SFORZA, Guido Ascanio (Ascanio)
– Nacque dal cardinale Alessandro e da Paolina Muti in una data che non è possibile precisare, probabilmente a Roma.
Il testamento del padre, rogato dal notaio Prospero Campana l’11 luglio 1580, assegnando l’eredità ai fratelli Mario e Paolo, lo cita semplicemente come «eorum nepoti naturali» (Archivio di Stato di Roma, Trenta notai capitolini, 464, c. 594r) lasciandogli il modesto vitalizio di cinquanta scudi al mese con la clausola che «non potesse pretendere di più» (c. 594v).
Sforza esordì nella vita militare alla fine del 1582, quando fu nominato capitano di una compagnia di cavalleggeri impegnata nel mantenimento dell’ordine pubblico. L’anno successivo assunse il comando di quella del gentiluomo imolese Gentile Sassatelli, da poco defunto. Il suo nome, però, doveva distinguersi presto per tutt’altre ragioni. Nell’estate del 1585, infatti, quando da quattro mesi era stato eletto pontefice Sisto V, Sforza fu protagonista – insieme a Virginio di Latino Orsini della Mentana e altri giovani nobili romani – di una «solenne burla» (Avvisi di Roma del 31 agosto 1585, in Biblioteca apostolica Vaticana, Urb. lat., 1053, c. 415v). Uccise dieci gatti, mozzò loro il capo e impalò le teste mozzate. Derideva, così facendo, l’intransigenza contro i fuorusciti dello Stato della Chiesa che papa Peretti intendeva dimostrare compiendo gli stessi atti sui cadaveri dei capibanditi giustiziati. La reazione del governatore di Roma, Mariano Pierbenedetti, fu molto severa. Sforza e gli altri responsabili furono arrestati e detenuti nel carcere di Tor di Nona, all’inizio di settembre. Ci volle un intervento del cardinal nipote Alessandro Damasceni Peretti per presentare la vicenda al papa «come di cosa fatta da giovani per facetia, et non per offendere o deridere la giustitia» (Camillo Capilupi al duca Guglielmo Gonzaga, 4 settembre 1585, in Archivio di Stato di Mantova, Archivio Gonzaga, 938, c. 217v). Entro pochi giorni, Sforza fu scarcerato e graziato. Divenne intimo del cardinal Montalto. Insieme a Virginio Orsini della Mentana, si fece notare dal cardinale Ferdinando de’ Medici per il suo scoperto proposito di «disviarlo a femine» (lettera al granduca Francesco I, Roma, 13 settembre 1585, in Archivio di Stato di Firenze, Mediceo del Principato, 5092, n. 78).
La carriera militare di Sforza non prese quota facilmente. Fallito per mancanza di mezzi il suo disegno di passare a combattere in Francia, dove infuriava l’ultima fase delle guerre di religione, l’elezione di papa Gregorio XIV, il 5 dicembre 1590, mutò il quadro. Nella primavera del 1591, Sforza fu incaricato di coadiuvare il cugino, il cardinale Francesco, nelle operazioni di repressione militare del banditismo nelle province settentrionali, cogliendo discreti risultati soprattutto fra Imola e Faenza contro le bande di Giacomo della Serra e del Gallo.
Gli impegni più consistenti dovevano sopraggiungere con il pontificato di Clemente VIII (1592-1605). Nel 1595 entrò nel corpo di spedizione pontificio inviato in Ungheria per combattere i turchi a sostegno dell’esercito dell’imperatore Rodolfo II d’Asburgo. Lo guidavano il nipote del papa, Giovan Francesco Aldobrandini, e lo zio di Ascanio, Paolo Sforza, veterano della battaglia di Lepanto. In particolare, Ascanio ebbe non solo il grado di capitano, ma anche subito il comando di un reggimento, chiamato terzo (a imitazione del castigliano terçio).
