GUGLIELMO
Scultore e architetto attivo a Pisa nel penultimo quarto del 12° secolo.Il nome e l'opera di G. sono attestati da due iscrizioni: quella che ricordava la sua sepoltura alla base della facciata della cattedrale pisana ("Sepultura Guilielmi / (m)agistr(i) qui fecit pergum S(an)c(t)e / Marie"), ritrovata nel 1865 (Pisa, Camposanto), e un'altra, nota da trascrizioni seicentesche, pertinente al pergamo eseguito per la cattedrale di Pisa fra il 1159 e il 1162 ("Hoc Guilielmus opus praestantior arte modernis quatuor annorum spatio sed Domini centum decies sex mille duobus") e poi donato al duomo di Cagliari, quando venne sostituito con quello scolpito da Giovanni Pisano fra il 1302 e il 1310. In una lapide sovrastante il pergamo - anch'essa, come la precedente, dispersa nello smontaggio del 1670 (Aleo, 1684) - un'epigrafe metrica ne ricordava la donazione, il trasferimento e la sistemazione nel duomo di Cagliari, correndo l'anno dell'incarnazione 1312 ("Castello castri concexit / Virgini matri direxit / me templum istud invexit / civitas Pisana anno currente milleno / protinus et trecenteno / additoque duodeno / incarnationis"; Scano, 1905, p. 22).Le iscrizioni dunque perpetuano la memoria di G. quale scultore del pergamo della cattedrale di Pisa. Quanto all'attività di architetto, un Guilielmus compare come maestro nell'Opera del duomo, in un documento del 1° gennaio 1165 (Pisa, Arch. di Stato, Carte della Primaziale, S. 5, nr. 1; Milanesi, 19012), insieme a un maestro Riccius. Sebbene accettata in passato (Kreplin, 1922), sembra alquanto improbabile la presenza di un Guglielmo architetto, distinto dallo scultore, nella stessa fabbrica in anni tanto prossimi. Vasari (Le Vite, II, 1967, p. 48) riferisce la tradizione secondo cui G., che egli ritiene tedesco, collaborò con Bonanno Pisano all'erezione del campanile di Pisa (1174); ma come non ha fondamento documentario, né legittimità per riscontri nella cultura del maestro, la sua identificazione con Guglielmo di Innsbruck (Zech, 1935), così appare inverosimile, quanto quella a Bonanno Pisano (v.), l'attribuzione a G. del campanile.L'individuazione artistica di G. rimane perciò legata all'unica opera sicuramente sua, il pergamo ora a Cagliari. Il monumento presenta particolare complessità di lettura, anche per aver subìto due volte lo smembramento e la ricomposizione e per l'assenza totale di notizie sulla struttura primitiva, di disegno guglielmesco; si ignora, infatti, la sua originaria disposizione nel duomo di Pisa. Che nel duomo di Cagliari avesse struttura a cassone unico, lo attesta Fara (Chorographia Sardiniae) quando vi descrive un "suggestus marmoreus affabre elaboratus, multis sustentatur columnis in spiris et quatuor leonum simulacris venuste residentibus". Del tipo di ricomposizione che il pulpito di G. ebbe arrivando in Sardegna, non si sa quanto fedele all'assetto pisano, può considerarsi eventuale replica (Serra, 1989; 1990) il pulpito c.d. di Carlo V (1535), ora nell'atrio della chiesa cagliaritana di S. Michele, dove i tre pannelli frontali a rilievo sono intervallati da figure scultoree reggileggio.Autori del Seicento (Esquirro, 1624; Vico, 1639; Aleo, 1684) segnalano la presenza del grandioso pulpito, con otto lastre a rilievo su leoni stilofori, presso la terza colonna di destra nella cattedrale cagliaritana, anteriormente alle ristrutturazioni della fine del 17° secolo. Nell'occasione fu rimosso, smembrato e integrato con due basamenti baccellati adorni di testine alate, diviso in due mezzi cassoni sorretti da colonne con capitelli originali e addossato alla controfacciata. I leoni stilofori, invece, andarono a ornare la scalea d'accesso e gli spigoli del presbiterio.Privati di una funzione reale, i due amboni risultanti dispongono su tre lati pannelli a doppio registro con i rilievi neotestamentari, che inseriscono tra quelli frontali i sostegni scultorei dei leggii, raffiguranti il tetramorfo e S. Paolo con i discepoli Tito e Timoteo. Nei pannelli istoriati, evidentemente allineati secondo le loro misure, la successione narrativa - dall'Annunciazione all'Ascensione -, esplicata dalle epigrafi ricorrenti