei doveri generali. Dopo aver identificato il partito con una classe, il socialismo finisce per identificare la classe con lo Stato. Questa forma di lotta, questa degradazione di tutti i valori morali, giuridici, politici, ha travolto pure il ceto medio, rappresentante eletto del liberalismo, costringendolo a regredire da classe generale a classe economica e ad adottare le stesse forme di lotta dell’avversario, considerando lo Stato come terreno di conquista, il governo come un comitato d’affari, l’ordine giuridico come mezzo di potere. Ma, come sarà anche per Croce, per De Ruggiero il liberalismo non poteva morire: in quanto non partito, non setta, ma concezione del mondo prodotta dal pensiero moderno, la «fiamma della libertà» rimane accesa a onta degli accadimenti politici contingenti. La sua tormentata storia consente al liberalismo di alimentarsi di tutte le opposizioni, di ogni discordia, di ogni provvisoria sopraffazione per trasfigurarsi nello Stato politico per eccellenza. Questa specie di liberalismo eterno, che non guarda all’utile di una parte, o peggio di una classe, ma in quanto risultato di un processo storico tramutatosi in ideale, concerne tutta la vita della collettività, diviene imperativo morale che riguarda tutti, perché tutti rispetta e salvaguarda, ideale ed eterno, come lo sono la libertà e la dignità dell’uomo.
Intensa e precoce fu l’attività pubblicistica di De Ruggiero in quell’Italia dove, prima del 1915, grande parte del dibattito culturale e politico passava per riviste e giornali. E soprattutto culturale fu dapprima la sua collaborazione a periodici di vario orientamento: «La critica» di Croce dal 1911, appena ventitreenne, «La voce» di Giuseppe Prezzolini dal 1912 con il viatico dello stesso Croce, affinché vi si facesse sentire «qualche voce filosofica più seria», «Il resto del Carlino» di Missiroli, del quale fu a lungo assiduo collaboratore, contribuendo non poco a diffondere il punto di vista dell’idealismo e dell’attualismo di Croce e Gentile. Anzi, tra i giovani seguaci dei due filosofi fu proprio De Ruggiero il più attivamente impegnato.
Grande scalpore fece, nell’aprile del 1911, la sua intervista a Croce, su «Il giornale d’Italia», all’indomani del IV Congresso internazionale di filosofia, che sancì la rottura tra Croce e Federigo Enriques. Nel 1914 gli articoli pubblicati su «La voce» furono raccolti con il titolo Critica del concetto di cultura per la collana Scuola e vita diretta da Giuseppe Lombardo Radice per l’editore Battiato di Catania. Nello stesso anno e nella stessa sede De Ruggiero pubblicava un altro volumetto, Problemi della vita morale. Altri articoli, di argomento meridionale, andarono a costituire i primi capitoli de Il pensiero politico meridionale nei secoli XVIII e XIX. Nel secondo dopoguerra Renzo De Felice ha raccolto gran parte dell’attività pubblicistica di De Ruggiero nel volume Scritti politici (1912-1926) (1963), privilegiando quelli di carattere politico.
Incoerenti, contraddittorie, ondivaghe, sono state spesso considerate le posizioni politiche di De Ruggiero, almeno fino all’avvento del fascismo. In realtà, il suo fu il percorso di un giovane animato da un’ardente passione filosofica che egli pensava dovesse attuare il rinnovamento del Paese. Una politica elitaria (da qui la sua simpatia per Alfredo Oriani e per Gaetano Mosca) che recuperasse lo slancio del Risorgimento e della Destra (da qui il suo avvicinamento al nazionalismo) contro la degenerazione dell’Italia giolittiana, nella quale il liberalismo faticosamente attinto nella prima fase dello Stato unitario si era trasformato in mero opportunismo in difesa di interessi materiali.
