Montefeltro, Guido da
Il nobilissimo nostro latino Guido montefeltrano, come lo qualifica D. in Cv IV XXVIII 8, d'accordo con le note referenze dello stesso tenore di Salimbene (ediz. Scalia, II 224) e di G. Villani (VII 44 e 80), nato verso il 1220, nel 1268 è a Roma vicario di Corradino, immediatamente prima della sconfitta di questo ai campi Palentini.
Nel 1274 assume il comando dei ghibellini di Romagna (Villani VII 44) e nel maggio dell'anno successivo, posto il quartier generale a Forlì, sconfigge una coalizione di guelfi bolognesi (i Geremei, in lite con i Lambertazzi ghibellini, su cui informano due ‛ serventesi ', il Serventese romagnolo e il Serventese dei Lambertazzi e dei Geremei, composti in quel giro di anni), precisamente al Ponte San Procolo, tra Faenza e Imola, mentre nel settembre dello stesso 1275 infligge una nuova sconfitta ai guelfi in Raversano, presso Cesena. Per cinque anni G. si fa paladino, in qualità di capitano del popolo di Forlì, della resistenza antipapale della Romagna, a vantaggio delle libertà comunali, finché papa Martino IV, su istigazione dei Geremei, invia il rettore di Romagna Giovanni d'Appia (d'Eps) alla testa di truppe papali-angioine-francesi, per debellare l'irriducibile avversario del potere temporale della Chiesa, le cui malefatte la fama aveva recato ai confini della terra e agli angoli del mondo (" iam fere terrarum fines, orbisque anguli praecurrentibus famae relatibus agnoverunt ", dice nel suo latino nell'ingiunzione ai guelfi locali il papa, non immemore di Ps. 18, contagiando magari, secondo il Torraca, lo stesso dire del G. dantesco in If XXVII 76-78 Li accorgimenti e le coperte vie / io seppi tutte, e sì menai lor arte, / ch'al fine de la terra il suono uscie).
L'Appia arriva in Romagna nella primavera del 1281, iniziando un estenuante assedio, di volta in volta punteggiato di minacce, di tradimenti, di prove di forza, che G. e i Forlivesi sostengono appunto con le arti ‛ leonine ', senza disdegnare quelle ‛ volpine '. Di sorpresa, il 30 aprile 1282 le truppe dell'Appia assalgono e conquistano il borgo di Schiavonia, presso il fiume Montone, verso Faenza. Il giorno successivo, 1 maggio, sembra che l'Appia abbia commesso un forte errore di strategia (non vi è accordo fra i cronisti), controbilanciato da una segnalata astuzia del Montefeltrano: divisi in due tronconi, una parte degli assedianti (in maggioranza cavalieri francesi) penetra in città, attraverso la porta della Rotta fintamente difesa da G., che invece concentra le sue forze contro la parte restata fuori, in modo da avere ragione in due tempi di entrambe, con larga strage dei cavalieri. Tale la lunga prova / e di Franceschi sanguinoso mucchio di If XXVII 43-44, che caratterizza assai bene la carriera di G., che dopo la vittoria, vedendo i Forlivesi stanchi e delusi ormai rassegnati a cedere, si ritira con pochi amici sulle montagne, sventando insidie tramate dagli avversari: dopo aver patteggiato con la Chiesa (con papa Onorio IV), se ne sta per qualche tempo al confino, a Chioggia e successivamente ad Asti (Villani VII 108).
Nel 1289 scende a Pisa, per prendere possesso della carica di capitano del popolo e capitano generale della guerra contro Firenze a cui era stato eletto: in breve s'impadronisce di un vasto territorio, di tutta Val d'Era e Val di Calci, di Caprona (facendone ‛ isbandire di grave bando ' quelli che l'avevano ceduta, come vide lo stesso Dante). Nel 1292 Firenze manda contro Pisa un esercito agli ordini di Gentile Orsino, che G. si limitò a fronteggiare, difendendosi dall'interno della città. Una volta stipulata la pace fra Firenze e Pisa (1293) si dimette (Villani VIII 2): Firenze dispone per lui onori al passaggio nelle sue terre e in quelle degli alleati. L'anno prima (1292), era già divenuto signore di Urbino, che difende dagli attacchi di Malatestino di Rimini, podestà di Cesena. Prima a Celestino V, poi a Bonifacio VIII domanda di essere riammesso nelle grazie della Chiesa: siccome Bonifacio è incline a una politica di pacificazione in Romagna, un'udienza concessa ai signori e ai rappresentanti di quei comuni, alla quale interviene fra gli altri Malatesta da Verucchio, convince il Montefeltrano, ormai settantaquattrenne, a entrare nell'ordine francescano (If XXVII 67), dove mena vita austera fino alla morte, avvenuta nel monastero francescano di Assisi o ad Ancona, secondo il Chronicon fratris Eleemosynae, nel settembre 1298.