L’obiettivo della campagna era la conquista di Strigonia (l’odierna Esztergom), città sul Danubio che controllava le vie di comunicazione con Vienna, sia terrestri sia fluviali. Quando i soldati pontifici piantarono il campo, il 22 agosto 1595, le truppe asburgiche avevano avuto già ragione di gran parte delle sue difese. Restava il castello, in posizione sopraelevata. Un attacco generale fu deciso per il 25 agosto. I comandanti dei terzi pontifici ebbero l’ordine di guidare le diverse ondate. Ascanio guidò la terza, ma non riuscì a provocare nessuno sfondamento. La città si arrese comunque dopo pochi giorni, all’inizio di settembre. Ascanio Sforza, insieme allo zio Paolo, fece parte del gruppo di ufficiali pontifici, toscani e asburgici che concordarono i patti di resa con la guarnigione turca.
Ascanio partecipò anche alla successiva presa di Vicegrado (l’attuale Visegrád), alla metà di settembre. Poi però la spinta offensiva si esaurì ed egli rientrò in Italia. Il viaggio, nel gennaio del 1596, coincise con ingressi quasi trionfali prima a Bologna, poi a Firenze. Restò ancora per qualche settimana nella capitale del Granducato, essendo caduto malato. Rientrato a Roma, fu di nuovo protagonista nei primi giorni del 1597 di una grave vicenda giudiziaria.
Mentre stava sorvegliando il trasloco delle sue masserizie in una nuova abitazione, presa in affitto dalla madre presso l’oratorio di S. Marcello (nel rione Trevi), Ascanio aveva incontrato Ottavio Massimo, maestro di camera del duca di Segni Alessandro Sforza. Dallo scambio dei saluti, ritenuto freddo e inadeguato da parte di Ascanio, era nato un alterco con sfodero delle spade e reciproche sfide a duello. La vicenda non era ulteriormente degenerata, dopo i primissimi fendenti incrociati, poiché gli staffieri del duca Sforza e altri si erano interposti fra i due che continuavano a insultarsi (Ottavio de’ Massimi, definito a gran voce «pancione!», apostrofava Ascanio Sforza con la parola «mulo!», alludendo al suo non essere sposato o alla sua scarsa vigoria sessuale). Ma anche solo la sfida data pubblicamente, nella Roma della Controriforma, costituiva un reato gravissimo e Ascanio – nonostante un monitorio papale che imponeva i suoi arresti domiciliari – si rifugiò a Proceno, presso lo zio Paolo. Fu il cardinale di famiglia, Francesco Sforza, a convincerlo a costituirsi. All’inizio di febbraio del 1597, così, Ascanio si mise a disposizione della giustizia pontificia a Castel Sant’Angelo. Fu interrogato e trattenuto per qualche mese. Tornò in carcere anche nella successiva metà di giugno.
Ottenne quindi la grazia, ma la fresca memoria dell’incidente gli impedì di partecipare non solo alla seconda spedizione in Ungheria del 1597, ma anche alla mobilitazione dell’esercito pontificio per garantire la devoluzione del Ducato di Ferrara, dopo la morte di Alfonso II d’Este senza eredi ritenuti legittimi dalla S. Sede. Ebbe forse qualche proposta di entrare fra gli stipendiati di re Filippo II.
Una lettera al duca Virginio Orsini di Bracciano, il 1° agosto 1598, chiarì il motivo per cui non gli era parso opportuno legarsi alla Corona di Spagna: non aveva avuto intenzione «di vendere così poco, come s’usa in questo vil mercato di noi altri che curre, la libertà [sua]»; piuttosto, appariva sicuro di imminenti promozioni. «I tempi qua si mutano – continuava nella sua missiva al duca di Bracciano – et se non viene principe particolar nemico di casa nostra devo sperar qualche cosa» (Archivio storico capitolino, Archivio Orsini, parte I, 108, n. 0347).