Il suo interventismo – che gli costò la prima delle tante rotture che ebbe con Croce – fu quasi lo sbocco naturale del suo percorso, lontano e diverso da quello dei nazionalisti, dai quali si era presto staccato, così come dai democratici, dei quali non condivideva l’illusoria fede in un radioso dopoguerra di popoli e Stati pacificati. Proprio la guerra poteva metter fine al generale degrado a cui era giunta la civiltà europea, non in quanto promessa di soluzioni salvifiche, ma in quanto capace di agire nel profondo dell’animo dei combattenti. La guerra, suscitata da uno scontro di forze cieche, materialistiche, esplosione d’interessi egoistici, mette in moto una dinamica d’idee e di sentimenti che crea di continuo nuove forze, nuove attese. L’odio contro i nemici si condensa nella concordia interna, capace di superare le divisioni e i contrasti derivanti da condizioni materiali, economiche e storiche, trasformandole in sentimenti potenti. È l’idealità dell’azione che nasce direttamente dalla guerra in grado di rinnovare le coscienze. Attraverso l’azione risorgono i valori negletti, l’eroismo, l’amor di patria, il disinteresse. All’agire per l’agire tutti concorrono, dal più umile al più avvertito, con il loro entusiasmo riscattano il vuoto delle coscienze. Una visione, si è detto, sub specie philosophiae, secondo la quale il rinnovamento avrebbe dovuto riverberarsi sul dopoguerra, sui non combattenti, restaurando l’organismo nazionale.
A questa veduta De Ruggiero ispirò la sua condotta politica una volta smobilitato: il suo antigiolittismo si accentuò – e questo aggravò i suoi rapporti con Croce – con i fascisti al posto dei mazzieri dell’anteguerra. L’influenza crescente del partito socialista, dei sindacati, il parallelo sfaldamento del ceto medio, la situazione internazionale infine, lo indussero a considerare il liberalismo come l’unica via d’uscita non immediata beninteso, ma in prospettiva. Il liberalismo, svincolato dalle premesse economiche che ne avevano determinato e caratterizzato la nascita, avrebbe potuto raccogliere le energie, le forze politiche e sindacali suscitate dalla guerra, per un radicale mutamento, e da forza minoritaria ambire a divenire domani maggioranza. A De Ruggiero non interessa fondare un partito, o almeno non ritiene possibile farlo nella situazione del momento. I suoi interventi su giornali e riviste, così come i libri, sono pensati per il domani, mirano a una rivoluzione morale, il cui destinatario, un rinato liberalismo, non si identifica con nessuno dei soggetti politici del presente. E ciò spiega il suo isolamento, la sua singolarità: immerso nelle vicende politiche di quegli anni, egli ne usciva non presentando soluzioni per l’ora, ma preparando un domani, o addirittura un domani l’altro, accompagnandosi, pur senza mai identificarsi, ora con Missiroli, ora con Gobetti, ora con Giovanni Amendola, ora infine con Francesco Saverio Nitti, del quale condivise la netta opposizione al fascismo.
Come riconoscerà Luigi Russo, De Ruggiero fu il primo di tutta la generazione di idealisti crociani e gentiliani che si oppose al fascismo. Egli vi vide subito quella «convulsione anarchica» che minava il Paese, non riassorbibile, né riconducibile sui binari della vecchia prassi politica, perché in esso si combinavano la reazione conservatrice e la mentalità rivoluzionaria. Era la fine di una classe politica (Giovanni Giolitti, ma anche Antonio Salandra e Luigi Einaudi) che aveva abdicato al proprio compito, mirando tuttavia a mantenere il potere, e che ora era travolta essa stessa. Con il progressivo procedere del fascismo in regime, l’attività giornalistica di De Ruggiero vide ristretti i propri spazi: sospeso «Il paese», normalizzato «Il resto del Carlino», i suoi ultimi interventi apparvero su «Il popolo» di Donati, e fra il 1924 e il 1925 sul settimanale satirico «Becco giallo».
