GUIDO da Velate
Rampollo di una famiglia della nobiltà rurale di estrazione capitaneale insediata nel territorio di Varese, nacque presumibilmente nel primo quarto del sec. XI.
Non sappiamo quasi nulla di G. prima del 18 luglio 1045, quando l'imperatore Enrico III lo nominò arcivescovo di Milano, durante una Dieta tenutasi probabilmente ad Aquisgrana.
La nomina imperiale del presule di una delle più importanti diocesi della Cristianità non era una novità. L'elemento di rottura era rappresentato piuttosto dal rifiuto di Enrico III di concertare, almeno in parte, con il ceto dirigente cittadino la scelta del candidato da nominare. La città aveva infatti inviato a Enrico quattro diaconi cardinali, eletti dal clero milanese come candidati da sottoporre alla sua scelta per la cattedra episcopale, ed esponenti degli ordinarii e dei capitanei, cioè del clero cardinale ambrosiano e dell'aristocrazia feudale urbana. L'invio di ben quattro candidati era un tentativo da parte dei ceti eminenti cittadini, ecclesiastici e laici, di mantenere nella sostanza il controllo della nomina arcivescovile, atto considerato tradizionalmente appannaggio dei gruppi di potere urbani e, nel contempo, di lasciare una certa facoltà di scelta a Enrico. La misura di prudenza era suggerita dal fatto che i rapporti tra l'Impero e Milano erano in un momento delicato per gli strascichi degli scontri che avevano segnato l'episcopato del predecessore di G., Ariberto da Intimiano (1018-45), e i Milanesi potevano aspettarsi in questa circostanza, da parte dell'imperatore, un atteggiamento di estrema prudenza, se non di diffidenza.
La scelta imperiale cadde infatti su uno dei preti della cappella regia, estraneo al gruppo dei quattro candidati milanesi. Questo atto era evidentemente un tentativo, da parte di Enrico, di ridimensionare la sfera d'azione del ceto capitaneale, che pochi anni prima, raccolto intorno all'arcivescovo, si era mostrato in più occasioni ostile alla politica imperiale, e di comprimere il tradizionale diritto di controllo sull'elezione esercitato dai più influenti ceti urbani intaccandone il prestigio.
Mentre nel 1018 Ariberto sarebbe stato nominato, secondo quanto riportato dai cronisti dell'evento, dall'imperatore con l'accordo dell'aristocrazia maggiore, l'elezione dei quattro candidati alla cattedra ambrosiana sarebbe invece avvenuta alla presenza di tutta la cittadinanza, "civium universorum collectio adunata", cioè anche di cives provenienti "tam e clericis quam laicis" (Landolfo seniore, pp. 74, 83). Più che i prodromi del regime assembleare di impronta comunale, come pure alcuni storici hanno interpretato il passo citato, nell'espressione del cronista si fa probabilmente riferimento a un'assemblea di tutta la popolazione urbana, senza alcun precipuo carattere politico, convocata per designare i candidati alla sede vescovile, testimonianza importante di un "intervento più attivo del popolo nelle elezioni vescovili" (Ambrosioni, p. 198). Già l'episcopato di Ariberto, anch'egli appartenente al ceto capitaneale, aveva visto momenti di collaborazione tra il gruppo dominante da cui proveniva l'arcivescovo e la piccola aristocrazia feudale, i valvassori, i proprietari del contado inurbatisi; tale collaborazione aveva provocato forti tensioni con l'imperatore Corrado II. Fu probabilmente il timore che si riproponessero atteggiamenti e iniziative ostili all'Impero a spingere Enrico a evitare di nominare un esponente dell'alto clero urbano e dell'aristocrazia cittadina, preferendogli un membro dell'aristocrazia del contado.