Nell'Inferno G. è condannato da D. nell'ottava bolgia dell'ottavo cerchio per il consiglio fraudolento, estortogli da Bonifacio VIII, circa la presa di Palestrina. Proprio questo è il nodo principale di If XXVII - immediatamente successivo al canto dell'altro orditore d'inganni che fu Ulisse -, tutto dedicato al Montefeltrano (vita, ambiente, consiglio dato a Bonifacio): sicché si vede subito che D. ha preferito alla fulminea concentrazione su questo fatto decisivo un largo indugio nel tratteggiare episodi particolarmente sentiti di storia romagnola, su cui accampare la figura a tutto tondo di un condottiero. Forse non hanno ragione quelli che avrebbero preferito che il poeta, lasciando da parte i suoi interessi di politico e di moralista, si fosse tenuto all'esclusivo sviluppo della " più profonda ispirazione tragica del canto " (da ultimo E. Bonora). Anzi, a ben guardare, sia all'interno del canto stesso, sia all'interno del poema, si stabilisce tutta una serie di correlazioni incentrate sul rapporto dialettico fra il conte G. e l'ambiente tosco-romagnolo (con nello sfondo il Papato, gli Angioini, ecc.), che dovrebbe essere decisiva per l'interpretazione dell'atto finale.
Certamente il consiglio fraudolento di G. non è un'invenzione dantesca (naturalmente l'attendibilità storica del fatto costituisce una questione diversa): dopo le ricerche del Torraca, del Parodi (in " Bull. " XVIII [1910]) e soprattutto di A.F. Massèra (ibid. XXII [1914] 168-200), si tende a concedere credito a un passo delle così dette Historiae del cronista Riccobaldo da Ferrara, composte nel periodo fra il 1308 e il 1313, non sospettabile di derivazione dantesca, che fa preciso riferimento alla richiesta di Bonifacio al conte G. di un consiglio da usare contro i cardinali avversi, così evaso: " Multa promittite, pauca servate de promissis " (If XXVII 110 lunga promessa con l'attender corto). Parrebbe un truismo, e non lo è: nella sua semplicità e nella sua formulazione memorabile, rappresenta il parere di un tecnico (valido soprattutto per quello che scongiura, come ben vide il Del Lungo: " intorno a Palestrina si sarebber consumate a vuoto le forze dell'oste bonifaciana "), è suffragato dalle infinite esperienze che G. ha compiuto nella sua carriera e che D. ha quindi giustamente richiamato per accenni balenanti.
Molto sagace è quindi la triplice scansione del dramma (o ‛ mistero ' che sia): contrasto fra Bonifacio e G. (richiesta del consiglio strategico, esitazione, promessa fallace, consiglio fraudolento), contrasto fra il diavolo loico e s. Francesco (che fa pendant con la disputa sull'anima di Bonconte: cfr. Pg V), giudizio finale di Minosse. La conversione tardiva all'ordine francescano non aveva cancellato l' ‛ uomo vecchio ', il callido orditore di astuzie volpine: lo ha solo reso esitante, ma indifeso di fronte ai sofismi teologici dell'antagonista Bonifacio. Dunque, i primi piani appartengono tutti al conte G., di cui sono equamente sottolineate le virtù leonine e quelle volpine: mentre obliquamente la condanna politica e religiosa dell'odiato Bonifacio (sostituzione dei nemici naturali della Chiesa con i rivali personali, da vero principe de' novi Farisei) è completa, più odiosa di quella del Montefeltrano, che pure ha meritato la gran rabbia di Minosse: Questi è d'i rei del foco furo.
Bibl. - F. D'Ovidio, Studi sulla D.C., I, Napoli 1931; ID., Nuovi studi danteschi. Il preludio del Purgatorio e discussioni varie, II, ibid. [s.a.]; F. Torraca, Studi danteschi, ibid. 1912 (raccoglie lo studio Il sanguinoso mucchio del 1895 e la lettura fiorentina del c. XXVII del 1900, stampata l'anno successivo); I. Del Lungo, Il c. XXVII dell'Inferno, Firenze 1916; F. Crispolti, G. da M., in Alla scuola di D., ibid. 1931; B. Terracini, Il canto XXVII dell'Inferno, in " Lettere Italiane " VI (1954), poi in Lett. data. 517-545; P. Carli, G. da M. nell'episodio dell'Inferno dantesco, in Saggi danteschi. Ricordi e scritti vari, ibid. 1954, 54-67; G. Fallani, Il c. XXVII dell'Inferno, in Lect. Romana, Torino 1959; E. Bonora, II c. XXVII dell'Inferno, in Lect. Scaligera I 965-992; C. Varese, in D. nella critica d'oggi, a c. di U. Bosco, Firenze 1965, 489-498.