CIMINNA, Guglielmo Ventimiglia barone di
Nacque tra il 1484 e il 1490, probabilmente a Ciminna (Palermo) da Paolo, barone di quella terra, e da Giovannella Moncada. Cresciuto in ambiente feudale e destinato a succedere al padre nel governo della terra, da varie generazioni posseduta dalla famiglia, è ben presto introdotto nella società baronalo della capitale dove, nel 1509, sposa Elisabetta Abbatelli, sorella di Federico Abbatelli, conte di Cammarata, maestro portulano del Regno. È un matrimonio di interesse; infatti i 14.000 fiorini portati in dote dalla moglie serviranno per pagare i debiti di cui è già oberato e che in parte erediterà dal padre. Alla morte di questo, avvenuta nel 1515, prende possesso delle baronie di Ciminna e di Sperlinga, di cui ottiene investitura il 10 genn. 1516.
Per i rapporti di amicizia e di parentela che lo legano con i rappresentanti più in vista della nobiltà feudale palermitana non può fare a meno di partecipare attivamente alla vita politica. Nel 1516 lo troviamo infatti, a fianco del cognato Federico Abbatelli, fra i sostenitori del partito, anti-Moncada, di cui fanno pure parte Pietro Cardona conte di Golisano, Simone Ventimiglia marchese di Geraci, Matteo Santapau marchese di Licodia, Girolamo Filingeri conte di San Marco, Giambattista Barresi, barone di Militello; tutta gente che, per un motivo o per un altro, nutre odio verso la Spagna, il re Ferdinandoeil suo rappresentante in Sicilia Ugo Moncada. Nel Parlamento congregato nel marzo 1516 è tra quelli che sostengono decaduta, in seguito alla morte di re Ferdinando, l'autorità del viceré, e quando il Moncada scioglie il Parlamento il C. e gli altri dissidenti si avviano verso Messina dove intendono trasferire il Parlamento per continuare i lavori.
Tornato a Palermo a seguito della cacciata del Moncada, nell'aprile del 1516 il C. viene inviato messaggero a Catania per far approvare dai consigli civici delle comunità demaniali la nomina dei due presidenti del Regno proposti dal Parlamento, il marchese di Geraci e il marchese di Licodia.
Gli stretti legami che costituivano le consorterie e ne permettevano la sopravvivenza e soprattutto i vincoli di parentela e di interesse con individui notoriamente turbolenti, come il conte di Cammarata, non potevano non farlo apparire, allo scoppio della rivolta Squarcialupo (1517), come l'effettivo capo e il principale ispiratore della sommossa, che aveva come motivo apparente quello di vendicare la presunta carcerazione e morte dei conti di Golisano e di Cammarata. Non sono tutt'oggi chiari gli scopi veri perseguiti dallo Squarcialupo e da quelli che si nascondevano dietro di lui, ma è certo che. gli ispiratori erano elementi appartenenti all'aristocrazia i cui interessi erano stati colpiti dalla rigorosa politica del Moncada, che non aveva esitato a mettere sotto inchiesta i principali funzionari accusati di malversazioni e peculato. Uno di questi era appunto lo stesso cognato del C., Federico Abbatelli, che poi ayrebbe finito col farsi mandante dell'assassinio del "contador" incaricato dell'inchiesta. Certo costoro avrébbero avuto vantaggi innegabili dall'avvicendamento nelle più alte cariche dello Stato; il Di Blasi ricorda che i capi dei rivoltosi, Francesco Barresi, Baldassare Settimo, Alfonso Rosa, Pietro Spatafora ed altri erano di famiglia nobile ma stracarichi di dèbiti, nelle stesse condizioni insomma di Guglielmo Ventimiglia. Non si può dunque escludere che il C. sia stato il principale motore della rivolta come voleva la fama pubblica; anzi la cosa appare più verosimile se si pensa che, allontanati dalla scena politica, almeno per il momento, il Cammarata, il Golisano, il Geraci e il Licodia, il C. era rimasto l'esponente più in vista del gruppo cheaveva provocato la rivolta contro il Moncada.
Si sa che lo scopo dei congiurati era quello di giustiziare sommariamente molti membri del Sacro Regio Consiglio, considerati complici del viceré e autori delle persecuzioni operate al tempo del Moncada. Fallito l'attentato fissato per il 23 luglio 1517, i rivoltosi si diedero a saccheggi, ruberie e assassini. In occasione di questa seconda sollevazione però, anche per gli scopi poco chiari della rivolta, la nobiltà che aveva mosso le fila si spaventa e si ritira, mentre i conservatori preparano la reazione. Il C., vedendo compromessa la causa della sommossa, per non restare isolato e per salvarsi è costretto a fare il doppio gioco; tradendo lo Squarcialupo, offre al viceré i suoi servigi. Si accorda tacitamente col Pignatelli (che sulle prime appare restio a prestargli fede) e accetta la carica di capitano di giustizia di Palermo, mentre in apparenza continua ad appoggiare i rivoltosi che in questa nomina vedono il primo passo del loro ingresso nel governo della città.