L'estrazione sociale di G. è stata a lungo fraintesa. L'attribuzione dell'arcivescovo al ceto dei valvassori risale a una notizia tarda, a lungo considerata veridica, anche sulla scorta del severo giudizio espresso dal cronista Arnolfo, il quale diede voce al disprezzo per G. che doveva caratterizzare larghi settori del gruppo capitaneale, di cui Arnolfo stesso era esponente, definendolo "idiotam et a rure venientem" (Arnolfo, p. 17) e "contrapponendo la nobiltà e la sapienza del clero primi ordinis ovvero cittadino, alla sua ignoranza e origine campagnola, […] viva testimonianza di un'animosità esistente tra i nobili capitanei cittadini e i valvassori, tra il clero cittadino, con tradizioni culturali, e il più modesto e meno colto clero decumano" (Violante, 1953, p. 189). Questa "animosità" sarebbe stata rafforzata da un contrasto di interessi fra capitanei e valvassori cittadini, da una parte, "i quali avevano il districtus nelle pievi e nei loro feudi in campagna […] ed esercitavano contemporaneamente poteri in città […] e la piccola nobiltà feudale e campagnola o i medi e piccoli proprietari, i quali non avevano il districtus" (Violante, 1955, p. 28). La famiglia d'origine di G. deve invece essere considerata di estrazione capitaneale, presente nel territorio di Velate insieme con i capitanei da Porta Romana e con i capitanei da Porta Orientale, e attestata precocemente come vassalli vescovili dotati di decime feudali. Del resto, G., come suo cappellano, era intimo dell'imperatore, il quale difficilmente avrebbe potuto scegliere, per la delicatissima e potente diocesi ambrosiana, un uomo di origine modesta, a rischio di inimicarsi ulteriormente il clero cattedrale, già offeso dall'estromissione dalla nomina episcopale. Non a caso, negli anni successivi alla nomina, G. mantenne costanti rapporti con la corte, recandosi più volte presso Enrico in Germania.
Due mesi dopo la nomina imperiale, nei primi giorni di settembre 1045, G., tornato dalla Germania, fu consacrato dai vescovi suffraganei della diocesi e poté entrare in città; la reazione dei Milanesi alla manovra di Enrico III fu dunque, almeno all'inizio, assai blanda.
Il dissenso dell'alta feudalità cittadina, rimasto sopito per timore del sovrano e per le discordie interne, secondo l'interpretazione di Arnolfo ("repugnant parum Mediolanenses sive timore regio, sive inter se odio", p. 17), esplose però clamorosamente poco dopo l'entrata in città di G., quando, nell'autunno dello stesso anno, di fronte ai fedeli che assistevano attoniti, gli ordinari della cattedrale, durante una solenne funzione religiosa in S. Maria Iemale, abbandonarono il vescovo celebrante. Lo scontro si protrasse, probabilmente in modo strisciante, tra sospetti e mormorazioni, fino al 1050, anno in cui il vescovo dovette comparire davanti al papa Leone IX in un sinodo lateranense, per discolparsi dall'accusa di essere stato eletto simoniacamente. Questa accusa gli era stata mossa con ogni probabilità dagli stessi gruppi capitaneali che avevano aperto lo scontro fin dal 1045. G. ne uscì assolto e ottenne inoltre che fosse restituito al titolare della cattedra ambrosiana il diritto, che era stato concesso nel 1047 all'arcivescovo di Ravenna, di sedere alla destra del pontefice.
Ciò che potrebbe sembrare una questione puramente formale aveva invece importanza strategica nell'organizzazione del consenso della cittadinanza verso il presule. Uno dei banchi di prova sui quali si valutava l'adeguatezza dei nuovi vescovi era infatti la capacità di difesa delle prerogative della Chiesa cittadina e della sua tradizionale indipendenza da Roma, delle sue prestigiose tradizioni, anche culturali, e dell'autorevolezza del titolare, che si esprimeva per esempio nel rapporto di stretta dipendenza dei monasteri cittadini dall'autorità arcivescovile, cui pare spettasse, al tempo di Ariberto e di G., la nomina di molti abati (Violante, 1953, p. 296). Su questi punti la cittadinanza era pronta ad accantonare le divisioni politiche e sociali tra gruppi, per tutelare la propria Chiesa di fronte ad attacchi esterni, e si aspettava dal proprio arcivescovo un atteggiamento altrettanto intransigente. Il giudizio dei contemporanei su G. è a questo riguardo piuttosto severo, benché il vescovo si adoperasse, spesso con successo, in difesa delle prerogative ambrosiane. In particolare, il cronista Landolfo seniore (pp. 83 s.) rimprovera a G. la sua scarsa preparazione culturale, ritenendolo "in divinis litteris perparum eruditus" e perciò inadatto a rappresentare degnamente le glorie dell'episcopato ambrosiano.
Quello che fu considerato un segno importante del ritrovato prestigio della Chiesa milanese favorì il ridimensionamento dei contrasti sorti in seno al mondo ecclesiastico cittadino e sembrò attenuare l'opposizione degli ordinari nei confronti del vescovo. Un segno di tale ritrovata unità può essere letto nella solenne assemblea cittadina, presieduta nel 1053 da G. alla presenza di tutto il clero urbano, dai chierici ordinari ai preti decumani, dell'abate di S. Ambrogio e di diversi altri abati e monaci, nonché di molti laici "magiores et minores", durante la quale venne istituita la festa dell'Esaltazione della Croce, già celebrata con grande solennità in molte altre diocesi.