lungo il tratto superiore delle cornici di ciascun pannello, presenta uno stravolgimento che nega all'operazione seicentesca il minimo proposito di un ripristino filologico.Le ipotesi per una restituzione dell'assetto del pulpito romanico nel duomo pisano - tornate d'attualità per l'iniziativa di dotare il Mus. dell'Opera della Primaziale Pisana della sua riproduzione in gesso - si muovono su due linee: una ne sostiene la divisione in due parti, l'altra la ricomposizione a cassone unico. Per la primitiva separazione si pronunciò Zech (1935); dopo di lui Sanpaolesi (1956-1957; 1975) ha immaginato due pulpiti chiusi su tre lati e aperti sulla faccia rivolta all'abside, ciascuno sorretto da colonne verso i fedeli e da semicolonne addossate al recinto del coro dall'altro lato; altri (Baracchini, Filieri, 1992b, p. 123) pensano a due cassoni sporgenti da un recinto nel corpo della navata, integrando suggerimenti da esempi romani, come quello in S. Maria in Cosmedin, e toscani, per es. il pulpito del 1161 della cattedrale di Volterra nell'ipotesi restitutiva consentita da una descrizione quattrocentesca. Da ultimo (Calderoni Masetti, 1995) sono state avanzate prove per negare simili possibilità. Salmi (1928) - seguito da Weinberger (1960) e Maltese (1962) - ricostruì invece l'immagine di un unico pulpito, ipotizzando, a completamento del ciclo narrativo, una lastra raffigurante la Crocifissione; ma va osservato che simile integrazione può essere contraddetta dall'esistenza di tutti gli otto pannelli ricordati dalle fonti seicentesche.Salmi (1928), sottolineando il carattere unitario dell'opera, negò l'intervento di aiuti nell'esecuzione delle scene nei pannelli. Sanpaolesi (1956-1957) ha riconosciuto invece più mani di collaboratori, fra cui i maestri del pergamo di Volterra e del fonte battesimale della pieve di Calci (prov. Pisa). Maltese (1962) ha individuato due aiuti, uno che si rivela aduso ai lavori in metallo e all'intaglio in avorio, l'altro rivolto alla ricerca di effetti plastici e orientato da interessi narrativi, attribuendo loro la realizzazione di distinti pannelli e di alcuni leoni.Prima d'essere identificato con il pergamo eseguito per la cattedrale di Pisa (Scano, 1905), il pulpito del duomo di Cagliari fu datato oltre la metà del sec. 13° (Laurière, 1893; Scano, 1901). Brunelli (1901) lo collocò correttamente nel sec. 12°, mentre Venturi (1904), pur avvertendone le incongruenze di stile rispetto a una data così tarda, seguì le suggestioni di Scano (1901), che, leggendo in un primo tempo 1260 nell'epigrafe, riferiva la firma a fra Guglielmo.Una volta ricondotto correttamente nella storia artistica medievale il pergum S(an)c(t)e Marie, a G. si riconobbe il ruolo di "caposcuola della scultura e decorazione pisana del secolo XII" (Salmi, 1928; 1966), commisurandone così l'importanza al solo ambito della Toscana occidentale, mentre la sua storica centralità fra Wiligelmo e Benedetto Antelami è utile a dichiararne la sostanziale autonomia da influssi provenzali (Serra, 1989, p. 135). In assenza di dati documentari sulla nascita e l'educazione di G., si è voluto collegare il suo orientamento classicista a influssi dai cicli scultorei di Saint-Gilles-du-Gard e Saint-Trophime ad Arles, fino a far nascere l'ipotesi di una sua formazione in Provenza. A sostegno sono stati citati sia documenti, come la missione a Pisa dei monaci dell'abbazia avignonese di Saint-Ruf, sia testi scultorei dove compaiono insieme caratteri provenzali e tratti guglielmeschi, per es. il Davide citaredo di Pisa (Mus. dell'Opera della Primaziale Pisana). Ma, pur ammettendo la possibilità di contatti e scambi, bisogna escludere una meccanica filiazione e indicare, piuttosto, le origini di esiti concomitanti nella scultura provenzale e guglielmesca in un comune atteggiamento d'interesse verso l'arte classica (Sheppard, 1959). A prova dell'estraneità di G. all'ambito provenzale vale, peraltro, la componente islamica che, seppure già secondaria nella sua cultura, ne sigla l'estrazione dal cantiere rainaldesco all'opera nella cattedrale pisana per l'ampliamento, l'erezione della nuova facciata e