Intanto, Ascanio continuava a mantenersi in contatto con la corte medicea, per concludere il suo ingaggio. I termini del contratto in discussione prevedevano soltanto 600 scudi annui di stipendio, senza obbligo di dimora a Firenze, ma con il suo chiaro impegno a non militare per nessun altro sovrano. Non è certo se si sia addivenuti a una conclusione. Di sicuro, continuò a muoversi tra Firenze e Roma. Qui, intorno al 1600, la sua posizione sembrava finalmente consolidata: era stato assunto come cameriere d’onore del papa; serviva anche fra i «gentilhuomini» del cardinal nipote Pietro Aldobrandini. Accompagnò quest’ultimo in Francia, in occasione della sua legazione per il matrimonio tra Maria de’ Medici ed Enrico IV, e per appianare i contrasti tra la Corona francese e il duca di Savoia Carlo Emanuele I.
Al suo ritorno, il generale di Santa Chiesa Giovan Francesco Aldobrandini lo volle di nuovo con sé, in occasione della terza spedizione in Ungheria. Ricevette subito una ‘patente’ di capitano di compagnia, con una ‘prestanza’, cioè con un anticipo di 1000 scudi sulle prime paghe. Non volle comunque accettare l’incarico «havendo [...] conosciuto la sua povertà» (il card. P. Aldobrandini al generale G.F. Aldobrandini, Roma, 2 giugno 1601, in Archivio segreto Vaticano, Fondo Borghese, s. III, 17a, c. 360r). Inoltre, la presenza nello stato maggiore di ufficiali che riteneva di rango sociale inferiore, come il romano Flaminio Delfini, gli impediva di accettare volentieri un grado simile. Decise di accompagnare comunque il generale Aldobrandini, semplicemente come suo «gentilhuomo».
La campagna contro i turchi del 1601 coincideva con lo sforzo di riconquistare Canisa (l’odierna Nagykanizsa). Le truppe pontificie giunsero sotto le mura della città in settembre. La malattia e la morte del nipote del papa, il giorno 17, a Varasdino (Varaždin), provocarono gravi disordini nello stato maggiore: tre ‘mastri di campo’ – Paolo Savelli, Carlo Malatesta, Orazio Baglioni – si rifiutarono di obbedire a Delfini e si licenziarono. Ascanio Sforza, che era nell’accampamento pontificio a sue spese, come ‘venturiere’, venne più volte contattato per assumere uno dei comandi rimasti vacanti, ma si rifiutò con decisione. Si parlò addirittura di dargli l’incarico di ‘mastro di campo generale’, ma Federico Fabio Ghislieri, uno dei migliori nomi presenti in quell’occasione sul terreno, si oppose, non ritenendolo all’altezza. Nondimeno, Ascanio si impegnava animatamente nelle operazioni. Condusse un attacco con una forza scelta di 300 uomini contro una delle posizioni fortificate più esterne, senza però alcun esito.
Rientrò a Roma tra il 1601 e il 1602. Il suo successivo impiego coincise con la mobilitazione dell’esercito pontificio in occasione della crisi dell’Interdetto di Venezia. Nell’estate del 1606 ispezionò gli ordinamenti militari in Romagna, più esposti a un attacco da parte della Serenissima. In autunno, Ascanio partecipava regolarmente ai consigli di guerra riuniti da papa Paolo V in previsione dello scoppio del conflitto. Quando però, nel gennaio del 1607, fu proposto il suo nome come ‘governatore dell’armi’ di Bologna, il pontefice gli preferì Alessandro Caffarelli, suo consanguineo.
Non sono noti luogo e data di morte di Ascanio Sforza. Secondo quanto riporta il Repertorio di famiglie romane di Giovan Pietro Caffarelli, sarebbe morto prima della fine di aprile 1615 «senza successione» (Biblioteca apostolica Vaticana, Ferrajoli, 283, c. 82v).
Fonti e Bibl.: Oltre alle fonti manoscritte citate, v. G. Brunelli, Soldati del papa. Politica militare e nobiltà nello Stato della Chiesa. 1560-1644, Roma 2003, ad indicem.