Durante l'episcopato di G. prese avvio il movimento della pataria, sviluppatosi a Milano a partire dalla predicazione di Arialdo, diacono del clero decumano, di famiglia di piccoli proprietari del contado. Tra la fine del 1056 e i primi mesi del 1057 Arialdo da Varese giunse a Milano, dove cominciò a predicare la necessità del ritorno del clero a costumi morali più severi, in particolare per quanto riguardava il matrimonio e il concubinato di preti e diaconi, allora largamente diffusi nella diocesi ambrosiana. Nonostante il grande consenso raccolto dal predicatore tra gli esponenti dei più diversi ceti sociali, il vescovo sembrò sottovalutare, almeno all'inizio, la pericolosità della situazione di endemico tumulto che andava creandosi in città, culminata nei violenti scontri scoppiati il 10 maggio 1057.
Landolfo seniore riferisce che G. avrebbe personalmente chiesto ad Arialdo e al suo compagno Landolfo di desistere dalla predicazione contro il clero che alimentava i disordini, ma evidentemente senza alcun risultato. L'attacco dei patarini al clero e alle istituzioni ecclesiastiche milanesi, che rischiava di scardinare un intero sistema di organizzazione e di governo della Chiesa, favorì il rinsaldarsi di un fronte comune tra l'arcivescovo, il clero maggiore e l'alta aristocrazia feudale, che in questo frangente dimenticarono le contrapposizioni del decennio precedente, per stringersi intorno al presule in quanto non soltanto vertice delle istituzioni religiose cittadine, ma anche rappresentante di ceti sociali che condividevano i medesimi interessi e quelle istituzioni tradizionalmente controllavano. Si deve comunque tener presente che, secondo Andrea di Strumi, tra i seguaci di G. si trovavano anche "multi de popolo minore" (p. 1074).
Tra agosto e ottobre 1057 G. si recò in Germania, dove assistette all'investitura del nuovo vescovo di Eichstädt. Durante la sua assenza, il clero milanese si appellò prima ai vescovi suffraganei, quindi a papa Stefano IX, chiedendone l'intervento in sua difesa. Questi ordinò a G. di convocare un sinodo, per risolvere i problemi della sua Chiesa, che però si tenne soltanto qualche tempo dopo il ritorno di G. dalla Germania, a Fontaneto, in territorio novarese, alla presenza dei vescovi suffraganei. In quell'occasione Arialdo e Landolfo, chiamati a discolparsi e non essendosi presentati, furono scomunicati in contumacia. Nel frattempo le agitazioni patariniche andavano intensificandosi mentre la predicazione di Arialdo si orientava sempre più verso la lotta contro le ordinazioni simoniache dei preti, tanto da suggerire l'invio da Roma di una missione a carattere esplorativo. Nell'ottobre 1057 giunsero in città i due legati papali, Ildebrando di Soana e il milanese Anselmo da Baggio, vescovo di Lucca, che proprio da G. era stato ordinato sacerdote.
Nel 1059 G. si recò a Roma, dove con i vescovi suffraganei di Asti, Torino, Bobbio, Alba, Novara, Ivrea e Vercelli partecipò al concilio Lateranense presieduto da Niccolò II durante il quale furono promulgate le nuove norme relative all'elezione dei papi. Nell'inverno dello stesso anno giunse a Milano una seconda missione pontificia, composta ancora da Anselmo da Baggio e da Pier Damiani, con l'incarico di porre fine alle pratiche nicolaitiche e soprattutto simoniache, che nella Chiesa milanese apparivano come elementi strutturali di funzionamento dell'istituzione. Ne è chiaro segnale la notizia, che appare verosimile, che fosse stata creata una sorta di tariffario per accedere a tutti gli ordini, sia maggiori sia minori.
Alcuni atti compiuti dai legati romani - soprattutto il fatto che l'arcivescovo fosse stato fatto sedere da Pier Damiani alla sua sinistra, anziché alla destra - suscitarono grandi preoccupazioni nei Milanesi, che vi lessero un nuovo attentato alle prerogative e al prestigio della Chiesa cittadina e per questo scatenarono un violento tumulto contro i legati, di cui lo stesso G. venne in seguito accusato come organizzatore. Ciononostante, l'atteggiamento di G. fu di grande ossequio e rispetto nei confronti dei legati papali e della Chiesa romana e il giudizio espresso da Pier Damiani su di lui fu nel complesso favorevole. G. accettò di promulgare un documento di pubblica condanna della simonia e del nicolaismo, che gli ordinari dovettero poi sottoscrivere, con il giuramento davanti ai legati e ai cittadini di rinunciare in avvenire a procedure illecite nelle ordinazioni dei chierici.