l'allestimento dell'arredo presbiteriale: non a caso, dei sei plutei che vengono riferiti al complesso del pergamo, oggi divisi fra il battistero e il Mus. dell'Opera della Primaziale Pisana, tre si ascrivono (Baracchini, 1986, pp. 73-75) alla taglia di Rainaldo, per il carattere arabizzante dell'intaglio. La formazione di G. dovette quindi compiersi a contatto con le maestranze intente all'edificazione del tempio pisano, dove il classicismo si nutriva delle spoglie romane.La ricerca di soluzioni ispirate all'eredità classica in G. si legò peraltro al costante interesse per innovazioni rivoluzionarie, quali l'assorbimento in un organismo unitario, all'interno dell'edificio sacro, di elementi scultorei solitamente dislocati all'esterno (fregi continui nei prospetti, leoni stilofori nei protiri). Se narrare fatti neotestamentari non fu idea nuova, qui essi compaiono per la prima volta in un pulpito; il motivo classicista del loro svilupparsi in registri sovrapposti, più che con riferimenti ai sarcofagi paleocristiani - come alcuni sostengono (Baracchini, Filieri, 1992a, p. 111) -, può spiegarsi con la volontà, e la necessità, di trasferire nel pulpito quanto di norma si affidava ai cicli pittorici murali, svolti in riquadri a fasce sovrapposte, secondo un ordito che i mosaici e gli affreschi romanici ancora ripetevano dai modelli paleocristiani. È la soluzione che G. trovò, da architetto, al venir meno di spazi adeguati per il dispiegarsi di raffigurazioni pittoriche e musive nell'aula della cattedrale pisana, dovuto alla comparsa dei matronei. Da scultore, G. acquistò grandissima autorità nell'imporre regole nuove, cosicché il modello del pergamo pisano divenne vincolante in Toscana per struttura architettonica, modi narrativi e spunti iconografici fino al volgere del secolo. Lo attestano le numerose repliche e la produzione più vicina al suo atelier: il coevo pulpito della cattedrale di Volterra e il relativo arredo presbiteriale; quello del duomo di Pistoia; quelli minori, per importanza del contesto, della chiesa di S. Gennaro a Capannori (prov. Lucca), siglato da Filippo nel 1162, e del duomo di Pescia (prov. Pistoia), e altri ancora, di cui sopravvivono frammenti e pezzi erratici, come i reggileggio, particolarmente numerosi, repliche della singolare invenzione del tetramorfo.Nel pergamo G. recupera il gusto del racconto, mettendovi al centro la figura umana. Svolge questa operazione guardando ai modelli antichi, di cui rivivono soluzioni decorative, tecnica ed equilibrio compositivo, nel cosciente tentativo di riannodare i legami storici della civitas pisana con la grandezza di Roma. È comunque da rilevare (Baracchini, Filieri, 1992a, p. 111) il debito di G. nei confronti dell'arte bizantina per l'assunzione di modelli iconografici. A lui quindi, anziché a Bonanno Pisano, spetterebbe il merito della fusione di iconografie occidentali e orientali, e lo stesso Bonanno ripropose soluzioni guglielmesche nella porta bronzea della cattedrale di Pisa.Se l'importanza della scultura di G. si conferma, anche nei termini dell'influenza esercitata dalle innovazioni tipologiche, iconografiche e formali, resta tuttavia ancora indefinita una sua impronta di architetto nel complesso della primaziale pisana. Il riconoscimento alla sua memoria, nell'ospitarne le spoglie alla base della facciata, è pari a quello tributato a Buscheto e Rainaldo, ma la scarsità di documenti e la tardiva (Scano, 1905) identificazione del pulpito cagliaritano con il pergum S(an)c(t)e Marie, opera di G. per il duomo di Pisa, fino ad allora considerato perduto, hanno nuociuto alla fortuna critica del maestro, che dovette ricoprire un ruolo specifico nelle fasi costruttive della cattedrale pisana. È possibile (Baracchini, 1986) riconoscere affinità sempre più decise con la taglia guglielmesca man mano che si sale verso il culmine della facciata e che si viene avanti per i matronei, e anzi attribuire (Caleca, 1989) la decorazione di buona parte della facciata a una maestranza formatasi sotto di lui, in seguito voltasi ai modi biduineschi (ultimo quarto sec. 12°).
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