Il suo impegno politico-culturale riprese, soprattutto nelle pagine de «La nuova Europa», nel secondo dopoguerra, quando gli incarichi istituzionali gli diedero l’agio di ritornare a ciò che considerava, accanto agli studi filosofici, la propria vocazione. Il ritorno alla ragione intitolò nel 1946 una raccolta di quegli articoli – chiusa l’esperienza della rivista –, un «riesame critico», scriveva, dei giudizi della sua Storia del liberalismo europeo. Ma Il ritorno alla ragione è anche un esame di coscienza, per così dire, filosofico, con il quale De Ruggiero cercava una risposta al perché le speranze e le proposte affidate vent’anni prima a quel suo volume non sembravano più, neppure a lui, in grado di interpretare il presente, né tantomeno di prefigurare il futuro. Quella Seconda guerra mondiale, il razzismo, il nazismo, la guerra civile, la bomba atomica non erano addomesticabili, come gli era parso per la prima guerra, da nessun tipo di idealismo, dimostratosi incapace di svelare nelle ideologie, che stavano a fondamento di quella barbarie, le forze che avevano condotto alla distruzione della ragione. Di qui la resa dei conti con lo storicismo e con Croce, prodotti di un mondo che non esisteva più e inetti a progettarne uno nuovo; di qui la discussione su liberal-socialismo e liberalismo sociale. Sul piano più propriamente politico, ancora una volta De Ruggiero dovette constatare l’impossibilità di trovare incarnate in un movimento politico le sue proposte e le sue convinzioni, per cui, quasi a congedo, decise che «ritornando agli studi», avrebbe continuato a servire il Paese «nel modo più appropriato».
La filosofia contemporanea, Bari 1912.
Critica del concetto di cultura, Catania 1914.
Problemi della vita morale, Catania 1914.
Storia della filosofia, 13 voll., Bari 1918-1948.
L’impero britannico dopo la guerra, Firenze 1921.
Il pensiero politico meridionale nei secoli XVIII e XIX, Bari 1922.
Storia del liberalismo europeo, Bari 1925, 19412.
Scritti politici (1912-1926), a cura di R. De Felice, Bologna 1963.
G. Calò, L. Salvatorelli, Guido De Ruggiero, Roma 1949.
E. Garin, Guido De Ruggiero, in Id., Intellettuali italiani del XX secolo, Roma 1974, pp. 105-36.
D. Coli Sarfatti, Guido De Ruggiero: cultura e politica, 1910-1922, «Annali dell’Istituto di filosofia dell’Università di Firenze», 1979, 1, pp. 359-86.
C. Gily Reda, Guido De Ruggiero. Un ritratto filosofico, Napoli 1981.
R. De Felice, Intellettuali di fronte al fascismo: saggi e note documentarie, Roma 1985.
R. De Felice, De Ruggiero Guido, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 39° vol., Roma 1991, ad vocem.
M.L. Cicalese, L’impegno di un liberale: Guido De Ruggiero tra filosofia e politica, [Grassina, Bagno a Ripoli] 2006.
C. Genna, Guido De Ruggiero e «La Nuova Europa». Tra idealismo e storicismo, Milano 2010.
Nell’ambito del neoidealismo, predominante in Italia nella prima metà del Novecento, si colloca la riflessione di Carlo Antoni (Senosecchia, Trieste 1896-Roma 1959), che, con Guido De Ruggiero, nel secondo dopoguerra prese parte all’esperienza de «La nuova Europa». Volontario e medaglia di bronzo nella Prima guerra mondiale, germanista e filosofo, Antoni insegnò a Padova e a Roma. Attratto in particolare dal pensiero di Benedetto Croce (Commento a Croce, 1955), si dedicò soprattutto all’analisi dello storicismo tedesco, nel quale vide la nascita della storia e del sentimento nazionale (Dallo storicismo alla sociologia, 1940; La lotta contro la ragione, 1942), ma anche i germi del disfacimento che dovevano condurre al nazismo. In Hegel colse la reazione all’irrazionalismo romantico, ma anche la subordinazione dell’individuo allo Stato, non risolta da Karl Marx, che pure inserì nella dialettica della storia la rivendicazione dell’uguaglianza di derivazione giusnaturalistica (Considerazioni su Hegel e Marx, 1946).