G. fu presente una seconda volta a Roma nel 1060, durante un concilio in cui Arialdo, anch'egli recatosi presso il pontefice, lo accusò di essere stato eletto simoniacamente. Papa Niccolò II non diede alcun seguito alle accuse, fece anzi sedere G. alla sua destra, come richiedeva la sua carica; il che venne accolto con grande soddisfazione dalla popolazione milanese e contribuì a rafforzare il prestigio dell'arcivescovo.
A Milano la situazione andava però rapidamente deteriorandosi. L'atteggiamento sempre più intransigente dei patarini, la crescente violenza degli scontri, il collegamento del movimento con Roma - che andava chiaramente configurandosi come un processo di inquadramento e controllo da parte della Curia dell'attività dei laici - provocarono l'irrigidimento degli schieramenti contrapposti, sino alla scomunica di G., accusato dai patarini di continuare a favorire le ordinazioni simoniache non rispettando il giuramento fatto davanti a Pier Damiani. Nel 1066 papa Alessandro II (Anselmo da Baggio) inviò a G. la bolla di scomunica, che gli fu consegnata dal capo patarino Erlembaldo. Il 4 giugno 1066, giorno di Pentecoste, mostrando il documento di scomunica ai fedeli raccolti per la celebrazione, il vescovo accusò i capi patarini di voler sottomettere la Chiesa ambrosiana a Roma, incitando i cittadini a difenderne l'onore e il prestigio e lanciando l'interdetto sulla città, sinché Arialdo vi si fosse trattenuto. Scoppiarono ancora una volta violenti scontri e il predicatore abbandonò la città. Pochi giorni dopo venne catturato, trasportato nella fortezza di Angera, appartenente al patrimonio episcopale, e ucciso dagli uomini di una nipote del vescovo, Oliva.
Lo scompaginamento del fronte patarinico durò per circa un anno, sino al ritrovamento e alla solenne traslazione a Milano delle spoglie di Arialdo, accompagnate dalla fama di santità e da voci di guarigioni miracolose. Erlembaldo si pose alla guida del movimento, che si ricompattò grazie anche a un nuovo intervento regolatore della Curia pontificia, la quale inviò un'altra legazione a Milano nel luglio 1067. La scelta del capo patarino, probabilmente non osteggiata, anzi incoraggiata da Roma, fu di procedere all'elezione di un nuovo arcivescovo, sul quale non pesassero sospetti di complicità con il clero simoniaco. G., attaccato insieme con i suoi parenti e sostenitori, non fu in grado di fronteggiare l'offensiva di Erlembaldo, che poteva contare tra l'altro sull'aiuto di numerosi chierici e laici a lui legati da giuramenti di fedeltà vassallatica, e preferì rinunciare alla cattedra milanese, restituendo nel 1068 all'imperatore Enrico IV le insegne episcopali.
A dimostrare tuttavia che il suo ruolo nella vita ecclesiastica era ancora tutt'altro che marginale, prima di ritirarsi nel castello episcopale di Bergoglio (vicino all'odierna Alessandria) G. riuscì a far nominare come successore il proprio collaboratore Goffredo (Gotofredo), suddiacono del clero ordinario, con l'appoggio e il consenso di Enrico IV, che investì il nuovo vescovo. Con questa mossa G. scavalcava le aspettative sia dei patarini sia dello schieramento avverso, il cui nerbo era costituito dalla aristocrazia maggiore, ancora una volta esclusa dalla scelta del proprio arcivescovo. Le modalità di scelta del nuovo presule spiegano, almeno in parte, l'ostilità nei suoi confronti dell'aristocrazia e del clero maggiore, analoga a quella manifestata dai medesimi gruppi, per gli stessi motivi, al tempo dell'elezione di Guido.
Deluso nelle sue aspettative sul suo successore Goffredo - secondo Arnolfo, il quale scrive che il vescovo si sentiva tradito dal suo antico segretario perché questi sarebbe venuto meno a non meglio precisati accordi stabiliti in precedenza tra i due - e cercando forse anche di approfittare delle difficoltà del nuovo eletto, impossibilitato a entrare in città a causa della violenta opposizione dei patarini e della Curia pontificia, G. cercò di tornare sui suoi passi e di riprendere possesso della cattedra ambrosiana. Intavolò trattative con Erlembaldo che parvero giungere a buon fine, ma quando lasciò il sicuro rifugio delle possessioni episcopali venne catturato dai patarini, condotto a Milano e rinchiuso nel monastero di S. Celso.
La confusione seguita a un vasto incendio scoppiato a Milano il 19 marzo 1071 permise a G. di evadere dalla prigionia in S. Celso e di tornare a Bergoglio, dove morì il 23 ag. 1071.
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