Intanto insieme con altri patrizi - Nicolò e Francesco Bologna, Pompilio Imperatore, Pietro Afflitto, Alfonso Saladino, Girolamo Imbonetto - il C. concerta l'eliminazione dei congiurati e lo spegnimento della rivolta. L'8 sett. 1517 nella chiesa dell'Annunciata, dove le parti avverse si erano riunite per discutere le riforme da apportare al governo della città, per suo ordine i principali congiurati vengono trucidati. Immediatamente, con i suoi uomini e con l'aiuto di un reparto di soldati spagnoli il C. si dà all'inseguimento degli altri rivoltosi; cattura Francesco Barresi e fa trasportare nel palazzo reale le armi e i cannoni che erano sui baluardi della città, per prevenire nuove sommosse. Questa azione mette fine a una delle più violente rivolte che la storia di Sicilia ricordi; ma fu forse questa esperienza non certo positiva, che solo in extremis il C. era riuscito a volgere in suo favore, a indurlo a ritirarsi dalla vita politica. Non lo vediamo infatti tra i protagonisti della congiura dei fratelli Imperatore, che pochi anni dopo si concluderà con la morte dei congiurati e costerà la vita al conte di Cammarata, giustiziato nel 1523.
In verità il C. si trovava alle prese con gravi problemi finanziari, causati dai debiti di anno in anno più pesanti e a cui i proventi delle baronie, oberate di gravezze, non bastavano a far fronte, anche a causa della sterilità della terra. I suoi debiti, che si trovano elencati in una commissione del 27 ott. 1521 con cui il viceré Monteleone incaricava un funzionario di procedere alla liquidazione (ripetuta due anni dopo), ammontavano a 1.127 onze annue. L'essere stato il principale artefice della repressione della rivolta Squarcialupo non gli valse gran che: nel 1523 gli vennero assegnati dal sovrano 300 ducati l'anno sull'estrazione di frumento e legumi dai caricatori non riservati, poca cosa in confronto ai debiti in continuo aumento. Nel 1534 fu costretto a vendere i feudi di Thiri e Vescana della baronia di Sperlinga; tali feudi, già pignorati da Antonio Bologna, vennero poi riscattati da Simone Ventimiglia, marchese di Geraci, che offrì 11.250 fiorini, pari a 2.250 onze.
È di questi anni il secondo matrimonio con Brigida Alliata, figlia di Giacomo, barone di Castellammare. Il C. resta ormai quasi sempre nel suo castello di Ciminna e i contatti con la vita politica della capitale sono sporadici. Ricopre negli anni 1542-43 la carica di pretore di Palermo, nel 1536-38 e nel 1540 è ministro della Compagnia della Candelora e nel 1548-49 g0vernatore della Compagnia dei Bianchi. Muore improvvisamente a Ciminna il 28 maggio 1552 e gli succede la figlia primogenita Maria di quattordici anni, la quale viene subito data in sposa a Simone Ventimiglia, nipote di quel marchese di Geraci che abbiamo visto capeggiare la rivolta anti-Moncada. Poiché lo sposo era stratigoto di Messina, le nozze, svoltesi in quella città, sono ricordate dal Buonfiglio.
I capitoli matrimoniali della figlia gettano qualche sprazzo di luce sulla vita di Guglielmo Ventimiglia, che fu senza dubbio, almeno in parte, condizionata dalla continua persecuzione dei creditori. La vedova ricorda che il marito aveva "consumato" tutta la sua dote per pagare i debiti, mentre la figlia si obbliga a "cavare di danno" lo zio materno, Ludovico Alliata barone di. Castellammare, per le obbligazionl assunte come garante del padre.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Palermo Cancelleria, reg. 257, cc. 62v, 169, 206v; reg. 271, c. 137; reg. 276, c. 88v; reg. 280, c. 172v; Protonotaro, Processi di investitura, b. 1495, nn. 856, 945; b. 1502, n. 1479; b. 1511, nn. 1875, 1879; b. 1513, n. 1987; Notaio Matteo Fallera, reg. 1768, c. 1183; Notaio Giacomo Scavuzzo, vol. 3036, 20 giugno 1534; Palermo, Bibl. com., ms. Qq D.84: Historia coniurationis Io. Lucae Squarcialupi;T. Fazello, De rebus Siculis, s. l.né d. [Palermo 1560], pp. 598, 604 ss.; F. Maurolico, Della storia di Sicilia, Palermo 1849, pp. 320 ss.; F. Paruta-N. Palmerino, Diario della città di Palermo, in G. Di Marzo, Bibl. stor. e lett. di Sicilia, I, Palermo 1869, pp. 7 ss.; V. Di Giovanni, Del Palermo restaurato, ibid., II, ibid. 1872, pp. 142 ss.; F. Del Carretto, Hist. de expuls. Ugonis de Moncada, in G. Salvo Cozzo, Cronache di Carlo V, in Arch. stor. sicil., V (1880), pp. 151-174; A. Merlino, Cronaca, ibid., VI (1881), pp. 113 ss.; G. Buonfiglio, Historia sicil., II, Messina 1739, pp. 21, 29 ss., 145; F. M. Emanuele e Gaetani di Villabianca, Della Sicilia nobile, Palermo 1754-59, II, p. 56; IV, pp. 9, 58, 97, 117; G. E. Di Blasi, Storia cronol. dei viceré, presidenti e luogotenenti del regno di Sicilia, Palermo 1867, pp. 157 ss.; F. San Martino De Spucches, La storia dei feudi e dei titoli nobil. di Sicilia, III, Palermo 1925, pp. 30 ss.; I. La Lumia, La Sicilia sotto Carlo V, in Storie siciliane, III, Palermo 1969, pp. 45 ss.; C. Trasselli, Squarcialupo, in NuoviQuaderni del Meridione, VII (1969), pp. 460 ss.