In polemica con la cultura idealistica fu invece Ludovico Geymonat (Torino 1908-Rho 1991), il più rappresentativo esponente dei rapporti tra filosofia e scienza. Di formazione torinese (ebbe come maestri Annibale Pastore, Giuseppe Peano, Erminio Juvalta), fu nel 1956 il primo cattedratico, a Milano, di filosofia della scienza. Il suo percorso partì dal neopositivismo (Studi per un nuovo razionalismo, 1945). L’affermazione del valore euristico della scienza si connette alla funzione risolutiva della filosofia e della storia, che ne garantisce nel fluire del tempo l’approssimazione al reale (Filosofia e filosofia della scienza, 1960). Fortunate le sue opere di divulgazione storica, il Galileo Galilei (1956) e la monumentale Storia del pensiero filosofico e scientifico (7 voll., 1970-1972). Grande impegno profuse nell’attività politica, partigiano, assessore per il Partito comunista italiano, redattore de «L’Unità».
Ai problemi metodologici della scienza si interessò anche Nicola Abbagnano (Salerno 1901-Milano 1990), allievo di Antonio Aliotta, con il testo La fisica nuova (1934). Tuttavia, fu soprattutto all’esistenzialismo che dedicò – una volta trasferitosi all’Università di Torino – le proprie energie, divenendone il maggior esponente italiano (La struttura dell’esistenza, 1939 e Introduzione all’esistenzialismo, 1942). Fu lui ad animare il dibattito su quel tema che si svolse tra le tragedie della guerra sulla rivista di Giuseppe Bottai «Primato» nel 1943. Nel dopoguerra divenne uno dei principali esponenti del cosiddetto neoilluminismo, impegnandosi nella costruzione di una cultura filosofica laica e aperta ai più significativi orientamenti del pensiero filosofico straniero. Di qui i suoi interessi per il neo-pragmatismo (John Dewey), la sociologia, il neopositivismo. Successo e popolarità gli diedero due grandi opere, la Storia della filosofia (3 voll., 1946-1950) e la Storia delle scienze (3 voll., 1962), mentre il suo Compendio di storia della filosofia (3 voll., 1945-1947) per decenni rappresentò per le scuole superiori l’alternativa ai manuali cattolici.
Sempre all’Università di Torino ebbero luogo la formazione e l’insegnamento di Luigi Pareyson (Piasco, Cuneo 1918-Milano 1991), allievo di Augusto Guzzo, che seguì le lezioni di Karl Jaspers a Heidelberg e quindi partecipò alla Resistenza tra le fila del Partito d’azione. Egli presentò una forma di esistenzialismo non solo come una filosofia dell’individuo, ma come un pensiero capace di porre fine alle ideologie ottocentesche, responsabili dirette delle tragiche crisi del Novecento (La filosofia dell’esistenza e Carlo Jaspers, 1940; Esistenza e persona, 1950). Sören Kierkegaard, negando l’identità tra pensiero e realtà, è la vera alternativa a Hegel e può farci scorgere una via d’accesso alla realtà (esistenzialismo personalistico e ontologico) capace di tracciare una storia della filosofia intesa come dissoluzione dell’hegelismo. E attraverso Kierkegaard, Pareyson giunge a un cristianesimo tragico, eppure il solo capace di dare una risposta alla deriva atea e nichilista del pensiero contemporaneo. Come Martin Heidegger, egli approda all’ermeneutica (Verità e interpretazione, 1970), nella quale l’esistenza in quanto tale si caratterizza come la comprensione dell’essere trascendente.